2009-12-26

Fuochi artificiali

I fuochi artificiali sono una delle grandi invenzioni cinesi, di questo bisogna darne atto. Credo che in nessun Paese al mondo i fuochi siano belli, numerosi ed economici come in Cina. Non si può immaginare quanto, venendo dall'Italia (esclusa Napoli, forse, che per i fuochi ha una passione speciale).

La mia prima esperienza con i fuochi risale al 2003 ed è indiretta: ai quei tempi a Pechino vigeva il divieto di usarne entro il quarto anello, per questioni di sicurezza. Ciononostante era frequente vedere fuochi sparati per aria, quindi sentire un suono di passi che correvano via, risate, e una sirena della polizia che accorreva. Ma tutto sommato non c'era nulla di strano, i fuochi di questo tipo erano piccoli.

La mia prima esperienza diretta con i fuochi avviene nel 2007 sul monte Emei, in Sichuan. Dandan mi chiede se voglio provare e compra dei bastoni di poco meno di un metro a bordo strada. Li accendiamo davanti al negozio e li puntiamo in aria: presto ne escono meravigliose comete colorate che sparano fino a 10 metri d'altezza, infrangendosi sui rami degli alberi che costeggiano la stretta strada in cui siamo. Si ferma una macchina della polizia che ci guarda. Alcune scintille finiscono sulla macchina. Ci spostiamo 20 metri più in là, aspettiamo che la polizia se ne vada, e ne accendiamo ancora. Capisco quindi il perché del divieto di Pechino, e anche il perché tanta gente lo violi spavaldamente. E' tanto pericoloso quanto divertente.

Nel 2007-2008 il divieto di sparare fuochi in aree urbane viene progressivamente rimosso. Per tutta la settimana del capodanno cinese, in Cina scoppia la guerra. Da mattina a sera e fino a notte inoltrata è un continuare di botti, mortaretti, tricchetracche, fontane, fiori di ogni colore. Niente di simile ai partenopei “pallone di Maradona” o “bomba Osama”, qui il suono è secondario e lasciato ai poveri più poveri: il divertimento è la luce, sono i colori. L'odore della polvere da sparo riempie l'aria, i marciapiedi sono coperti della carta rossa dei fuochi esplosi, come un tappeto, che i netturbini si affrettano a scopare via nelle ore piccole, quando la guerra si calma.


Nel 2008 siamo a Chengdu e decido che voglio fare acquisti: ci rechiamo quindi in uno dei numerosi tendoni eretti a bordo strada per la vendita di fuochi artificiali. Il costo è ridicolo: sia va dai 5 kuai per un ventaglio, ai 15 kuai per dei fiori, sino alla costosissima “Pagoda dei Cento Fiori”, una bomba grande poco meno di un pallone, che mi porto a casa per 30 kuai. C'è tanta altra roba, le classiche trottole, dei bengala con la caricatura di bin Laden, pelle blu e occhi bianchi pieni di elettricità, e pacchi più grandi che non oso nemmeno esaminare. Porto a casa i miei acquisti e mi preparo a ignirli la sera stessa.


La sera stessa io, Dandan e suo padre usciamo per sperimentare i nostri acquisti. Decidiamo di posizionarci in un luogo che a noi sembra moderatamente sicuro, ossia il lungofiume che a quest'ora di sera umida e fredda è deserto. Attorno a noi alberi e panchine, da un lato il fiume Funan, dall'altro una strada non esageratamente trafficata, e distante almeno 15 metri. Cominciamo con i ventagli: hanno la forma dei classici ventagli cinesi, a guisa di farfalla: li reggiamo in mano puntandoli verso il fiume, quasi tremando per l'eccitazione e la paura di manovrare materiale esplosivo. Il primo non s'accende, il secondo fa una fontanella luminosa lunga un metro; bello, però ci aspettavamo di più. D'altra parte per 5 kuai cosa pretendi?


Un po' delusi ma al tempo stesso rassicurati sul potenziale esplosivo dei fuochi, passiamo ai fiori. Li chiamo fiori perché si suppone facciano le classiche esplosioni a fiore nel cielo, la forma è un tondo composto da 6 candelotti e un peso centrale che dovrebbe tenere fissa la base mentre spara. Posizioniamo il primo vicino alla ringhiera del fiume e lo accendiamo: il primo candelotto parte, fa la sua bella fontana con scoppi vari ed poi scaglia un razzo verso l'alto, che esplode in un fiore meraviglioso di color oro. Purtroppo il rinculo fa sì che l'intera base caschi sul lato, sicché gli altri 5 candelotti sparano in direzione orizzontale, per fortuna non verso di noi, ma verso cespugli, panchine e acqua. Capita l'affidabilità del peso centrale, decido di porre il secondo fiore tra due sassi belli pesanti (in Cina i sassi belli pesanti si trovano ovunque, perché o c'è un cantiere vicino, oppure qualcosa perde pezzi, nel nostro caso gli scalini che scendono al fiume offrono dei bei pezzi di cemento regolari da svariati chili l'uno), di modo che sia incastrato e non possa muoversi. I primi tre fiori salgono verticali: rossi, gialli, verdi, stupendi, non riesco a credere che una tale meraviglia possa costare 15 kuai, quando in Italia i prezzi sono almeno 40 volte più alti! Senonché il lancio del terzo fiore sposta anche le pietre, e quindi la base si inclina sul lato: il quarto fiore sfreccia tra gli alberi sfiorando dei passanti, il quinto si infila sotto un taxi in corsa e gli esplode a mezzo metro dalla portiera, in un caos di scintille d'ogni colore, il sesto parte in direzione di uno dei sassi, e qui esplode subito a pochi metri da noi, che nel frattempo ci siamo già riparati dietro alcuni alberi. Occhei... appunto per il prossimo lancio: più attenzione e meno fiducia nella stabilità dei fuochi.
Ci rimane la Pagoda dei Cento Fiori: questa volta troviamo due bei sassi da 10 kg ciascuno, presi da un'aiuola lì vicino, e poniamo la base sulla scala che scende al fiume, di modo che se si inclina al massimo spara nel fiume o contro la scala, e non sulla strada. Accendo tremante l'ordigno e fuggo al riparo insieme a Dandan e suo padre. La Pagoda per alcuni secondi rimane tranquilla, quindi comincia con le prime scintille che presto si sviluppano in una fontana che, per un minuto intero, cambia di altezza e colore stupendoci ogni volta. Quindi scema scagliando girandole in ogni direzione, che finiscono parte nell'acqua e parte sopra la scala, per cui abbiamo modo di ammirarle. Infine la luce gradualmente si spegne, lasciandoci la soddisfazione di un fuoco riuscito bene.

Torniamo a casa ancora eccitati, già pensando all'anno prossimo. Tutta Chengdu nel frattempo esplode fuochi, in ogni direzione l'orizzonte scuro e nebbioso è illuminato da luci colorate. Fischi e scoppi si susseguono senza lasciare che il silenzio li separi. C'è gente nei cantieri chiusi, gente sui tetti delle case, gente in strada, ovunque ci sia spazio qualcuno esplode fuochi. Nessuno apparentemente sembra preoccupato della loro pericolosità, e quindi per effetto della psicologia dei gruppi anche io non me ne preoccupo: è una notte di festa, e quindi conta divertirsi. Domani forse si stimeranno i danni, ma per stasera, godiamoci lo spettacolo!


2009-12-12

Propaganda Olimpica


Il padre di Dandan è uno dei pochi che ancora credono fermamente nel Partito Comunista e nella sua missione. Lo zio Cheng ha fatto carriera grazie alla sua fedeltà alla linea di Partito, alla sua comprensione della stessa, e alla sua onestà – è anche uno dei pochi che non ha mai preso mazzette, e lo si capisce dal fatto che, mentre i suoi colleghi vanno al lavoro con la BMW nera guidata dall’autista, lui non ha l'autista e nemmeno la macchina, considera il taxi un lusso poco necessario e si reca in ufficio con il proletarissimo autobus.

Essendo vice-assessore allo sport della provincia del Sichuan, sono anni che la sua coscienza viene bombardata dalla propaganda tremenda per le Olimpiadi. Apriamo una parentesi – la Cina vede le Olimpiadi come una chance di riabilitare la sua fama presso l’opinione pubblica internazionale come Paese moderno, efficiente e amichevole. Per questo tutto per le Olimpiadi deve essere perfetto. Da quando Pechino ha vinto il bando, nel 2002, in tutta la Cina non si parla che di Olimpiadi e soprattutto a Pechino ogni settimana ci sono varie campagne di educazione – l’educazione all’inglese, l’educazione a fare la fila, l’educazione a non sputare, tutte prese seriamente dalla popolazione, anche se la naturale pigrizia mentale dei pechinesi li porta sempre a risultati parziali e non durevoli. Il signor Cheng in questi anni non ha fatto che viaggiare in lungo e in largo e preparare cerimonie varie con delegazioni sportive straniere, la più importante delle quali è stato il passaggio della fiaccola olimpica per le varie località del Sichuan.

Va da sé che qualunque gadget la mente di un cinese possa concepire in relazione alle Olimpiadi e alle sue mascotte, gli adorabili fuwa, lui l’abbia ricevuto in dono dal produttore. Visto che, con tonnellate di paccottiglia, il suo ufficio non può andare avanti, né il signor Cheng saprebbe che farsene, regala tutto quello che riceve, ma riceve talmente tanto che non riesce a regalare tutto. Così, quando arriviamo a Chengdu, ecco che ci accoglie con dei doni, e una frase tipo “Mi hanno regalato questa cosa, pensavo di darla a te... ”. Lo fa con nonchalance, approfittando di ogni momento buono. Appena abbassi la guardia – tac! Ecco che si ricorda che ha proprio una cosa che non usa e voleva darti. Nell’ordine riceviamo: due cappelli con visiera col logo Beijing 2008, una T-shirt con logo Beijing 2008, una T-shirt commemorativa del passaggio della fiaccola olimpica da Chengdu (che accadrà tra circa 4 mesi), una giacca impermeabile con logo Beijing 2008, cinque gagliardetti da parete (uno per ogni fuwa), una collezione di spille Coca Cola ispirate alle Olimpiadi, un’agenda del dipartimento dello sport del Sichuan con il calendario delle città visitate dalla fiaccola, un paio di scarpe Nike originali, due segnalibri in metallo con l’immagine di un fuwa, una chiave USB a forma di fuwa, e un mini-trofeo di alluminio e bronzo a forma di braciere, in cui la fiamma olimpica è rappresentata da una serie di piccole pietre gialle arancioni e rosse incastonate nel metallo, a commemorazione del passaggio della fiaccola dal Sichuan, con allegato dépliant del tragitto e specifiche tecniche della fiaccola alla cinese.

Più altre cose che al momento non ricordo. Però mi ricordo di un momento in cui io, Dandan e il signor Cheng eravamo in cortile, e davanti a noi c’era un cartello con le regole condominiali e in fondo (tanto per cambiare), le immagini dei fuwa.
“A me piace Jingjing” dice Dandan.
“A me piace Nini” dico io. Poi, dopo una pausa in cui tutti e tre guardiamo le adorabili bestiole, io chiedo:
“Mi Nini è maschio o femmina?”
“Secondo me è femmina” dice Dandan.
“Secondo me è maschio, o al massimo gay, la femmina è Beibei” commento io.
Dandan si volta a chiedere a suo padre, la cui saggia parola dirimerà ogni conflitto.
“Mah... ” dice il signor Cheng perplesso, con l'aria di chi risponde a una domanda veramente oziosa “Per come la vedo io, son tutte femmine tranne il panda”.

2009-11-29

Cieli Blu su Pechino... anche quelli falsi!

Quando il comitato Olimpico, all’inizio del decennio, assegnò a Pechino le Olimpiadi del 2008, si trattò chiaramente di una decisione politica. La Cina voleva dimostrare al mondo di essere parte di una comunità internazionale, e sfatare tutti i miti negativi relativi a un popolo cinese isolazionista e ostile verso gli stranieri. Le altre nazioni le concedevano volentieri l’opportunità in modo che si integrasse meglio nel sistema politico globale. Lodevole.

Solo che, all’indomani della decisione politica, i tecnici come al solito sollevarono obiezioni. I politici per natura vedono le opportunità delle cose, i tecnici ne vedono i limiti. La domanda che fece uno di questi tecnici fu: “Come si fa a pensare di organizzare l’evento sportivo più grosso del pianeta in uno dei suoi luoghi più inquinati?”. E un altro chiosò: “Come fa un atleta a sperare di superare un record, quando è svantaggiato dal respirare più ossido di carbonio che ossigeno?”. Al che qualcuno, probabilmente un politico, probabilmente cinese o amico dei cinesi disse “No worry, by 2008 everything will be under control!”

E così arriviamo al 2007. In questi anni Pechino è divenuta la città all’avanguardia per i progetti ecologici. Ci sono interi palazzi e fabbriche energeticamente autonomi e ad emissioni zero, ci sono parchi sterminati, ci sono alberi ovunque e la loro protezione non ha pari in nessun luogo del mondo. Contemporaneamente, tutte le strutture costruite prima del 2000 sono ancora alimentate a carbone, e nelle strade vengono immatricolate circa 1000 nuove vetture al giorno. Il comitato olimpico, forzato dalla politica ad essere misericordioso, ha concordato con la municipalità di Pechino che, nel 2007, la città dovrà mantenere un numero di giorni “a cielo blu” (“blue sky”) pari a 245.


E qui apriamo una parentesi tecnica: cosa si intende per “cielo blu”? Lo standard concordato è quello di un API (Air Pollution Index) inferiore a 100. L’API è un indice che misura la quantità nell’aria di 4 sostanze chimiche, più il PM10, ovvero le particelle di dimensione inferiore a 10 micron, note alla massa come “polveri sottili”. Il valore più alto tra queste 5 misurazioni diventa l’API. A Pechino il valore più alto, vuoi perché il clima è estremamente secco e ventoso, vuoi per la quantità di cantieri, caldaie a carbone e motori del periodo maoista, è sempre quello del PM10.


Per capire a cosa corrisponde uno standard di API 100 per 245 giorni in un anno, diremo che, in Europa, l’indice di base è quello di API 50 per 330 giorni l’anno. Se si sfora, viene dichiarata “emergenza”, e si passa a misure come le targhe alterne, la chiusura del centro delle città, la dichiarazione di illegalità di determinati impianti inquinanti, ecc. Questo per riflettere sulla relatività delle cose.


Siamo al 28 novembre 2007, e la città ha avuto 229 giorni “a cielo blu”. Tutti contenti, tutti a farsi i complimenti: “E’ stata dura, con questi standard così stringenti del comitato olimpico, ma alla fine ce l’abbiamo quasi fatta, con un po’ di fortuna raggiungeremo il limite di 245 giorni e potremmo persino superarlo! One world one dream!”. Così s’era festeggiato.


Senonché, a partire da metà dicembre, per cause ancora non spiegate, sopra Pechino si è formata una sorta di nube di smog di proporzioni apocalittiche, una via di mezzo tra la nuvola di Fantozzi e quella che nel film Ghostbusters anticipa il ritorno di Zool nel mondo; non c'è bisogno di specificare che tutto ciò non era minimamente sotto, o anche solo vicino, al limite di API 100. Il giorno di Natale, l’API era di 280; a Santo Stefano 269. Il 27 dicembre, signore e signori, l’API era a 421, un livello di PM10 più di 8 volte superiore alla soglia di emergenza europea, al punto che il Comune stesso ha emesso un bollettino del tipo ‘The aged and patients should stay indoors and avoid strength draining; the ordinary should avoid outdoor activities.’, che poi è un messaggio standard emesso quando l’API supera i 300. Il 28 dicembre, i misuratori dell’API si sono incantati, perché misurano solo fino a 500, poi s’impallano.


Per fortuna nel pomeriggio del 28 dicembre s’è alzato un gran vento, e il livello di PM10 si è normalizzato, cosicché a fine anno Pechino ha raggiunto, preciso preciso, il numero di 245 giorni di “cieli blu” sul totale. Fuochi d’artificio, tricchetracche e brindisi cordiali a baijiu. Anche il comitato olimpico ha fatto la scena di complimentarsi, con poca convinzione va detto, ma la scena l’ha fatta.


Solo che quello che né i media cinesi, ma nemmeno quelli olimpici, riferiscono è che le misurazioni non sono state proprio regolari. Qui ci viene in aiuto un grandissimo sito web, Beijing Air, che nota numerosissime stranezze, di cui la migliore è decisamente questa: a parte il fatto che il sistema cinese considera un API 100 come “al di sotto della soglia di allarme”, che fa partire da 101, si nota un’incidenza assolutamente anormale di risultati appena sotto il 101, e un’incidenza ridicolmente bassa per quelli immediatamente superiori a 100. Il grafico sarà d’aiuto:



Come si fa ad avere 21 giorni ad API 98, 11 giorni ad API 99, 9 giorni ad API 100 e poi... 1 giorno a 101, 2 giorni 102, 1 giorno a 103 e 104 rispettivamente, e così via... mmmmhhh... che qualcuno abbia fatto tornare i dati? Che le medie ponderate delle colonnine siano ponderate ad arte?Mah... forse non lo vogliamo sapere. Nel dubbio che qualcuno sollevi illegittimità sui sistemi di misurazione, dal 1° gennaio 2008 il Dipartimento di Protezione Ambientale di Pechino (BEPB) ha rilocalizzato le 27 colonnine in modo più razionale – ovvero ne ha tolte tre in pieno centro città e le ha spostate in aperta campagna. Geniale no?

Come dire, “One world, one dream!”. Continuiamo a sognare…

2009-11-13

Gente che va, gente che viene

Ne ho viste tante di facce, nei due e più anni che ho vissuto a Pechino. Ma il mio tempo di permanenza sta superando una lunghezza critica, e chi è arrivato nel mio stesso periodo comincia ad andarsene. Il Genio è in Germania con una figlia, Dom è tornato in Australia per dare l'esame da avvocato, Viola è in partenza per la Svizzera dove ha trovato un lavoro migliore, Benjamin è stato rimpatriato forzatamente negli USA, Federico e Irene sono tornati in Italia, logorati dalla Pechino che si prepara alle Olimpiadi.

La Cina non è un Paese facile, ed è per questo che pochi stranieri ci vivono a lungo. Difficile trovare qualcuno che sta per più di tre, quattro anni, e che potendo andarsene rimane. E’ un Paese che, alla lunga, ti logora i nervi. Molti giovani vengono in Cina per fare curriculum, senza una reale passione per questo luogo, ed è normale che, dopo un tempo minimo di esperienza lavorativa, dicano addio.
La conseguenza è che Pechino, pur essendo la città in Cina dove in media la permanenza degli stranieri è più lunga, rimane un porto di mare con continui arrivi e partenze. All’inizio è divertente, si conosce tantissima gente, ed è facile stringere amicizie anche profonde con gente che, come te, si trova sola e catapultata dall’altra parte del Mondo. Ma poi, più il tempo passa, più ti accorgi che la gente va e viene, e non si può contare su nulla per sempre. Mano a mano che i vecchi amici scompaiono, le profondità dei rapporti diminuisce, con la consapevolezza che tutto dovrà finire a breve. Uscire con i nuovi arrivati, che se la ridono di come parlano inglese i camerieri e parlano del mercato di Panjiayuan come la frontiera della Cina misteriosa, non ha senso. Gli amici diventano conoscenze, le conoscenze diventano contatti di lavoro, e la vita sociale diminuisce fino alla sconfitta morale definitiva, ovvero la prostrazione quotidiana sul divano, in fronte all’altare del dio DVD.

Non è facile accettare la situazione. Molta gente se ne va in branchi: parte un membro del gruppo, e gli altri seguono a ruota in prenda a disorientamento sociale. D’altra parte, se le persone cambiano ma la tua vita rimane la stessa, c’è parecchio da annoiarsi. Meglio il contrario, tener gli amici vicini e cambiare casa e lavoro tantopiù che, al contrario di quanto si immagini, non sono in molti ad essere professionalmente realizzati in Cina, specie i giovani.

E chi è qui da anni e anni, come fa? Qualcuno, e nello specifico chi ha fatto i soldi, si isola nell'ambiente espatriato della bella vita, tra ricevimenti e incontri al club. Qualcun altro ha trovato il suo ambiente tra i cinesi: su loro puoi contare, non se vanno facilmente dal loro Paese; ma al tempo stesso sono diversi, troppo diversi. Anche Dandan, che ha studiato all'estero e vive con me, comincia a sentirsi a disagio con molti di loro – troppo chiusi mentalmente, troppo rigidi, con delle abitudini incompatibili. Per i suoi coetanei, uscire a cena alle 6.30 e tornare a casa per le 9.30-10.00 è già una botta di vita che non riescono a reggere per più di una volta al mese. Le conversazioni dei trentenni vertono principalmente su problemi di salute (e soluzioni della nonna Wang basate sulla medicina cinese) e sulla pianificazione economica della famiglia (stipendio, mutuo per la casa, automobile, costo dei figli, ecc.).

Io e Dandan ci ancoriamo a noi stessi, passano la maggior parte del nostro tempo in due, sforzandoci di uscire ogni tanto, per una cena o una bevuta, un concerto, o una gita in qualche parte della città inesplorata. Sono tempi duri, e cerchiamo di resistere fino a che qualcosa cambi, e una soluzione spunti da sola.

Per fortuna, non dovremo attendere a lungo. Una nuova ondata di persone, conosciute e non, sta per arrivare a Pechino, e la nostra vita sociale finalmente si darà una mossa.

2009-11-08

Capodanno 2008


Il Natale dell'anno 2007 passa senza quasi farsi notare. Nonostante Dandan sia qui a Pechino, per lei è giorno lavorativo, e anche nel mio ufficio si lavora. Mi prendo comunque una giornata di ferie, ma non è la stessa cosa: manca il clima di festa. La famiglia, tra l'altro, è lontana e mi manca. La sera della vigilia io e Dandan pranziamo a casa, cucinando quello che possiamo visto che entrambi stacchiamo dal lavoro alle 6.30; affettiamo per festeggiare un panettone fatto localmente da un ristorante italiano, costa 50 RMB contro i 200 e passa dell'originale Motta o Bauli, ma è duro come legno. Il giorno di Natale, durante la pausa pranzo, decidiamo di andare al Luce, un ristorante italiano vicino al Gulou, nella città vecchia, ma scopriamo solo all'arrivo che è chiuso, e quindi ci buttiamo sul Raj, l'indiano che sta all'angolo della stessa via. Ma non è la stessa cosa. La sera siamo invitati a casa della mia professoressa, quella che mi ha mandato in Cina, e ora vive qui con la famiglia ricoprendo un importante incarico all'ambasciata. E' una cena piacevole, con italiani e con cinesi, ma ancora si avvicina poco all'idea di Natale.

E' a causa di questo che forse sento il dovere di fare qualcosa di significativo per Capodanno, ma di fatto anche su questo fronte Pechino offre ben poco. Ci sono le solite feste nei locali dove ci si alcolizza a poco prezzo e si cerca di accoppiarsi, partendo alti e diminuendo il tiro con il procedere della serata; oppure ci sono le feste dei bar fighetti dove si brinda a champagne e si spende una fortuna per il puro gusto di farsi vedere da altra gente. Sono poco positivo.

L'incontro con Dom al 7 Eleven è un segno, o almeno così io lo interpreto. La sera stessa lo invitiamo all'Indian Kitchen, un altro ristorante indiano a Sanlitun, insieme a un gruppo di altri amici italiani e cinesi – Viola, Alba e Gianluca. Quella sera decidiamo di fare una festa nostra, a casa degli ultimi due della lista, organizzando tutto da noi. Sono le feste in casa quelle che rendono i capodanni memorabili.

Meno di due settimane dopo è il 31 dicembre, e Dom viene a prendermi in ufficio dove ci carichiamo di vino. Saliamo in taxi e una mezz'oretta di traffico dopo siamo al Fuli Cheng, colossale complesso residenziale a sud del Guomao, dove Gianluca vive insieme a un coinquilino, giornalista per un importante quotidiano sportivo italiano, che per pur caso non c'è. L'appartamento è grande e arredato con gusto, con grandi piante ed elementi d'arredo cinese e africani (scopriamo che il coinquilini è cresciuto in Africa). E' la prima festa semiseria che organizziamo, e quindi i risultati sono alterni, ma non ci facciamo caso: l'importante è divertirsi e stare assieme. Le donne si chiudono in cucina a cucinare – ci sono costolette di maiale alla pechinese, costolette di maiale in agrodolce, e una sorta di lasagna clamorosamente sbagliata che si trasforma in pasticcio. Noi uomini stappiamo il vino, che scorre a fiumi, e mettiamo su la musica: Dom si improvvisa DJ e a sorpresa stupisce con Bob Dylan e gli Stones. L'atmosfera è cordiale, complice l'alcool. Tutti si divertono, pare addirittura possa nascere qualcosa tra Viola e Dom – del resto che festa di capodanno sarebbe senza un colpo di fulmine?

A mezzanotte non ci sono fuochi, la città è incredibilmente tranquilla. Noi spariamo la nona di Beethoven a palla brindando con panettone, quello buono, e Brachetto d'Aqui. Strani e rumorosi questi laowai, penseranno i vicini; come che sia, la cosa non ci riguarda.



Ad euforia della mezzanotte passata, saliamo sul tetto, oltre il ventesimo o venticinquesimo piano. Fa un freddo eccessivo e il vento tira come fa solo qui. Si vedono le stelle e la skyline di tutta la città, a nord il CBD e a sud l'anonima successione di palazzi residenziali tutti uguali che costituisce la periferia meridionale della città. Vista così, nella sua immensità di buio, grigio e fari di posizione, è uno spettacolo terribile e sconcertante. Ma noi ci siamo quasi abituati. Guardiamo lo spettacolo con gli occhi che lacrimano a causa del vento, e giochiamo a identificare i palazzi più alti: laggiù c'è il Park Hyatt, colorato di un rosso violento, quello è il Jianwai SOHO, quello il Guomao; e poi la China Garment Tower, la sagoma in costruzione della CCTV Tower, e tante altre. Tutte a nord, nelle altre direzioni i palazzi sono irrimediabilmente anonimi e tutti uguali. Pechino.

Scendiamo in casa al calduccio, è ormai tardi ma a qualcuno piacerebbe uscire. Dopo una mezz'ora di discussioni, ci si saluta, augurandosi un buon anno nuovo. Viola va a casa e io, Dandan e Dom ci infiliamo in un taxi e, nelle strade deserte e gelide, raggiungiamo il Bed Bar, dall'altra parte della città. C'è ancora qualcuno qui, il Bed Bar del resto è uno dei posti che non delude. Davanti a un tè caldo chiacchieriamo tranquillamente, stanchi e consapevoli che probabilmente non ci vedremo più, per molto molto tempo. Dom tra pochi giorni tornerà in Australia. Concludiamo in pieno accordo che è stato bello conoscersi, e non sarebbe male vedersi ancora. Io e Dandan veniamo ripetutamente invitati a Melbourne. Poi il Bed Bar chiude, verso le quattro del mattino, e il fuwuyuan gentilmente ci invita ad andare via. Camminiamo oziosamente verso la piazza del Gulou, dove a quest'ora della notte degli operai stanno ancora lavorando su di un enorme palco che copre quasi tutto lo spazio tra le torri.

L'avevamo notato il giorno prima passando per caso, quando ancora lo stavano montando, e avevamo interrogato uno degli operai per sapere di cosa si trattava.

“Buongiorno”
“...”
“Buongiorno!”
“...”
“Hey! Dico a lei, buongiorno!”
Finalmente ci nota. “Ah, Buongiorno, mi dica”
“Che succede qui? C’è uno spettacolo?”
“Sì” risponde senza espressione.
“Di cosa si tratta?”
“E’ uno spettacolo di capodanno, ci saranno la TV ed esponenti del comune”
“Ah, interessante... serve il biglietto per entrare?”
“No, non c’è biglietto” dice, perplesso.
“Allora possiamo venire a vedere?”
L'operaio ci pensa un attimo su, poi risponde:
“No”

Ora il palco lo stanno smontando. Sono ormai le quattro passate, e nonostante la stanchezza mi sento vivo come non mi sentivo da tanto. Sarà l’ora, sarà il freddo. Ci salutiamo con Dom, che decide di prendere un ultima birra da solo al Jiangjinjiu, dove rimangono ancora sei o sette persone. Mi verrà in mente solo dopo che è qui che siamo venuti la prima sera che ci siamo conosciuti, quando ancora non ero mai stato in questo posto, e ora è qui che ci salutiamo. Senza questi pensieri per la testa, in una dimentichevole e felice stanchezza, io e Dandan camminiamo per le strade silenziose, chiamiamo un taxi e ci dirigiamo verso casa. Buon anno, buon anno...

2009-10-07

Ancora Dom


Un giorno di inizio dicembre io e Dandan andiamo a fare la spesa al 7 Eleven sotto casa, e chi ti incontriamo? Dom!

Non lo vedo da mesi, impegnato com'era con il suo HSK e le sue strane storie da paranoia. Ora invece è in forma smagliante, elegante, sorridente. Ci racconta che ha superato l'esame, non brillantemente come sperava ma comunque bene: ora ha trovato lavoro in uno studio legale americano dove farà un po' di pratica prima di tornare in Australia e dare l'esame di Stato per l'avvocatura, e stare un po' con la sua famiglia che non vede da troppo tempo.
La paranoia? Andata, per fortuna: una volta mollata l'infame scuola coreana e iniziata una vita regolare da lavoratore diurno ha cominciato a stare bene. Accenna a una storia strana che mi fa intuire che la fantomatica ragazza coreana di cui era perdutamente innamorato era coinvolta in qualche giro di prostituzione forzata da parte di connazionali, da cui tutta l'ostilità che si era trovato contro. Non so se speri ancora un giorno di diventare ricco e sposarla, ma potrebbe essere.
Fatto sta che, apparentemente, adesso Dom sta bene, e a me fa un gran piacere vederlo. Lo invitiamo quindi alla festa di capodanno che noi e alcuni amici stiamo organizzando di lì a pochi giorni.

2009-08-26

Almeno gli alberi


Pechino è una città in fermento. Da anni non si fa che costruire, per le Olimpiadi, per modernizzarsi, per seguire l'andamento dell'economia. Intere zone della città, dagli hutong tradizionali ai palazzi a sei piani dei tempi di Mao, vengono spianate per far spazio ai grattacieli, ai parcheggi, all'allargamento delle strade. Il progresso avanza inesorabile, e ormai l'immagine del muro con scritto “拆”, demolizione, e gli operai edili che lavorano alle 4 del mattino sono un cliché della città.

Ma ci sono cose che a volte risvegliano qualche speranza, come quella che ho visto a Dongzhimen: qui si stanno allargando la stazione della metropolitana e la strada, una delle più congestionate della capitale (la stessa dove pochi mesi prima stavo per essere spianato da veicoli in accelerata), eppure qualcosa non è stato abbattuto, anzi è stato preservato e protetto. I pioppi.

C'è una legga a Pechino che tutela gli alberi, tutti quanti e in particolare gli alberi che superano certe soglie d'età, per abbattere i quali servono speciali autorizzazioni governative, concesse con il contagocce. Qualcuno probabilmente si è reso conto di quanto Pechino ha bisogno di verde, oppure semplicemente qualcuno con un forte senso estetico si è reso conto che senza alberi la città sarebbe obbrobriosa (basta confrontare le vie alberate, come Dongzhimen Wai, e quelle non, come Chaoyangmen Wai, per rendersi conto della differenza). Fatto sta che gli alberi non s'abbattono: sono lì all'interno delle transenne e gli operai ci lavorano attorno, senza danneggiare nemmeno le loro radici.

Questa pratica sembra datare almeno qualche anno, dal momento che gli alberi nel cortile di casa mia sono ben più vecchi dell'edificio, e probabilmente per i primi 30-50 anni della loro vita hanno dominato un paesaggio fatto di tetti bassi di tegole grigie, prima di trovarsi all'ombra di un condominio di 15 piani, unica memoria d'una vecchia Pechino quasi dimenticata. Quasi tutti gli alberi della città vecchia oramai sono censiti, e riportano placche che informano chiunque dell'età stimata dell'albero e della categoria di protezione di cui gode.

E' una bella legge, una legge intelligente quella che protegge almeno gli alberi, cose vive, dalla speculazioni edilizia. Ad oggi i lavori a Dongzhimen sono finiti, e i pioppi fanno bella mostra di sé in un'aiuola che divide la strada principale dal controviale, facendo ombra d'estate e meno grigio d'inverno.

2009-08-14

Invenzioni


Un giorno, mentre stiamo andando a visitare l'ennesimo cliente, Nathalie mi racconta quello che definisce un fatto oltraggioso. Seriamente scandalizzata e offesa, procede nel dettagliarmi le dichiarazioni del governo della Corea del Sud, secondo il quale la Festa di Mezzautunno è una tradizione anzitutto coreana, in seguito adottata dai Cinesi; non solo, ma una celebre università è arrivata a sostenere che i caratteri cinesi siano stati inventati dai Coreani, insegnati ai Cinesi, e quindi abbandonati perché inefficienti dal punto di vista comunicativo, e sostituiti dall'attuale sistema di scrittura coreano. Più tardi tanti conoscenti mi confermeranno la storia, che ha causato un grave incidente diplomatico tra Corea del Sud e Repubblica Popolare, con proteste ufficiali del governo di Pechino tramite la loro ambasciata, e un'ondata d'indignazione popolare che non si vedeva dai tempi in cui il governo giapponese aveva rimosso dai libri di scuola le atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale.

Sinceramente, come europeo, la cosa mi lascia abbastanza freddo: se il governo coreano ha le prove di quello che dice, le produca, se no stia zitto.
“E in fondo” dico a Nathalie con una punta d'ironia “non è che i Coreani siano i primi ad attribuirsi fantasiose scoperte della civiltà. Succede la stessa cosa quando i Cinesi dicono di aver scoperto l'America e inventato la pizza”
“I Cinesi HANNO inventato la pizza! Non hai mai sentito parlare delle Shandong Chaobing?!?”

Oh, Dio.

Le Shandong Chaobing (山东炒饼) sono essenzialmente una specie di pane con la sfoglia, nel cui impasto vanno varie verdure e carne trita (con una prevalenza di scalogno e maiale), che viene fritta su una grossa piastra e servita intrisa d'olio di colza, il preferito nella Cina del XXI sec. Non voglio chiedere, ma sono sicuro che la storia della Shandong Chaobing includa, ad un certo punto, Marco Polo che passava di lì, l'assaggiò, gli piacque, e la portò in Italia dove la spacciò per pizza e divenne famoso. Le storie di questo tipo in Cina sono parte della realtà consensuale e nulla può far cambiare idea ai cinesi, se non forse una dichiarazione ufficiale a reti unificate del Partito Comunista; e forse neanche quella. Ma il guaio non è tanto questo, è che con la mia dichiarazione sconsiderata sulle invenzioni ho scatenato il nazionalismo di Nathalie e ora lei dovrà convincermi che i cinesi hanno inventato questo e quello, pena la perdita della faccia. Discutiamo per almeno dieci minuti buoni di invenzioni e civiltà, finché alla fine grazie a Dio possiamo concordare sul fatto che abbiamo opinioni diverse e non c'è modo oggettivo di dimostrare la superiorità di una sull'altra (mento sapendo di mentire, sono tutte cose verificabilissime ma sono stufo di discutere con quella testa di legno di Nathalie).

Questo lungo preambolo ci introduce a un aspetto estremamente interessante della cultura cinese (e forse coreana e giapponese, chi lo sa?), ovvero il pregiudizio per cui i Cinesi hanno inventato tutto prima degli altri. Si tratta di una conseguenza del pregiudizio più noto secondo cui la Cina è il Paese di Mezzo che sta al centro del mondo, con la storia più antica, la gloria più brillante, la civiltà più raffinata (diciamo pure: LA civiltà, l'unica) mentre tutti i popoli esterni sono fondamentalmente dei barbari capaci al più di creare effimeri imperi delle steppe. E a chi obietta che i Mongoli con il loro effimero impero delle steppe hanno conquistato mezzo mondo Cina compresa, e in particolare la Cina l'hanno dominata per un secolo da imperatori, si risponde che i Mongoli SONO Cinesi, una delle tante minoranze etniche, e lo dimostra il fatto che hanno adottato il sistema imperiale cinese. La tesi, credetemi, è ben navigata e testata ampiamente contro le critiche degli occidentali gelosi.

Sta di fatto che, oltre alle sacrosante scoperte che indiscutibilmente competono alla civiltà cinese, come la carta, la stampa, la bussola, la polvere da sparo, lo smalto, la seta, l'agopuntura, i soldi di carta, le bacchette per mangiare, l'aquilone, la porcellana, il té, il tofu, se ne aggiungono altre più discutibili.

Le Invenzioni “Tirate”
Si tratta di concetti certamente sviluppati in Cina in tempi antichi, con successo limitato, ma poi reinventati in forma diversa e migliore altrove, per esempio:
Le armi a ripetizione: i chengdunesi sostengono che la la balestra a ripetizione fu inventata da Zhuge Liang nel periodo dei Tre Regni (220-280). Vero, però è difficile sostenere che questo abbia avuto un peso sull'invenzione delle armi da fuoco a ripetizione, sviluppate più di un millennio dopo in Europa.
Gli scacchi: gli scacchi in Cina esistono da tempo immemore, usano pedine tonde con ruoli diversi e hanno regole complicatissime. Si può sostenere che abbiano avuto la loro influenza sui più conosciuti scacchi occidentali, quelli con il re, la regina, la torre, ecc. Sta di fatto che oggi gli scacchi cinesi si usano solo in Cina e forse un po' in Corea e Giappone, mentre nel resto del mondo la gente usa gli scacchi occidentali, per cui non capisco questo grande orgoglio cinese nel vedere che gli europei gli hanno rubato l'invenzione, l'hanno migliorata e l'hanno resa celebre.
Il golf: oggigiorno in Cina non sei nessuno se non giochi a golf. Solo a Pechino ci sono tipo 50 campi da golf, ed è qui che i ricchi e i potenti fanno le guanxi, Poi un giorno qualcuno si è ricordato che durante la dinastia Song (960-1279) i membri della corte imperiale si divertivano con il chuiwan, un gioco in cui bisognava mandare una palla dentro una buca colpendola con un bastone, e ha dedotto che il golf è cinese. Il chuiwan fu dimenticato ben presto dai Ming perché doveva essere ancora più noioso del golf (il fatto che si giocasse su aree piane e ristrette più aver contribuito alla decisione). Tra le altre cose il golf in Cina si chiama non chuiwan ma gao'erfu: dev'essere tutta esterofilia.
Il calcio: un giorno, durante il periodo degli Stati Combattenti (476-221 a.C.), un generale decise che i soldati potevano svagarsi e allenarsi allo stesso tempo giocando a palla. Li divise in numerose squadre, assegnò a ciascuna un buco in un muro, le mise tutte una contro l'altra contemporaneamente e quelli cominciarono un gioco che probabilmente assomigliava al calcio non meno che alla rissa reale del wrestling con tanto di mosse di kung fu, nonché al sabato dei saldi al Wal Mart di Jianguo Lu. Lo chiamarono cuju, ma lo chiamarono per poco perché probabilmente finiva con un certo numero di soldati calpestati a morte dagli altri, e causava tensioni nelle truppe. Quando poi il calcio divenne famoso anche in Cina qualcuno disse che era lo cuju ritornato. Infatti ancora oggi lo chiamano zuqiu, ovvero palla-piede (football), e la nazionale cinese, con la sua tradizione calcistica millenaria, si è qualificata tipo 150esima ai campionati mondiali, dietro Paesi come il Nicaragua che probabilmente Sanlitun da sola fa più abitanti. 

Le Invenzioni Controverse
Sono quelle invenzioni che possono anche essere nate in Cina, ma sono talmente basilari e antiche che invocarne la paternità è assolutamente puerile. Un giorno ero in un mercato a Shanghai e una ex collega mi indicò un abaco, un semplicissimo abaco per contare, in vendita a pochi kuai, e me lo spacciò per un oggetto che rappresenta squisitamente la tradizione della civiltà cinese. Avrei voluto rispondergli che la nostra civiltà occidentale è rappresentata squisitamente dai grattacieli e dalle strade asfaltate, e avrei voluto chiederle se a Shanghai c'erano tanti occidentali con la nostalgia di casa oppure erano i cinesi che volevano far le cose in stile tradizionale europeo. Non lo feci, perché forse era un po' eccessivo. Ma quando un cinese vi dirà con orgoglio che la campana e il remo sono invenzioni cinesi (gli esemplari più antichi preistorici sono effettivamente stati ritrovati in territorio cinese), rispondetegli che la ruota è irachena (l'hanno inventata i sumeri) e il lavandino e il cesso sono italiani (risultati dell'acquedotto romano), e chiedete loro se si sentono fortunati ad aver avuto contatti con gli stranieri, così non devono andare in giro a piedi o sui muli, lavarsi al pozzo e cagare in buchi nel pavimento. Tenete conto, però, che potrebbero non cogliere l'ironia e offendersi.

Le Invenzioni “Scollegate”
Sono invenzioni cinesi che assomigliano ad altre invenzioni posteriori e totalmente indipendenti. Per esempio gli spaghetti – la madre di tutte le diatribe sulle invenzioni. Sugli spaghetti sono state create storie fantastiche, che non mi stanco mai di ascoltare. Le peggiori includono sempre Marco Polo, le migliori invece includono fatti storici reali o anche elementi romantici, come quella del marinaio italiano che, dopo aver passato la notte con una bella ostessa cinese, si accorge che gli spaghetti rimasti sul tavolo si sono seccati, ed è per questo che in Italia la pasta è così dura. Per la cronaca: gli spaghetti in Cina potrebbero datare a 4000 anni fa, mentre in Italia dal periodo etrusco (2500-3000 anni fa). Le probabilità che gli spaghetti abbiano attraversato l'Asia in questo periodo, senza lasciare tracce nella cucina di alcun popolo sulla strada, sono semplicemente ridicole.

Le Invenzioni Fantasiose
Le migliori. Oltre alla già citata pizza ottenuta da un Marco Polo pasticcione dalle shandong chaobing o dai ravioli cinesi (Marco Polo essendo un laowai non li sapeva chiudere, i ravioli), c'è la Coca Cola, inventata da un medico cantonese come rimedio per l'influenza e ancora servita bollente con lo zenzero in varie località del Guangdong.

Peraltro, le invenzioni cinesi sono una realtà in divenire. Non mi stupirebbe sentire, tra qualche anno, che i cinesi hanno inventato il vino e il formaggio e Marco Polo li ha portato in Europa, o che la ricetta del Kentucky Fried Chicken sia stato creata dalla tata cinese del colonnello Sanders, o che i cinesi hanno mappato la Luna durante il Grande Balzo in Avanti. Del resto, già si sosteneva tempo fa che Zheng He scoprì l'America qualche anno prima di Colombo: quando uno storico scandinavo fece notare che i Norvegesi erano arrivati in America già secoli prima di Colombo e Zheng He, uno storico cinese dichiarò che i Vichinghi non avevano circumnavigato il globo, ma Zheng He sì, e prima di Magellano, ma purtroppo non lasciò carte o resoconti di questo viaggio. Peccato. Qualcuno azzarda invece che Laozi, fondatore del Taoismo, con l'idea del Tao che si autogenera dal nulla abbia posto le basi della fisica quantistica, che è un po' come dire che Epicuro, con la teoria degli atomi, è il padre della fisica nucleare.

Aspettiamocene di sempre nuove.

2009-07-12

Violenza

E' un qualunque pomeriggio invernale, e sto camminando su Nan Luogu Xiang insieme a Nathalie, la mia nuova assistente. Abbiamo appena visitato un cliente, e ci stiamo avviando verso l'ufficio, quando uno strano rumore attrae la mia attenzione: “thud”.

E' uno strano rumore, un rumore che ammetto di non aver mai sentito prima, e sarà per quello che la mia reazione è lenta. Il sopracitato thud è il rumore che fanno le nocche di un pugno di un tamarro contro la faccia di una ayi. Ce ne sono tre di tamarri, a dire la verità: uno ha i capelli leccati all'insù con una punta verso la sommità posteriore, tipo Oliver Hatton per intenderci, e la faccia butterata dai brufoli; un altro ha i capelli uguali, ma è grasso e indossa una giacca nera con dei glitters; e infine uno basso, con la maglietta attillata a righe diagonali bianche e blu, i capelli tinti di biondo e stirati a mezzafrangia sulla fronte. Praticamente, i tirapiedi picchiosi dei cattivi di Lupin. Sono tutti e tre ubriachi marci, e saranno le quattro del pomeriggio. Il biondo è quello più fuori di tutti, sta a fatica in piedi, a sta urlando un fiume di insulti da far rabbrividire verso una ayi del cesso pubblico, da cui sono appena sbucati. Gli altri due cercano di trattenerlo a turno, con la faccia divertita e scarsa convinzione.

L'ayi, classica nongmin (农民, abitante delle campagne) di età indefinibile tra i 35 e i 55, pelle scura, tuta blu da proletaria, sta prostrata per terra, con un occhio nero che si sta gonfiando e del sangue che le esce dal lato della bocca. Evidentemente dev'essere scoppiato un alterco mentre i tre erano al bagno pubblico, forse lei si è lamentata del casino che facevano, e a un tratto il tamarro biondo ha cominciato a picchiarla selvaggiamente. Lei è uscita, lui l'ha seguita, i suoi compari dietro, ed è cominciata la tragedia greca alla cinese. L'ayi piange per terra, il biondo sacramenta, gli altri due lo trattengono ridacchiando. Nei due-tre secondi che mi ci sono voluti ad assorbire queste informazioni e comprenderle in quanto realtà e non cartone animato o film sulla cultura alternativa tipo Arancia Meccanica o Trainspotting, si è accalcata una piccola folla di Cinesi che, facce di cera, osserva la scena come alla televisione, senza dimostrare di aver fatto il mio stesso salto logico. Ma quel che è peggio, Nathalie si è lanciata nel mezzo della scena a braccia aperte, urlando ai tamarri di togliersi di mezzo e lasciar stare la povera ayi indifesa. Oh cazzo.

Prima che il tamarro biondo, con i riflessi rallentati dall'alcol, si avventi sulla mia assistente, intervengo io. Sarà che sono alto mezza spanna più del più grosso di loro, sarà che sono straniero, i due tamarri più sobri si fanno immediatamente più cauti, mentre il terzo fa un paio di passi indietro, continua a urlare i suoi insulti, prova un paio di volte a girarmi attorno senza successo, ma in generale non da' assolutamente a vedere di avermi notato. In effetti non incrocia lo sguardo, non mi si rivolge, e a tutti gli effetti agisce come se non esistessi, senonché sta ben attento a mantenere due-tre metri tra me e lui.

L'ayi nel frattempo non da' segno di volersi spostare, e comincio a capire, nel suo farfugliare di bocca rotta e tuhua (lingua contadina, ovvero una forma semplificata di cinese mandarino) che sta pretendendo dei soldi dai tre tamarri per andare all'ospedale e farsi aggiustare. Superfluo riportare la risposta dei tre alla richiesta. Sta di fatto che, nonostante l'insistenza di Nathalie, la donna non si vuole alzare, fa peso morto e continua a gemere chiedendo una compensazione. La situazione è in stallo, ma prima che i tamarri agiscano perdo la pazienza e prendo in mano la situazione, urlando a Nathalie e all'ayi di levarsi dai coglioni e camminare verso la fine della strada. Solleviamo la donna a forza e la portiamo via, con i tamarri che ci seguono per qualche decina di metri, sempre gridando ignominie ma a debita distanza. La folla di cinesi si apre, attenta a non interagire con la scena, qualche straniero si è fermato a guardare commentando stranito, noi tiriamo la donna avanti e la facciamo entrare in un ristorante di jiaozi dove chiediamo gentilmente alla laoban di permettere all'ayi di darsi una lavata alla faccia e riprendersi un po'. Nathalie si mantiene vicino alla donna, cercando di calmarla e confortarla, dicendole che non vale la pena mettersi a litigare con gente così, che non otterrebbe nulla se non altre botte. Io ringrazio la laoban per l'ospitalità, prendo Nathalie, e le dico di andare, prima che i tamarri tornino, magari con i rinforzi. Fuori c'è ancora la folla di cinesi che, attraverso i vetri del ristorante, non hanno mai smesso di guardare la TV. E poi succede una cosa strana.

Nel giro di pochi attimi, la laoban prende l'ayi, senza alcuno scrupolo la sbatte fuori dal suo ristorante e si chiude la porta dietro, e l'ayi tenta di rintracciare i tre tamarri, chiede alla folla dove sono finiti (ovviamente senza risposta – non si risponde alle domande della TV) e, incapace di trovarli, comincia ad inseguire me e Nathalie, urlando che è tutta una cospirazione, che è colpa nostra se adesso lei non ha i soldi per l'ospedale, che glieli dobbiamo dare noi. La folla ci guarda, attendendo una drammatica risposta. Alzo la mano, fermo un taxi, butto dentro Nathalie, monto e chiudo la portiera. “Via di qui, presto” dico all'autista.

Mentre il Beijing Taxi ci porta lontano da questa scena surreale, nella mia testa frullano mille domande. Perché i Cinesi tengono il massimo distacco da queste scene, perché ciascuno sta a guardare ma si fa i fatti propri, non cieco e sordo ai fatti altrui, palesemente consapevole ma massimamente distaccato? E' una situazione che sfida ogni modello comportamentale della mia civiltà – per me o ci si fa i fatti propri, fingendo di non sapere, oppure si è coinvolti. Qui no: si può curiosare spudoratamente nella vita altrui e tranquillamente fregarsene, tenendosi al di fuori senza la minima colpa o vergogna. Anche Nathalie, Cinese pure lei sebbene di padre europeo, è scioccata dal comportamento delle persone: nessuno che abbia fatto qualcosa, detto una parola, nemmeno abbozzato un'espressione di sdegno. Spettatori davanti al varietà.

E' Dandan, la sera stessa, a illuminarmi con il suo punto di vista. Per i Cinesi, ingiustizie come queste ne capitano tutti i momenti, e vale la pena di pensare alle proprie piuttosto che a quelle degli altri. Del resto, come ho visto, la riconoscenza non è una virtù comune, da queste parti: la pragmaticità, in questo caso cercare di ottenere qualche soldo in più, prevale. Quando ci sono di mezzo i contadini, i nongmin, poi, è come aver a che fare con degli alieni – non c'è rispetto, non c'è dignità, non c'è fiducia davanti alla gente di città, gente ricca che li sfrutta e basta, figurarsi per i laowai. Per quel che li riguarda, non siamo neanche della stessa razza umana.

Non posso impedirmi di pensare a una frase, tratta da Sette Samurai di Kurosawa. Toshiro Mifune, grandissimo nella sua interpretazione di Kikuchiyo che, quando viene ritrovato un bottino di armi nel villaggio dei contadini che i samurai volevano difendere, nel silenzio generale improvvisamente scoppia a ridere come un isterico:

Heh, guarda che bellezza! Haha! Che pensavate che fossero questi contadini? Buddha o simili? Non fatemi ridere! Non c'è creatura al mondo più volitiva di un contadino! Chiedetegli riso, orzo, qualunque cosa, e tutto quello che hanno sempre da dire è “Non ne abbiamo più”. Ma ne hanno, ne hanno di tutto. Scavate sotto le assi del pavimento; se non ce n'è lì, provate nel granaio: ne troverete in quantità. Vasi di riso, sale, fagioli, sake. Haha! Hahaha! Andate su per i monti: hanno campi nascosti. Si inginocchiano, strisciano e mentono, facendo gli innocenti tutto il tempo. Qualunque cosa vogliate, sono pronti a fregarvi anche su quello! Dopo le battaglie, danno la caccia agli sconfitti con le loro lance. Datemi retta! I contadini sono avari, canaglie e piagnoni! Sono cattivi, stupidi, assassini! Che il Diavolo se li porti! Potrei ridere fino alle lacrime!
Ma ditemi questo: chi li ha resi i mostri che sono? Voi l'avete fatto, voi samurai, che il Diavolo porti anche voi! In guerra, bruciate i loro villaggi, calpestate i loro campi, rubate il loro cibo, li fate lavorare come schiavi, violentate le loro donne e, quando provano a resistervi, li ammazzate. Che vi aspettate che facciano? Che Diavolo dovrebbero fare i contadini secondo voi? Maledizione, maledizione!” 

Ancora una volta, la divisione di questo Paese, tra noi che stiamo nelle città, e gli altri novecento milioni di nongmin, umani come noi eppure più diversi ed ostili dei cani, mi riempie l'anima con il suo immenso vuoto.

2009-06-21

La Carne d'Asino


Un bel giorno d'inizio inverno leggo sul That's Beijing una recensione su un ristorante che serve carne d'asino. Ora, la superstizione per cui i cinesi mangiano di tutto non è vera. O meglio, si riferisce ai Cantonesi, ma qui a Pechino la gente è relativamente conservatrice nella carne che mangia: agnello (yangrou), pollo (jirou), anatra (yarou), maiale (zhurou) e manzo (niurou) costituiscono la stragrande maggioranza della carne consumata normalmente. Oca (erou), coniglio (tuzirou), cane (gourou), cammello (luorou) sono considerate carni particolari, prodotti che appartengono ad altre cucine che, sì, si possono assaggiare, ma sono fondamentalmente esotiche. Cavallo (marou), non sia mai! Solo dei barbari possono mangiare cavallo! Cacciagione non se ne trova, perché pare sia vietata, anche se in certi ristoranti cantonesi fa capolino ogni tanto qualche labbro di cervo (lurou) di dubbia provenienza.

L'asino: lürou. Non ci avevo mai pensato. Nemmeno i Pechinesi, credo: l'asino è una carne che si consuma tradizionalmente nello Hebei, e qualche immigrato da quella regione ha avuto la bella idea di aprire un ristorante. Perché no?

Raccolgo Dandan e la sua amica Ting, e ci diamo appuntamento davanti al ristorante recensito, Wang Pangzi (王胖子), ovvero “Ciccio Wang”, che dev'essere il laoban. Il posto, sulla Gulou Xi Dajie, ha l'aspetto di un qualunque ristorante da strada cinese, di quelli luridi ma buoni, buoni ma luridi. L'insegna è un po' cadente, i tubi al neon dentro danno una luce fredda. Non invita ad entrare, e se uno ci passasse davanti non lo noterebbe tra le altri migliaia di ristoranti pressoché uguali di Pechino. Fuori tira un vento gelido come solo a Pechino può tirare, e quindi ci decidiamo ad entrare.

Dentro è ancora peggio che da fuori: pareti verdi chiaro, che potrebbero dare un'aria simpatica non fosse per la luce gelida dei neon, pavimento zozzo che più non si può, sei tavoli in 8 metri quadrati, gente che si abbuffa, beve, fa rumore, fa cascare i tovaglioli e il cibo per terra. Due cameriere di 15-16 anni, tarchiate come le ragazze dello Hebei, modi da scaricatore di porto, urlano più forte dei clienti. Dall'altra parte della stanza ci arriva il saluto: “吃什么呀? Che mangiate?”. Ci sediamo all'unico tavolo libero, sugli sgabellini standard in plastica colorata e metallo dei posti di questo tipo. Il menù è scritto sul muro, su un cartellone bianco cui sono incollati caratteri e numeri cubitali rossi. Tre piatti di base: brodo d'asino, carne d'asino e huoshao, che poi è il cavallo di battaglia del luogo. Gli huoshao (火烧) sono essenzialmente dei panini fritti, tagliati su un lato, che in questo caso vengono imbottiti con un trito di carne d'asino prima bollita e poi grattugiata stile döner kebab e saltata su una piastra, peperoncini verdi e coriandolo. Piatti d'accompagnamento sono una serie di frattaglie d'asino, sempre bollite e servite fredde o calde. Verdura fuori menù, secondo disponibilità. Ci chiediamo quanti ne bastino a testa per esser sazi, e guardiamo cinque uomini accanto a noi che si rimpinzano di huoshao come maiali. Ed ecco che, nell'allegra socialità del ristorante cinese-buco, fa capolino dalla mia spalla l'avventore seduto dietro di me, ossia un tizio di mezza età con i capelli leccati attorno al cranio e fondi di bottiglia tipo ragionier Filini. Ci deve aver letto nella mente perché dichiara “Gli huoshao sono piccoli, ce ne vogliono almeno tre a persona”.

Visto che hanno un aspetto abbastanza pesante, decidiamo di ordinarne solo due a testa, più brodo cadauno e un piatto di verdure della casa che si rivela essere dell'insalata cotta con peperoncino e aceto. Gli huoshao sono fenomenali: croccanti nella pasta, unti ma non troppo, con la carne d'asino che ha assorbito tutti i sapori del bollito e il peperoncino verde che aggiunge una punta di piccante, per nulla eccessivo. Il brodo è perfetto, scalda che è un piacere, e si accompagna con abbondante coriandolo e pezzi di carne all'interno. Niente grasso, la carne d'asino è assolutamente magra. Il tutto è così buono che ordiniamo un altro giro, per la felicità del nostro vicino occhialuto che continua ad osservarci.

Sul muro opposto al menù c'è un altro cartellone, che a caratteri cubitali rossi (questi stampati) su uno sfondo della prateria, illustra la storia della carne d'asino, con dovizia di citazioni letterarie di poeti di svariate dinastie. Quella che noto è “天上龙肉,天下驴肉”: “Quello che in Cielo è la carne di drago, in Terra è la carne d'asino”, ovvero buona, raffinata, energizzante e salutare. Dandan non manca di osservare infatti che dopo un pasto così il freddo non si sente più, e Ting annuisce. Chiediamo il conto, e Ting scherza sul fatto che alla fine spenderà meno per mangiare che per il taxi: da Fuli Cheng, dove abita, a qui sono 32 kuai di taxi. Il conto arriva: 31 kuai, ma in tre.

Ce la ridiamo, uscendo nel buio della strada. E' come avevano previsto Dandan e Ting: il vento tira come prima, ma non sentiamo freddo. Con questo calore in corpo, ci avviamo verso il Gulou, dove con abbondante birra disinfetteremo qualunque ospite sgradito nei nostri stomaci. Siamo temerari ma non stupidi, dopotutto. Per questa sera, grazie Ciccio Wang di averci introdotto a questa nuova meraviglia culinaria che sono i lürou huoshao.






2009-04-28

TV fuori casa


Capita che un giorno il padre di Dandan venga invitato in TV a Pechino, in quanto vice-assessore allo sport del Sichuan, per parlare delle Olimpiadi (e di che altro?). Il suocero quindi prende l'aereo tutto elegante, viene a Pechino, si fa sei ore di intervista (di cui probabilmente la metà di trucco e preparazioni) e poi se ne torna a casa stremato senza avere nemmeno il tempo di uscire a cena con noi.

L'intervista sarà mandata in onda due settimane dopo (diretta in Cina? No, grazie). Abbiamo la data e l'ora d'inizio del programma, ma un piccolo problema tecnico: non abbiamo la TV.

Abbiamo per la verità un apparecchio televisivo, ma esso è parte integrante dell'altare del dio DVD e ad esso devoto. Quando ero entrato in casa, Wang Li era fiero della TV, che considerava il pezzo forte dell'appartamento, e c'era rimasto male quando gli avevo detto che non la volevo, sia perché la TV cinese è inutile (ma quale TV nazionale è utile?) sia perché non avevo la minima intenzione di pagare il canone (che ammonta a poche decine di RMB all'anno, ma è per principio). Quindi abbiamo staccato il cavo dell'antenna, così se fossero venuti gli ispettori a sorpresa avrebbero constatato che effettivamente la TV non la guardo (adoro la negoziazione e la ragionevolezza cinese. Se l'antenna è staccata non guardo la TV, perché mi devi piombare l'apparecchio?). Ironia della sorte, in tre anni gli ispettori non sono mai passati, ma nel tirare via il cavo la presa dell'antenna s'è spaccata e quindi ora anche volendo non possiamo prendere alcun canale televisivo.

Che fare? Dandan suggerisce di andare a casa di amici, ma una serata così in settimana sono tutti impegnati o stanchi o abitano lontano oppure hanno la TV rotta pure loro (ye-si, wei hei-fa Chai-li-si kua-li-ti!). Emerge per un attimo l'ipotesi di chiedere ai vicini di casa di guardare la TV da loro, ma effettivamente a Dandan la donna di Pechino sta troppo sul culo, e comunque parlerebbe lei tutto il tempo e non ci farebbe ascoltare il suocero in TV. Salta fuori anche l'idea di andare in uno di quei ristoranti o bar di basso livello, quelli sempre vuoti, dove in cambio di un paio di consumazioni potremmo chiedere di mettere sul nostro canale: ci sembra l'ipotesi migliore. Ci prepariamo quindi ad uscire, non fosse che piove a dirotto.

C'è un che di romantico e surreale nell'uscire sotto la pioggia torrenziale e andare in un locale pubblico cinese per vedere un tuo famigliare in TV. Alla fine ci rifugiamo nel luogo più vicino, il droghiere/supermercato della via, il tipo di negozio in Cina che vende qualunque cosa, 30mq in cui è accatastato qualunque bene commerciabile a meno di 5 euro. Siccome ci conoscono mettono sul nostro canale, ed ecco una mirabolante sigla che celebra le Olimpiadi più importanti della Storia umana. La TV è ovviamente posizionata nell'angolo più scomodo, per cui i proprietari del negozio si torcono il collo da dietro il banco, io metto le spalle al frigo e mi torco il collo, Dandan si siede su una cassa di Coca Cola e si torce il collo. Per essere gentili compriamo un succo di frutta e una lattina di birra Beijing. Passano dieci minuti ed è ancora sigla. Poi pubblicità poi ancora sigla. Poi il presentatore che presenta un altro intervistato. Il collo fa male a tutti e i proprietari del supermercato si stanno scoglionando, visto che potrebbero guardare l'ennesima puntata di qualche telenovela coreana doppiata in cinese e divertirsi di più. Va bene, tentiamo la fortuna altrove.

Il Bagels & Bar. Per qualche motivo un pazzo esterofilo ha affittato uno spazio commerciale dove prima c'era un parrucchiere di successo e ha aperto un bar che vorrebbe essere occidentale, che serve bagel (le ciambelle kosher tipiche di New York), caffè, té, gelato al tè, tè al latte con la mandorla, Johnny Walker e Chivas (probabilmente falsi), sigari e cose del genere, nel bel mezzo di una zona residenziale cinese. E' vuoto da quando ha aperto, cioè due anni fa. Stasera, complice la pioggia, è ancora più vuoto. E' la prima volta che entriamo: da fuori è buio, triste e siccome è grande sembra ancora più vuoto. Chiediamo di vedere la TV, ma i camerieri stanno facendo zapping tra telenovele in costume tradizionale, fiction di guerra contro gli odiati giapponesi e pessime copie dei programmi di MTV registrati a Taiwan con format copiati - ironia della modernità - dagli odiati giapponesi. Penso vivano guardando la TV, i camerieri del Bagel & Bar, visto che non ci sono mai clienti, e diventando territoriali non vogliono cedere il loro apparecchio: ci portano però al piano superiore (piano superiore? Sì, scopriamo che hanno anche un piano superiore chiamato Jazz Island Coffee) ancora più vuoto del vuoto, e con un'altra TV al plasma costosissima che mettono a nostra disposizione. Ordiniamo una tazza di tè e un caffè che hanno esattamente lo stesso sapore, cioè zucchero chimico cinese: è un sapore dolciastro, lievemente rancido tipo margarina vecchia e assolutamente artificiale che potete facilmente sperimentare comprando una bevanda dolce, biscotti, merendine, torte e simili. Se è dolce e fatto in Cina, ha questa sostanza dentro. Un motivo in più per non tornare al Bagels & Bar.

Il programma si trascina per altri 40 minuti di interviste inutili condensate in pochi minuti ciascuna, filmati sportivi di atleti cinesi e in generale una celebrazione spudorata dei Giochi Olimpici di Pechino. Dandan chiama un paio di volte casa a Chengdu: “Ma allora quand'è che si vede papà?”. Alla fine di vede: incravattato, nervosissimo, solita voce pacata e timida, parla un paio di minuti e poi mandano un altro filmato. Dandan chiama casa: “Tutto qui?!?”. No, forse mandano un altro spezzone più tardi. L'intervista è stata lunghissima, ma evidentemente l'hanno tagliata.

E' troppo. Sono già le dieci di sera, piove e il programma è inguardabile. Paghiamo le nostre bevande non finite e ce ne torniamo a casa. Gran complimenti al suocero via telefono, gli diciamo che è un peccato che abbiano tagliato tutte le interviste, al giorno d'oggi i contenuti non fanno ascolti. Duecento metri sotto la pioggia e rieccoci a casa. Metto su un caffè vero, guardo la mia TV sconnessa e, sotto sotto, sono contento che il cavo si sia rotto mentre lo estraevo. In alternativa, lo spaccavo io apposta.


2009-03-30

Di preti e monaci non ti fidare


In un post precedente ci eravamo chiesti: “Com'è che Dandan deve pagare un deposito di 10.000 RMB per andare in vacanza in India? Quale cinese potrebbe pensare di scappare dalla Repubblica Popolare per finire in un Paese meno sviluppato?”. La risposta è semplicissima, se avete imparata la definizione di cinesi – non ci sono solo Han qui.

Un giorno che siamo in India, ci stiamo godendo la marmorea maestosità del Taj Mahal, sulle rive dello Yamuna, quando la nostra attenzione viene catturata da una comitiva di cinesi, tutte donne, tutte sui 50 anni, tutte visibilmente borghesi e danarose con i loro occhiali Dior e gli anellazzi d'oro, però abbinati ad abiti consoni alla moda indiana: testa coperta, spalle coperte, atteggiamento deferente manco si trovassero in un tempio (ma lo sapranno che il Taj Mahal è un mausoleo?). A capo della comitiva c'è un lama tibetano, scuro di pelle e con la tunica gialla e bordò.
Incuriositi dal personaggio, attacchiamo bottone scoprendo che parla sia inglese che un buon cinese mandarino. Il lama è gentile, con quel sorriso ingenuo e beato tipico dei preti di campagna, e sta portando in pellegrinaggio queste fedeli buddhiste arrivate dalla Malesia – cinesi malesi, che i malesi malesi son poveri e musulmani. Sarà che me ne vado a spasso con una borsa verde militare con la testa del Presidente Mao e lo slogan “Servire il Popolo”, il lama non mi prende in simpatia, nonostante la mia sincera curiosità: è invece particolarmente felice di chiacchierarsela con Dandan, che nonostante sia quella che di solito è critica con il Dalai Lama e la sua cricca, ora è tutta ossequiosa e felice di parlare con il sant'uomo, che a me sembra meno e meno santo ogni minuto che lo osservo parlare abilmente e gettare incantesimi sulle sacrestane. Vengo dall'Italia, caro mio, e i trucchi dei sacerdoti caso mai te li insegno.

Ci congediamo dal lama, impegnato a condurre la comitiva di cinesi malesi, ma non prima di essere stati inviati a Dharamsala o, caso mai se fosse scomodo, al Centro Tibetano di Delhi, ed essersi scambiati i contatti. Il lama insiste particolarmente per avere un nostro contatto a Pechino, così la prossima volta che passa ci possiamo incontrare: Dandan, che viene da un Paese laico e ufficialmente ateo, casca nel trucco e scrive sul suo taccuino un numero di cellulare. Si rende conto del l'errore solo dopo che il lama si è allontanato, ma d'altra parte non voleva fargli perdere la faccia rifiutando, spiega. A questo punto potremmo anche andare a dare un'occhiata al Centro Tibetano di Delhi, tanto per vedere come si sono riorganizzati i lama dopo il '59, ma Dandan si rende conto che il luogo non è consono, e stavolta è lei a fermare me. Chiudiamo quindi il capitolo lama tibetani e continuiamo il nostro viaggio verso Sud, e ben presto ci dimentichiamo del singolare incontro.

Passano le settimane, ed una sera, verso le 10, ecco sul cellulare di Dandan una chiamata dall'estero. Chi sarà? I suoi ex compagni d'università dall'Inghilterra? Gli zii dall'Australia? Niente affatto, il nostro caro lama dall'India, che vuole fare quattro chiacchiere, così senza una vera ragione. Dandan risponde a monosillabi e dopo una decina di minuti si sgancia con una scusa. Io me la rido, e la incoraggio a chiedere al lama cosa vuole veramente, ma lei non ne vuole sentire. Ma il lama chiama ancora, e ancora e ancora, sempre a orari impossibili della notte e “per fare quattro chiacchiere”, ma sembra più che voglia sondare la disponibilità di Dandan e vedere se può affrontare certi argomenti che nella Repubblica Popolare sarebbero considerati “strani”. Intanto le settimane passano, le Olimpiadi si avvicinano e la politica di sicurezza cinese si fa sempre più restrittiva. Dandan o non risponde oppure inventa scusa per parlare poco e poi mettere giù. Le chiedo di passarmelo ma non si fida di me – preferisce minimizzare i contatti. Poi un giorno il lama dice che vorrebbe spedirle una cartolina, ma non sa il suo indirizzo. Non c'è bisogno, caro lama, dice Dandan, ma in qualche modo non riesce, come dovrebbe, a mandare a fare in culo il sant'uomo come meriterebbe, e sospetto che di mezzo ci sia una superstizione atavica cinese per cui i lama tibetani possono scagliare maledizioni su chi li offende. Il lama insiste, e scopre ancora un po' di più le carte: c'è una cosa che le vorrebbe spedire, ma Dandan non vuole regali. Il lama si scopre ancora di più: c'è una cosa che vuole spedire a un'amica di Pechino, ma preferisce che sia Dandan a riceverla e poi l'amica la viene a ritirare. Aaaaaaaaaah, ecco cosa voleva – dico io – sarà che vuole triangolare la posta perché i suoi amici sono tutti sotto controllo dei servizi segreti?

Dandan suda freddo: non ce la fa a dire al lama di piantarla e di dimenticarsi il numero, ma al tempo stesso capisce che qui si rischia il collaborazionismo con i separatisti. Decide quindi di dare il numero di lavoro, ovvero una bella banca statale con sicurezza degna di un ministero: che non è una cosa tanto intelligente, perché se mai ricevesse posta a nome suo dai tibetani scappati in India e finisse in mano ai controlli intra-aziendali, non solo rischierebbe di farsi un pomeriggio d'interrogatorio al Ministero degli Interni, ma rischierebbe anche l'impiego. Per fortuna il lama è esperto di comunicazione han e capisce la vaga antifona cinese di Dandan – un ossequioso e rispettabilissimo sì che significa no, guarda proprio no, non è il caso – e il pacco non arriva mai. Il lama chiama ancora un paio di volte, una volta chiama persino l'amica del lama dalla Cina, ma Dandan trova scuse e riaggancia subito, e finalmente la piantano.

“Perché l'hai trattato così male?” le chiedo, da stronzo “magari insisteva perché sospetta che tu sia la reincarnazione di un vecchio lama”
“Non sono la reincarnazione di nessuno io!!!” mi risponde giustamente. Ma almeno spero abbia imparato la lezione.

So che qualcuno dirà: “Poverino, quel lama! Ma che ti ha fatto di male per essere trattato così? In fondo combatte pacificamente per la libertà del suo popolo”. Quanto alla “lotta pacifica dei lama per la libertà”, ne parleremo in un post futuro, e per la precisione quello relativo ai disordini di Lhasa che accadranno alcuni mesi dopo il nostro incontro con il lama. Limitiamoci ad osservarli per quel che sono: monaci, preti, religiosi, curiali, clero, promotori di religione organizzata, gente che vive d'elemosina (mendicanti?), gente che campa sulla superstizione degli ignoranti. Potrei andare avanti a lungo.

I cinesi li posso anche capire che caschino in certi trucchetti, ma mi chiedo io: come fa a esserci in Italia gente che riesce ad essere anticlericale e poi quando vede questi monaci rasati pare s'intenerisce? Come fa a cascare nei loro discorsi di amore, pace e non violenza? La Chiesa romana non predica forse la stessa cosa? Credete veramente che i monaci vivano all'altezza del loro credo, o forse come quasi tutti i religiosi in ogni epoca, gran parte di loro non fa che campare alle spalle della società combattendo il cambiamento nella teste delle persone? Perché i cardinali son boia e i guru rimpoche son santi? Basta il colore di un vestito a confonderli?

Io, lo dico con orgoglio, vivo in un Paese dove il capo di una religione che si oppone al progresso civile è stato esiliato. Facessero lo stesso gli italiani col papa, invece di far i pignoli con i cinesi!