2007-04-29

Corte n. 28

“Vediamoci prima che vada in vacanza” dico a Jingyi in una telefonata.

“Ok, fammi pensare a un posto dove possiamo andare” risponde.

“Non serve, ho già trovato dove” dico con una punta di orgoglio.

E così ci si incontra un giovedì sera davanti al 7 Eleven, il punto di ritrovo di tutti quelli che vivono attorno a Dongzhimen. Arriviamo praticamente assieme, lei si presenta come al solito, abiti da raver appena uscita da un viaggio in Yunnan e una borsa grossa quattro volte lo standard. Stilosa come sempre.

Entriamo un attimo nel 7 Eleven perché lei deve prendere il cibo per il gatto di una sua amica in vacanza, che doveva tornare un paio di giorni fa ma è sparita chissà dove. Poi proseguiamo a piedi: Dongzhimen Nei, Dongzhimen Xiaobeijie, Min’an Jie. Jingyi già presagisce una strada più lunga del preventivato e mi propone un ristorante di frutti di mare in Dongzhimen. No, grazie, ho un amico che si è preso i parassiti intestinali a Xiamen mangiando quelle cose; sono passati sei mesi e sta ancora male.

Entriamo negli hutong, sottraendoci al caos della grandi strade. Una curva a destra, una a sinistra. Lei si è già persa e comincia a faticare. Non avevo pensato che le potesse pesare la camminata, non è in forma ultimamente. La rassicuro della vicinanza del locale, mentendo spudoratamente. Lei si guarda attorno stranita: non è abituata lei, cinese, a camminare tra gli hutong: non ci bada granché, non sente nessuna ragione per entrarci, ma quando ci si ritrova per caso sente la vibrazione di questo posto, e la sua fantasia corre alla vita della gente che ci abita, e ai cambiamenti occorsi nel tempo, dai tempi della Liberazione, alla Rivoluzione Culturale, al terremoto di Tangshan.

Finalmente arriviamo alla Corte n. 28; c’è parecchia gente, rimane un tavolo orribile in un angolo con l’aria condizionata a mille, ma una piccola attesa ci vale uno dei due tavoli nel cortile. Lascio ordinare lei, e non avrò motivo di dolermene – tofu e verdure saltate, melanzane piccanti e gambi di broccoli al vapore. Birra Yanjing.

Tra una sigaretta e l’altra si chiacchiera come al solito noi due, con le solite pause lunghe e la voce pacata. Si parla di passato, presente e futuro.

“Mi piace questo posto” dice alla fine “come l’hai trovato?”

E’ con orgoglio che rispondo: “Stavo camminando due giorni fa per queste strade, c’era una bella luce quel giorno e ho pensato di fare qualche foto. E poi me lo sono trovato davanti”

Mi guarda con gli occhi stupiti. Sì, conosco Pechino meglio di tanta gente che vive da anni e anni. Sì, mi oriento a meraviglia tra gli hutong. No, non sono un laowai abitudinario e ottuso come molti altri.

“Voglio portarci i miei amici” dice alla fine “sempre che riesca a ritrovare la strada. Questo posto dovremmo recensirlo su That’s Beijing, merita proprio”

Allora mi rendo conto del perché sono qui stasera, e perché c’è lei e nessun altro. Jingyi è la papessa che mi incorona imperatore, colei che sancisce il ritorno alla casa del mio spirito, la mia città, Pechino. Mi guarda con meraviglia e rispetto. Lei sa che significa per me stare qui, e io so che lei sa, e che è l’unica persona qui che può capire.

Eccomi di nuovo a casa, sotto l’ombra di questo grande albero, tra i quattro muri di una corte di siheyuan che nemmeno i dinosauri di That’s, i miei modelli di vita pechinese, conoscevano. Sorseggio la mia Yanjing dal pesante bicchiere azzurro e irregolare e faccio un profondo tiro dalla mia Zhongnanhai 8mg.

Benvenuto a casa.

2007-04-28

Ferragosto

Mi sveglia il trapano alle otto del mattino, ma sono di buon umore. Attraverso le tende in stile tovaglia azzurra lasciate dai padroni di casa filtra una luce più calda del solito, e sento meno umidità. Oggi è Ferragosto, e per la prima volta da quando sono qui Pechino mi regala un giorno di sole! Attraverso le foglie dei vecchi alberi vedo brillare i suoi raggi e mi godo la brezza asciutta che scuote i rami. Finalmente!

Passo gran parte della giornata a casa, preso dal lavoro, ma le finestre sono spalancate ed è pieno di luce. Faccio un salto fuori alle due per raggiungere il 7 Eleven e accaparrarmi una delle ultime porzioni di manzo al curry che rimangono, e scattare una foto ai tassisti appisolati nella loro auto in questa pigra giornata d’estate.

Le sei di sera arrivano in fretta, e il sole comincia a calare in una luce dorata. E’ il caso di uscire, non resisto a sprecare la giornata tra queste pareti. Uno sguardo a Google-earth e alla sua mappa datata di Pechino, e si decide la meta, il Tempio dei Lama. La strada non si sa, la dovrò trovar da solo in mezzo agli hutong.

Sono sorprendentemente vicini a casa, una decina di minuti. Antichi, tranquilli, caratteristici e pieni di vita. Massaie con i cani bianchissimi e cotonatissimi, gatti grossi come condizionatori che rispondono ai richiami dei padroni, gabbie con grilli e uccellini, vecchi grassi che siedono soli con una sigaretta in mano, o spazzano la strada con una scopa di saggina corta, uomini che giocano a scacchi a dorso nudo con la faccia concentrata, donne che se la chiacchierano sedute sugli scalini di casa, ristoratori che friggono e arrostiscono, parrucchiere ipnotizzate dalla televisione che trasmette telenovele coreane, ragazzi in bicicletta e postini in scooter.

Sono a Pechino, sì, ora lo sento. Sono finalmente a casa.

Mentre scatto una foto ad uno scorcio particolarmente suggestivo, la luce del tramonto illumina un vecchio siheyuan rimesso a nuovo con ampie finestre e mobili moderni. Un numero civico di fianco alla porta identifica il luogo: No. 28. E’ un ristorante. Ci torno la sera con Francesca, un’amica italiana che sta da me qualche giorno: la clientela è solo cinese, come il menù di piatti del Guizhou. Il silenzio della sera dolce, il servizio gentile, il conto ridicolmente basso.

Facciamo una passeggiata fino alla Torre del Tamburo e a Houhai, poi un salto al fossato nord della Città Proibita, quindi taxi fino a casa. Pechino la sera di Ferragosto, le strade buie piene di gente.

Solo adesso mi rendo conto veramente d’esser tornato a casa, dove il mio cuore attendeva da anni.

2007-04-26

Pareti Sottili

Quasi tutte le cose in Cina sono costruite secondo due regole: devono costare poco, e devono durare ancora meno. La Cina è un Paese che ha fatto dell’usa e getta una filosofia produttiva. Tristemente, gli edifici non sfuggono a questa regola generale, ed è per questo che la casa in cui vivo, che pur si qualifica come edificio più che borghese, è dotata di pareti prefabbricate particolarmente dure e sottili, tanto dure che non è possibile piantarci i chiodi per appendere i quadri, e tanto sottili da condurre il suono meglio di un foglio di carta.

Così anche quando due piani sopra gli operai azionano il trapano, è un po’ come se io fossi a trenta centimentri. Non commento quando accendono il martello pneumatico dall’altra parte del muro a cui è appoggiato il mio letto. Fortunatamente il vostro eroe vive in uno xiaoqu silenzioso, quindi se nessuno fa rumore c’è veramente pace. E’ anche vero che in questa situazione di silenzio il vostro eroe, la notte, sente i vicini se tossiscono.

Questo il preambolo necessario a narrare il mio incontro nell’ascensore pochi giorni dopo la partenza di Dandan. Entro al piano terra, saluto la ragazza che pigia i bottoni, saliamo al quarto piano dove abito, e la porta si apre rivelando, davanti a me, la figura di un operaio sulla cinquantina, tuta da lavoro, trapano in mano, casco di sicurezza appoggiato in testa, pelle nera un po’ per il sole, un po’ per la polvere, un po’ perché viene dalla campagna.

Il tizio, alto almeno 30 centimetri meno di me, mi guarda divertito, sorride di un sorriso sdentato, alza il pollice ed esclama:

“Waiguoren zhen you li!”

谢谢” rispondo io, ipotizzando che si tratti di un complimento. “Grazie”

Entrato in casa, mi scervello sul significato della sua frase e sul tono che ha usato. “Gli stranieri hanno tanto li!”. Quale dei trenta tipi diversi di “li” avrà inteso? Il Li () di vantaggio? Il Li () di tradizione? Oppure il Li () di bellezza?

Ci metto un paio di giorni a capire, o piuttosto ad ammettere a me stesso, che il li che intendeva era il li () di forza, prestanza fisica.

外国人真有力!”: “Gli stranieri hanno un sacco di prestanza!”

Segue flashback della maratona sessuale del fine settimana precedente, e sul fatto che quando s’era finito c’era un gran silenzio, che forse non era dovuto alla condizione beata mia e di Dandan, ma al fatto che gli operai erano tutti fermi ad ascoltare.

Per fortuna che i vicini non sono ancora venuti ad abitare qui, penso, se no chissà come mi avrebbero etichettato. Ma comunque chissene, tanto la privacy non esiste nei palazzi cinesi, tutti in qualche modo sanno tutto di tutti. Se lo xiaoqu è un paesotto, il condominio è un villaggio. Ragion per cui, dopo un momento di imbarazzo, abbandono ogni speranza di una buona reputazione e adotto un sano pragmatismo privo di ogni scrupolo.

Da allora, e per tutto il periodo dei lavori, quando io e Dandan ne abbiamo abbastanza dei trapani e dei martelli pneumatici, ci guardiamo, capiamo, e parte la nostra risposta che manco un film porno. Trapano, ed ecco Dandan che urla dalla doccia. Martello, e il mio gemito risponde dalla cucina, mentre con nonchalance preparo l’insalata. Silenzio, tutti gli operai in religioso silenzio. Pare funzionare.

E’ così che sopravviviamo coi nervi incolumi al periodo dei lavori nel condominio.

2007-04-16

No Name Restaurant

Dandan viene a Pechino per poco più di 24 ore. Non ci vediamo da un mese, e io tra una settimana parto per l’Italia. Vuole vedermi ad ogni costo, anche se solo per un giorno e una notte. E’ una ragazza emotiva.

All’inizio ero quasi scocciato: sono a Pechino da una settimana, la casa è ancora un casino, va pulita e va riempita di cose, non ho la tessera del telefono, non ho un conto bancario locale, e lo stress mi fa pure ammalare di raffreddore, cui contribuisce il tempo artificiale creato dai cannoni sparasale che fanno di Pechino una novella Shanghai, umida e piovosa.

Queste ore insieme a lei invece mi fanno capire che ha ragione lei, che io mi faccio prendere troppo dallo stress. Fanculo al lavoro, fanculo alle incombenze domestiche. Mi sento rinascere, e ricordo tante cose belle della vita che avevo dimenticato, come le coccole la mattina presto, i film dei Monthy Python visti in due o le maratone sessuali a qualunque ora. Alla fine, anche se non sto in piedi dalla stanchezza, sorrido, e mi è passato anche il raffreddore. Miracoli dell’amore.

E’ grazie a Dandan che scopro il No Name Restaurant, editor’s pick tra i ristoranti migliori di Pechino nella categoria “Best for a Date” di That’s Beijing. Conoscevo già il No Name Bar, ma non il ristorante, e come anticipato da That’s, richiede parecchio tempo per essere trovato. 大金丝胡同, Dajinsi Hutong: nemmeno il tassista l’ha mai sentito. Chiamiamo il locale e facciamo parlare cameriera e tassista. Il tassista grugnisce e poi ci molla sull Di’anmen Wai. Da qui in poi a piedi, tanto i taxi non ci entrano nelle stradine; tocca arrangiarsi.

L’aiuto della popolazione locale varia da “不知道” (non ho idea) a “sta veramente lontano, vi ci porto io in risciò fanno 10 kuai”. Il migliore rimane “a Pechino ci sono tanti di quegli hutong… come diamine faccio a sapere dove sta quello che cercate voi?”.

Quello che cerchiamo noi, per la verità, sta a non più di cinquanta metri da dove ci troviamo, ovvero sul ponte che divide Houhai da Qianhai. Un minuscolo cartello indica “No Name Restaurant”, con una freccia verso destra. L’hutong sarà largo un metro e mezzo, nella zona restaurata, la porta non ha decorazioni se non un piccolo cartello al neon che lentamente varia di colore.

L’interno è una scoperta: luci soffuse e colorate, arredamento di gusto ovunque, dalla sala principale al bagno, con il lavandino incastonato di pietre trasparenti di vari colori. La parte che più merita, tuttavia, è il terrazzo. Quattro tavoli in stile coloniale, attorno i tetti dei siheyuan e le chiome dei grandi alberi pechinesi che si stagliano nere contro il cielo bianco della notte. Non un rumore, se non le voci sommesse di una coppia, lui britannico e lei cinese, che presto ci lasciano soli. Sono le nove di venerdì sera a Pechino, e siamo soli su un terrazzo circondati dal silenzio. Io sprofondo su un trono di vimini, mentre Dandan si allunga su un divano vicino. Alla luce soffusa di una candela alla vaniglia, gustiamo piatti profumati dello Yunnan serviti su una figlia di banano. Di tanto in tanto, una cameriera in costume tradizionale viene a controllare se abbiamo bisogno di qualcosa – non chiede, guarda un attimo, poi discretamente scompare.

Solo a Pechino, probabilmente, può capitare una serata del genere. Ed è per questo che ho deciso di vivere in questa città.

2007-04-12

I Due Draghi e le Tempeste di Sabbia

Titolare il post “Piove, Governo Ladro” sarebbe stato troppo facile. E infatti l’hanno fatto in troppi, sull’argomento. Quindi legherò la vicenda ad una leggenda di Pechino vecchia di secoli, che racconta di due vecchi draghi che, essendo innamorati di Pechino come del resto chi scrive, nonostante la loro condizione aliena avevano preso forma umana e vivevano in mezzo agli hutong insieme alla gente della lao Beijing.

Un giorno, dopo molte primavere in cui avevano vissuto nella capitale, la città fu assalita da numerose e feroci tempeste di sabbia, che la ricoprirono di un pesante velo di polvere. Poiché mai le condizioni atmosferiche erano state così avverse, i due draghi si insospettirono e decisero di mettersi in cerca della causa delle tempeste per proteggere la loro amata città. Fu così che, nei pressi della porta di Deshengmen, trovarono due mendicanti dall’aria eccessivamente cenciosa e sporca: una vecchia e un bambino, ciascuno con due sacchi, la prima pieno di grigia polvere, il secondo pieno di grigio cotone. I draghi si insospettirono e cercarono di fermarli per interrogarli, ma i due mendicanti tentarono di fuggire: inutilmente, perché i draghi li intrappolarono in un hutong, ciascuno bloccando uno degli accessi, e li innaffiarono con il loro soffio d’acqua, fino a che i due mendicanti confessarono di essere spiriti malvagi. Il bambino si buttò in ginocchio e vuotò il sacco di cotone, da cui uscirono nubi furiose, e i draghi le aspirarono nelle loro enormi fauci. Allora la vecchia vuotò anche il suo sacco, pieno di vento sabbioso, e i draghi cominciarono a starnutire, dando ai due spiriti il tempo di fuggire nell’aria verso i deserti del Nord. Quando i draghi si ripresero, attimi dopo, si lanciarono all’inseguimento. E da allora non furono più visti a Pechino.

Le tempeste di sabbia si calmarono per molti anni, ma infine ricominciarono a crescere in intensità, e per questo i pechinesi costruirono, nei pressi della porta di Deshengmen, uno yingbi (影壁), uno schermo contro gli spiriti, fatto di metallo e rapresentante i due draghi, e da allora la città fu protetta dalle grandi tempeste.

Lo schermo fu spostato durante i lavori di espansione della città nel 1946, e da allora le tempeste ricominciarono. Ma il governo non ha mai pensato di risistemare lo schermo al suo posto, e lo ha lasciato in un angolo del Parco Beihai come attrazione turistica. Invece, nella tarda primavera del 2006 ha deciso di portare indietro direttamente i draghi, le creature che dominano laghi e tempeste di pioggia.

Per tutta l’estate, si possono sentire dei forti rombi nel cielo, come tuoni, e poi la pioggia arriva e blocca le tempeste di sabbia facendo precipitare le particelle sottili a terra. Secondo l’agenzia di stampa nazionale Xinhua, la protezione civile sta sperimentando un nuovo metodo per proteggere Pechino e le future Olimpiadi dal cattivo tempo e dalle tempeste di sabbia: questa tecnica all’avanguardia consiste nello sparare in aria, con speciali cannoni, dei composti chimici che, a contatto con le nubi, le trasformano in pioggia. Oltre a bloccare le tempeste di sabbia, il metodo viene usato anche la notte precedente a una manifestazione: durante la notte le nubi si diradano, garantendo una bella giornata di sole per la cerimonia. Il risultato è che non si è mai avuta, a Pechino, un’estate più piovosa di quella del 2006.

E’ curioso notare come numerosi tecnici stranieri si dichiarino scettici sulla possibilità di causare pioggia artificiale sparando speiali soluzioni con i cannoni. Eppure si sentono rombi nel cielo e la pioggia cade. Che i due draghi siano tornati a proteggere la Pechino del ventunesimo secolo?

2007-04-10

Sicurezza parziale

Tempo fa era stato scritto un post sulla sicurezza, sul fatto che apparentemente ci sono guardie dappertutto. La sicurezza d’altra parte è in cima alla lista delle priorità del Partito da sempre, e non meraviglia che sia attuata con dovizia. Al di là della polizia, le guardie locali, i bao’an (保安), ci sono sempre state all’entrata dei xiaoqu e della danwei, e oggi anche dei gongyu (公寓), i compounds residenziali. Sono ragazzini, avranno sì e no vent’anni, e probabilmente non hanno mai ricevuto alcuna addestramento. Dubito che in caso di emergenza saprebbero come comportarsi e probabilmente scapperebbero. Una volta stavano sulle porte per registrare chiunque passasse, ma oggi non si usa più. Alle persone non fanno neanche caso, fermano qualcuno giusto se ha la faccia da ladro; ma se trovano uno straniero gli aprono direttamente la porta, perché dev’essere qualcuno di importante. Magari sta per suonare il citofono, loro corrono e aprono la porta, solo perché è laowai. Quelli che stanno al xiaoqu sono ormai parcheggiatori: registrano le auto che entrano ed escono, consegnando fogliettini per parcheggiare a lato strada. I taxi nemmeno li fermano, semplicemente spostano una specie di carrello che blocca l’accesso. A tarda notte capita spesso si trovare la guardia addormentata e dover suonare il clacson per entrare nel xiaoqu, oppure trovare il carrello direttamente a lato strada, visto che la guardia non vuole essere svagliata dai clacson di chi passa. Non c’è più disciplina nelle nuove generazioni, e del resto mi fa ridere chi dice che in Cina tutto viene schedato e controllato: basta far piano, muoversi in taxi o avere la lingua lunga o far finta di non parlare cinese per scavalcare qualunque controllo.

Ma ci sono anche altri controlli di sicurezza meno visibili, a Pechino. Ai tempi di Mao il sistema di informazione reclutava buona parte della popolazione civile: chiunque poteva essere uno di quelli che facevano rapporti periodici ai segretari di Partito sulla condotta di chi incontravano. Poteva essere la maestra di scuola di tuo figlio, o il lavandaio, o anche la tua vicina di casa. Oggi non si usa più, rimangono solo i portinai e gli ascensoristi, che controllano chi entra ed esce da un palazzo, tipicamente dalle 6 alle 24. Poi, visto che vanno a dormire, per precauzione chiudono la porta a chiave e staccano la corrente all’ascensore, che non si sa mai chi potrebbe entrare. D’altronde a gente per bene a quell’ora dorme. Vagli a spiegare che quando tu torni ubriaco alle tre del mattino hai voglia zero sia di litigare con la serratura arrugginita del portone, sia di farti a piedi le scale fino al tuo appartamento.

Portinai e ascensoristi conoscono tutti, e sanno a memoria le abitudini di chi passa di lì e tutti i visitatori. Spesso fanno domande invadenti. Molto probabilmente non fanno più rapporti periodici a chi di dovere, ma non c’è dubbio che siano istruiti a segnalare comportamenti “strani”, come gente sconosciuta che viene a orari improbabili o che comunque si comporta in maniera losca, a chi di dovere.

Il fatto che ovunque ci siano meccanismi di controllo garantisce la mia sicurezza di cittadino che non ha in mente nulla di criminale o sovversivo. L’unica cosa che mi scoccia è l’ascensore che viene staccato a mezzanotte: ma ho scoperto che armeggiando a dovere con la chiave della posta, la serratura scatta e la corrente riparte. Non è una sicurezza senza falle, con un minimo di furbizia la si aggira sempre. Ma in fondo è questo il bello, la grandezza della logica confuciana rispetto a quella occidentale. La legge non dev’essere uguale per tutti, e deve lasciare spazio a un po’ di spirito umano. So perfettamente che un professionista potrebbe entrare in casa mia e derubarmi. Ma i professionisti, che mi svuotano casa senza neanche svegliarmi, non mi fanno paura: chi temo sono i disperati, i tossici o i contadini ignoranti delle campagne che per uno spavento sono capaci di accoltellare. Questo apparato di sicurezza è tarato per funzionare contro di loro e, almeno fino a che la discipina non si allenta troppo e il numero di migranti rimane sotto controllo, io dormo sonni tranquilli.

2007-04-04

Xiaoqu

Quando, a metà del XIII Sec., i mongoli edificarono Camblau, o Dadu, la città che stava qui prima di Pechino, costruirono grandi viali paralleli e, tra un viale e l’altro, crearono gli hutong. Le aree delimitate dalle varie direttrici della città si chiamavano fang (访), un termne traducibile con “vicinato” o “quartiere”. Per ragioni di sicurezza ogni fang era circondato da una cinta su cui si aprivano dei cancelli sorvegliati, e dal tramonto all’alba nessuno poteva oltrepassarli. I mercati si tenevano fuori le mura, ma ogni fang era sostanzialmente autosufficiente, con un ortolano, un sarto, uno stagnino, e ogni servizio di base. Le famiglie che ci vivevano si conoscevano, ed esisteva un forte senso di comunità.

La logica non era cambiata sei secoli più tardi quando, nel 1958, Mao creò le Comuni Popolari e le danwei, ma per le unità più piccole venne restaurato il sistema del fang, ovvero un isolato circondato da grandi strade, attraversato solo da strade minuscole, e servito da scuole, ospedali, negozi di base, ecc., con tutti gli accessi sorvegliati da guardie locali. La Pechino socialista venne costruita sulla base del fang o, come venne rinominato per non suggerire collegamenti con i tirannici mongoli, lo xiaoqu (小区), il “piccolo distretto”.

La Pechino di Mao era un’insieme di cellule indipendenti e decentrate, ciascuna con una propria sezione di partito, un comitato di gestione, varie associazioni popolari e ogni cosa servisse a permettere agli abitanti di non dover mai uscire dai confini dell’abitato. Come una serie di villaggi tutti costruiti uno accanto all’altro. Decentramento totale.

Questo sistema resse in modo eccellente fino alla fine degli anni ’90, quando la specializzazione di zona lo rese obsoleto. Nel momento in cui la gente cominciò a recarsi alla stazione del treno, all’ospedale cittadino, all’università, nel CBD (City Business District), la popolazione dei xiaoqu si riversò nelle strade che li dividevano, spostandosi in massa e intasando la città. La pianta urbana di Pechino non era stata concepita per gestire una popolazione mobile. Macchine e bus circolano nelle grandi strade, ma queste sono troppo poche per reggere i volumi attuali: le vie dei xiaoqu sono troppo strette, sono strade di villaggio, allineate d’alberi e fatte per passeggiare o per andarci in bicicletta. E’ per questo che si può stare nel centro di un xiaoqu senza accorgersi di essere nella capitale della Cina. E’ quasi come essere in campagna: niente rumore di veicoli, e anche il ritmo della vita è tutta un’altra cosa, tutto accade in maniera più lenta, più tranquilla. I vecchi fanno ginnastica, i bambini giocano in mezzo alla strada, le massaie si trovano davanti al fruttivendolo o dal barbiere e se la raccontano per tutta la mattinata. Un modello di urbanistica venuto dal passato e forse la salvezza del futuro.

Gli urbanisti di Pechino si sono resi conto di tutto ciò, e la soluzione da loro trovata è tipica della burocrazia irresponsabile e ottusa: siccome la struttura dei xiaoqu rende gran parte della città inaccessibile al traffico, occorre aprire delle strade a 4-6 corsie nel mezzo di ogni xiaoqu, in modo da creare valvole di sfogo per i mezzi a motore. Sta già accadendo: nel 2003 gli splendidi hutong di Dongzhimen sono stati spianati per edificare il più giovane dei xiaoqu, quello in cui abito, Min’an Xiaoqu (民安小区), il Piccolo Distretto della Pace del Popolo. Tagliato da est a ovest dalla Min’an Jie, una bella via a quattro corsie che, passando davanti all’ambasciata russa, connette il Secondo Anello con Dongzhimen Bei Xiaojie. Sempre vuota, la maggior parte dei tassinari nemmeno la conosce a quattro anni dalla sua costruzione. Entro il 2010 la Min’an Jie sarà allungata, spianando la parte centrale degli hutong di Beixinqiao, in modo da raggiungere le porte del Tempio della Macchia di Cipressi e il Tempio dei Lama, e poi continuare sul tracciato di Fangjia Hutong, una bellissima strada piena di case tradizionali risistemate a affittate a singole famiglie. Che sarà allargata fino ad avere una dimensione circa tripla dell’attuale.

Per quanto mi riguarda, cerco di godermi la mia pace da xiaoqu, finché dura. Prima o poi i tassinari impareranno a prendere la Min’an Jie e la mattina, invece del silenzio, sentirò il rumore dei clacson e del traffico di Pechino. Niente più gente per le strade, ma moderne automobili straniere, apatiche e anonime come ogni oggetto destinato al mercato di massa. Ma per oggi, non ancora. La Pechino dei miei sogni, ancora per un poco, vive.

2007-04-02

Decentramento

Uno dei luoghi comuni più sbagliati sui cinesi è che siano un popolo organizzato. Sono docili, sì, non litigano come facciamo noi per ogni cosa, non si innervosiscono e per questo mantengono in essere la loro complicatissima società e burocrazia senza che il tutto esploda in una rivoluzione violenta ogni mese. Ma non sono organizzati.

In effetti venendo a contatto con una struttura organizzativa cinese ci si rende immediatamente conto di due cose: la gerarchizzazione estrema e la mancanza di comunicazione tra i soggetti. In pratica il vertice dovrebbe al corrente di tutto e controllare tutto: delegare ad alcune persone sotto di esso le varie attività, e queste persone fare rapporto periodicamente al centro, e ad esso riferirsi per tutte le decisioni importanti. Questa struttura potrebbe essere efficiente in una famiglia di qualche decina di persone, ma non in grandi aziende o amministrazioni statali. Quel che accade è che, in organizzazioni estese, i rapporti tra soggetti si perdono nel mare dei numeri, e tutto rimane paralizzato dalla mancanza di fogli, timbri e firme.

La Cina, al contrario di quello che si pensa generalmente, è lo Stato con il più alto grado di decentramento amministrativo al mondo. Il governo di Pechino emana linee guida e leggi quadro, ma poi sono le Province a rimepire i buchi, e sotto di loro le città e le contee. Il risultato è che gran parte delle norme di diritto civile e commerciale varia a seconda del luogo. Negli anni’ 80 un economista aveva dimostrato che la province cinesi erano più integrate con i mercati esteri che con quello interno, ovvero che siccome ogni contea aveva i suoi dazi e le suo norme, era più facile ed economico per una città vendere alla Svizzera piuttosto che al villaggio 100 km più oltre, se non altro perché la Svizzera aveva una dogana sola, mentre sulla strada di 100 km c’erano almeno 5 posti di blocco appartenenti ad autorità diverse. Ancora oggi la spesa pubblica è diversa da luogo a luogo: anche se il governo pubblica il Piano Quinquennale, che illustra le linee guida della crescita economica, alle autorità locali spetta il 70% del budget pubblico, uno dei più alti al mondo. Senza contare le tasse discrezionali, ovvero 27 diverse imposte che possono essere create “fuori budget” da una qualunque autorità.

E non solo la pubblica amministrazione si comporta in questo modo. Trasferendomi a Pechino, ho una brutta sorpresa: l’ufficio locale della Bank of China non è in grado di accedere al mio conto, nemmeno per dirmi quanti soldi ho, perché il suddetto conto è stato aperto all’ufficio di Shanghai. 没有关系, dicono, non c’è relazione. Ma siete o no la Bank of China, è la stessa banca, no? Sì, mi dicono, ma li uffici sono diversi, così diversi che se non torno a Shanghai non posso nemmeno trasferire i miei soldi dal conto vecchio a quello nuovo. Una volta a Shanghai, devo peraltro compilare un modulo di pagamento a me stesso, perché il trasferimento da un conto all’altro per filiali diverse non è previsto.

La situazione mi ricorda inequivocabilmente il feudalesimo di Carlo Magno, quello che si studia alle elementari. Il Re sopra, poi i duchi, i conti, i baroni, vassalli e valvassori. Ci si parla solo dall’altro al basso, non ci sono rapporti tra pari. E’ un mondo di privilegi e scatole chiuse dentro cui nessuno può guardare, e anche i pochi che potrebbero non guardano per pigrizia. Solo che trovarmi davanti al feudalesimo di Carlo Magno nel XXI° secolo mi fa strano non poco.

Questa situazione di decentramento è vera anche per il settore privato. Prendiamo l’azienda partner di quella per cui lavoro in quel periodo. 16.000 dipendenti, sede centrale a Nanchino, proprietà unica del signor Zhu, 15 anni fa comune macellaio dell’Anhui, oggi ventisettesimo uomo più ricco della Cina. Esiste una divisione per le carni fresche e le carni trattate, che non si parlano e hanno due general manager separati, rispettivamente il signor Bi e un altro signor Zhu, parente del titolare, ma più giovane. Quella delle carni trattate è divisa in parte produttiva, con una decina di fabbriche sparse per la Cina, che rispondono diettamente al capo di Nanchino, il signor Zhu minore. Poi il marketing, che sta solo a Nanchino e parla solo con Zhu minore e i suoi assistenti. Poi c’è l’ufficio commerciale, diviso tra grande distribuzione e food service, ancora due strutture parallele con capi che riportano a Zhu minore. Gli uffici commerciali sono sparsi per tutta la Cina: ognuno ha un responsabile che riporta a uno dei due manager commerciali di Nanchino.
Fin qui nulla di strano, senonché né i vari responsabili locali, né i manager di Nanchino, né Zhu minore o i suoi assistenti, hanno un indirizzo e-mail. La maggior parte non ha nemmeno un computer, che del resto non saprebbe usare.
Zhu maggiore non si vede mai. Zhu minore, i suoi assistenti, e i manager della sede centrale di fatto passano la loro vita a viaggiare in treno o automobile (l’aereo costa troppo) da un capo all’altro della Cina, solo per incontrare i responsabili e farsi raccontare come vanno gli affari. Esattamente come, nell’800 d.C., faceva Carlo Magno con i suoi vassalli.
E questa è l’azienda leader nel settore della carni in Cina, anno del Signore 2007.

Con questo, vi siete fatti un’idea del mostro burocratico con cui devo confrontarmi ogni fottuto giorno, che io stia al lavoro, vada in banca o usufruisca di un servizio pubblico.