2008-07-04

Il Midi Festival

A Pechino, ormai da diversi anni, esiste una scuola di musica moderna, la Midi (北京迷笛音乐学校), allo scopo di promuovere e insegnare la musica non tradizionale (e peste lo colga a chi la definisce “occidentale”). Come tutti gli artisti, e specialmente quelli iconoclasti, i ragazzi del Midi sono degli innovatori e, nel 1997, hanno deciso di inventarsi un festival della musica a Pechino, nel cortile della scuola. Organizzato in pochi giorni, più che altro tra gli studenti e i loro amici, con esibizioni a rotazione di bands rock, punk, metal, tutto rigorosamente cinese, ha riscosso tanto di quel successo che, nel 2006, la decima edizione, è stata tenuta nel parco di Haidian (in una zona di periferia cinesissima, lontana anni luce dal ghetto laowai di Chaoyang), e ha accolto decine di migliaia di giovani, per lo più cinesi (anche stranieri, ma una minoranza), con 50 band di cui 18 straniere che si sono esibite su quattro palchi per tre giorni di autentico delirio, con gente che bivaccava ovunque. Per capire il Midi, bisogna capire che il rock in Cina è arrivato solo a metà degli anni ’80, ed è ancora nuovo, è ancora ribelle, non è stato ancora stuprato e prostituito da MTV e dalle major (ma senz’altro lo sarà a breve). E’ un periodo d’oro in cui chi suona non guadagna nulla, ma lo fa col cuore.

Va da sé che io decida di andare all’edizione 2007, e con Dandan ci piazziamo su un taxi che, dopo essersi perso nei dintorni del Palazzo d’Estate prima e della Metro (non la metropolitana, proprio il cash & carry tedesco) poi, finalmente imbrocca la via e ci scarica all’entrata del parco. Dentro, puro delirio – ci sono i personaggi più strani, dal punk con cresta di venti centimetri e giubbotto di cuoio con la A di anarchia, ai dark, agli emo stile giapponese, ai semplici rocchettari indipendenti, c’è di tutto e di più, in un mare di coperte e tende, bancarelle, chioschi della birra coi bicchieri di plastica, e via così. Atmosfera di libertà, piuttosto rara in Cina. Poca, pochissima vigilanza o polizia, eppure niente atteggiamenti pericolosi.

Al mercato delle pulci io e Dandan ci procuriamo due anelli tibetani col mantra “Om mani padme hung”, uno dei simboli pop degli alternativi in questo Paese, reperibili in qualunque bancarella hippie cinese. Stendiamo la coperta e attacchiamo bottone con degli studenti stranieri del Midi, Edvard, un metro e novanta, capello rosso, pelle mozzarella e accento scandinavo, e una coppia di americani, lui capello emo e cappellino da baseball, lei trascurabilissima. Rimaniamo a chiacchierare a lungo, scartando abbastanza presto i due americani – la banalità fatta coppia – e rimanendo a raccontarcela con Edvard, che da buon vichingo suda copiosamente sotto il sole impietoso della steppa.

Musicalmente, c’è un po’ di tutto, dai musicisti bravi fino alle tapparelle rotte; ci sono quelli fissi che suonano e se ne vanno e ci sono gli animali da palco che urlano, si rotolano per terra, tirano in mezzo il pubblico; ci sono i newbie mai sentiti e ci sono i mostri sacri tipo Cui Jian, il padrino del rock cinese (il primo rocchettaro della Cina ormai ultraquarantenne, uno che per dire ha suonato in Tian’anmen davanti a decine di migliaia di studenti in quei giorni famosi di giugno di tanto tempo fa e per questo non ha più pubblicato album per una decina d’anni). Tra i gruppi cinesi Pechino domina come capitale anche del rock, ma Chengdu fa la sua parte, e tanti ragazzi non sono han, ma di minoranze xinjianesi o yunnanesi, tutti insieme appassionatamente per il festival nazionale più importante; tra gli stranieri c’è un po’ di tutto, per essere realisti diciamo che non c’è un cazzo di budget (del resto il Midi Festival è per gli studenti e gli artisti squattrinati, il biglietto sono 150 kuai per tutti i tre giorni), per essere gentili diciamo che il rock cinese, o meglio lo yaogun (摇滚), che comprende tutta la musica alternativa, è alla ricerca e sperimentazione delle basi per creare il proprio stile, sta di fatto che le band più famose sono i tedeschi Liquido e i Soundtrack of Our Lives, ma gran parte degli altri sono band scandinave o americane goth metal, power metal, black metal tipo Hatesphere o Cruxshadows, e checché ne dica Edvard, secondo me succhiano alla grande. Ma il bello del Midi non è tanto la musica (tra l’altro l’acustica fa schifo perché le casse dei quattro palchi sono tutte voltate verso lo stesso punto medio, quindi i suoni tendono a sovrapporsi), ma è lo spirito. E’ il ritrovo degli alternativi cinesi – e non ce ne sono ancora abbastanza di alternativi in questo Paese – dove si dà via libera alla creatività e la polizia la si lascia fuori, senza per questo sbroccare. C’è un clima di festa, di vacanza, di picnic, vedi i cinesi liberi come si comportano i ragazzi di ogni altro Paese, senza gli atteggiamenti forzati che noti in altre situazioni, eccessivamente cauti o eccessivamente nervosi e aggressivi. C’è relax, c’è buona energia. Niente grandi band o nomi famosi, niente marketing, solo musica e divertimento.

Bello questo Midi Festival.

2008-06-30

Ghiacciolo

Quando la primavera arriva, e si vive in uno xiaoqu, e per di più vicino agli hutong, è un piacere cenare presto e, mentre non è ancora completamente buio, scendere in strada e fare una passeggiata. Non ci sono luci al neon intermittenti e invasive, né la puzza e il rumore delle auto, solo altra gente che tranquillamente si gode la brezza della sera, che porta i profumi dei gelsomini e della acacie in fiore.

Di solito quando passeggio mi piace prendere un gelato, ma qui un po’ per la pancia che avanza, un po’ perché i gelati cinesi sono stradolci e pieni di coloranti chimicissimi, preferisco andare sul ghacciolo.

Il ghiacciolo! Ricordi di bambino, quando si giocava nel cortile dietro al tabaccaio che li vendeva, o all’oratorio d’estate, quando non c’era nulla da fare e stare all’ombra gustando qualcosa di freddo era la cosa migliore che potesse capitare. Ricordo che i ghiaccioli non costavano nulla, e ce n’era di ogni gusto: arancio, limone, menta, cola, fragola, persino l’anice, tutti meravigliosi. Ma in Cina no.

La differenza fondamentale tra un ghiacciolo e un gelato è che il primo è costituito essenzialmente da acqua ghiacciata mista a uno sciroppo dolce; il secondo ha una sostanziosa aggiunta di latte, che lo rende appunto cremoso. Noi italiani lo sappiamo bene, data la nostra famosa tradizione in merito. Anche i cinesi distinguono le due cose con due parole diverse: il ghiacciolo è il bingbang (冰棒) e il gelato bingqilin (冰淇淋). Solo, per qualche curioso equivoco, il ghiacciolo in Cina contiene tipicamente latte.

“Vorrei un ghiacciolo, che gusti avete?”

“Latte”

“... e poi?”

“Mirtillo e latte”

“C’è qualcosa senza latte?”

Sì, il ghiacciolo al limone e arancio. Che sa di latte. Che poi è il latte cinese iperchimico, che te lo spiego. Ma per i cinesi il latte è una novità sana che fa bene alle ossa, e con questa scusa le aziende di ghiaccioli ce lo mettono un po’ dappertutto, anche solo come profumo o sapore.

Con il supporto linguistico di Dandan, mi metto a girare tutti i baracchini della zona in cerca di un giacciolo che non contenga latte. La ricerca è lunga e difficile, ma alla fine paga, con la scoperta del laobingbang (老冰棒), il “ghiacciolo della Vecchia Pechino”, con tanto di carta bianca con scene tratte da intarsi della dinastia Qing di un vecchio con cappello tondo e codino che offre il ghiacciolo a un bambino a piedi scalzi e con il tradizionale ciuffo di capelli in cima alla testa. Del resto si sa, i cinesi hanno inventato tutto: se loro sono le invenzioni della pizza e degli spaghetti, perché non il ghiacciolo? Difatti il suddetto dessert, oltre a un lievissimo gusto di latte (che comunque è minimo, grazie al cielo), sa di banana, il frutto tipico della steppa ai confini della Mongolia.

Tutto sommato il laobingbang non è tanto male, o quantomeno è quanto di più vicino a un ghiacciolo italiano si possa trovare da queste parti. E così la sera, dopo l’ennesimo pasto luculliano frutto della mia cucina italiana o di quella sichuanese di Dandan, si cammina per Dongyangguan Hutong, o nel parco di Nanguan, o in Beixinqiao San Tiao, in una mano quella della dolce metà, nell’altra il laobingbang. E, dall’altra parte del mondo, sembra quasi di tornar bambini a Milano. O a casa propria, sarebbe più onesto dire. La mia casa, oramai, è qui.

2008-06-27

Cani e porci

Quanto tempo è passato da quando ero entusiasta della gente che si trovava a Pechino? La mia prima impressione era di trovare persone speciali, persone che, sfuggite al loro mondo per cui provavano insofferenza, erano finite dall’altra parte del globo in una terra aliena, talvolta accogliente talvolta incredibilmente ostile. Persone speciali per cui non si poteva non provare rispetto o ammirazione, se non altro per il coraggio di essere venuti in Cina. Era l’inizio del 2003, e ora invece è quasi la metà del 2007: quattro anni, e non sembra quasi di essere più nello stesso Paese. Per un po’ ho pensato di essere io quello che era cambiato, a non guardare più dal basso del novizio ma dall’esperienza di chi vive qui da qualche anno. Poi invece ho capito che è proprio la gente a non essere più la stessa... una volta la Cina era quasi terra incognita, adesso è l’America di chi vuole fare il business.

E lo vedi nella gente che viene oggi: tronfi, unilaterali, pieni dei pregiudizi della loro cultura. Vengono per fare gli affari loro, autolegittimati e pieni di pretese nei confronti dell terra che li ospita, considerata alla stregua di un Paese in via di sviluppo, un’ex colonia che vorrebbe diventare come l’Occidente ma ha le idee confuse sul come fare. E’ la gente che si lamenta che i cinesi non parlano inglese (come se in tanti altri Paesi lo parlassero), che il caffé e i cocktail fanno schifo e che non si trovano bar alla moda, convinti di arrivare in una copia di qualunque città europea o americana, dove il modello capitalista occidentale ha vinto, e chi paga ha a disposizione. Loro pagherebbero anche, dall’alto del loro reddito in euro o dollari, è solo che si infuriano se pagare non basta, ma occorre anche capire, comunicare, scegliere. Non capiscono come mai i poveri cinesi non si comportano come altri poveri nel mondo e non si fanno calpestare dai ricchi per qualche spicciolo. Sono persone che sognano grandi carriere in un Paese con crescita a due cifre, si immaginano in giacca e cravatta a dare ordini ad eserciti di impiegati-schiavi locali, ma se lasciati soli non sanno nemmeno prendere un taxi o ordinare una forchetta in un ristorante cinese. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di puntualizzare che queste persone non provano nemmeno ad imparare il cinese, oppure ci provano ma mollano dopo due settimane perché “è troppo difficile”, e quando possono frequentano solo luoghi per stranieri, così si sentono più a casa.

E’ gente spiantata, spiaggiata, lontana anni luce da quella che tanto tempo fa mi aveva stupito. Del resto, cinque anni fa questi nuovi arrivati non sarebbero sopravvissuti un giorno a Pechino – quando ancora nessuno, ma nemmeno lo staff degli alberghi a cinque stelle, parlava inglese; quando nei supermercati trovate la Nutella e il latte era un miracolo; quando i bar e i ristoranti stranieri si contavano ancora facilmente, e quelli italiani erano quattro o cinque. Forse certa gente in Cina ci arrivava già una volta, solo che non ci rimaneva. Oggi invece sì, grazie alla nuova Pechino che accoglie gli amici stranieri.

Immagino tutto ciò sia un cambiamento inevitabile, se la mia venuta qui è un prodotto della globalizzazione questa è una nuova fase. Io sono arrivato cavalcando l’onda dell’interesse occidentale della Cina, prima che lo tsunami dei manager internazionali si abbattesse su questo luogo. Se non avessi avuto quella spinta alle spalle, certo qui non mi sarebbe mai venuto in mente di passare.

Ciò non toglie che pur cosciente di quanto devo all’interesse degli occidentali per l’Impero di Mezzo, non sia disposto per nulla ad accettare certi comportamenti da turisti della domenica – i miei modelli rimangono quelli arrivati prima di me, quelli coscienti di approcciare una cultura millenaria e quindi disposti a trattarla con rispetto, ad accettare la necessità di doversi comportare, almeno per cortesia sociale, alla cinese. Dico “no” a quelli che pretendono che siano i sempre cinesi a parlare inglese, dico “stupidi” a quelli che sostengono la cucina cinese faccia ingrassare e quindi mangiano McDonald’s e KFC, dico “sfigati” a quelli che sorridono ai cinesi solo in ufficio e dopo il lavoro li evitano come possono, e dico “ignoranti” a quelli che credono che la Cina si sia sviluppata solo grazie all’influsso occidentale, e che senza l’Europa e l’America sarebbe al livello di sviluppo dell’India. E chiudo con dicendo “bestie” a chi sostiene che per vedere la “vera Cina” sia necessario uscire da Pechino, perché automobili, grattacieli, sistema fognario, elettricità, strade asfaltate e telefoni cellulari sono, nella loro mente, segni di occidentalizzazione e non di progresso. Perché non capiscono come ci possa essere progresso senza occidentalizzazione, perché poi si chiedono “perché invece delle automobili e dei grattacieli non importano la democrazia?”.

Ecco, per dirla tutta, di questa gente ne ho piene le scatole. Che se ne torni a casa propria, se qui non è di loro gusto. Ma sogno, perché quelli come me stanno scomparendo, e quelli come loro saranno sempre di più. La battaglia è stata in fondo persa ancora prima che io arrivassi nel lontano 2003. La guerra, non lo so: forse, col tempo, i cinesi saranno capaci di difendere la loro tradizione e farsi rispettare da soli, si spera con la civiltà e non con una semplice dimostrazione di forza. O più probabilmente, tra cinquant’anni qui parleranno tutti inglese, ci saranno cinque ristoranti Armani e alcune migliaia di McDonald’s; ci saranno fashion shows, cocktail bar e la gente farà il bagno della colonia, si vestirà solo con abiti occidentali e gli argomenti di conversazione saranno gli stessi di New York, Parigi, Los Angeles e Tokyo. O forse sta già succedendo, mentre io scrivo di cose passate, loro stanno globalizzando, riducendo ai minimi termini comuni la cultura mondiale, la cultura di massa. Se il futuro di Pechino sarà un’omogeneizzazione rispetto al resto del mondo, oppure qualcosa di più interessante e innovativo, questo lo deciderà solo la fantasia delle persone che ora vivono qui. Per cui vi prego, se mi leggete e non state capendo il punto di quello che scrivo, se tutto sommato vi sembra sacrosanto che la Cina si adegui al resto del mondo come hanno fatto tanti altri Paesi, tornatevene a casa... e se già ci siete, rimaneteci. Contribuirete a rendere più colorato il futuro del mondo.

2008-06-02

Quartieri alti e quartieri bassi

Nella vecchia Pechino non era solo la struttura del cancello di una casa a indicare la posizione della famiglia che la occupava, ma anche, e ragionevolmente, la posizione della residenza rispetto al centro. C’era la Città Purpurea, dove risiedeva l’Imperatore, la Città Imperiale, dove abitavano i nobili e i funzionari d’alto rango, quindi la Città Interna e la Città Esterna, con discriminazioni di posizione, di reddito e razziali. Dal 1911, con la Repubblica, le cose cominciarono a cambiare, poiché le uniche distinzioni divennero quelle di reddito. E infine, dal 1949, nemmeno quelle: gli spazi della città vennero occupati in maniera più o meno casuale dalle danwei, le unità di lavoro civili o militari: fu la nascita del xiaoqu, inteso come comunità in cui un gruppo di famiglie lavora, studia, passa il proprio tempo libero e usufruisce dei servizi pubblici. L’unica distinzione era quella tra danwei: c’erano, naturalmente, le danwei ricche, vuoi perché efficienti nel produrre, vuoi perché ricettarie di grosse risorse o debitrici di poche. Tali danwei non erano però distribuite secondo degli schemi, ma sorgevano una accanto all’altra a seconda della necessità. Ma ciò che è più importante, i membri della danwei, dal commissario locale di partito al direttore all’operaio all’invalido, abitavano tutti nella stessa area, spesso nello stesso edificio.

Lo sviluppo conseguito alle politiche di Deng Xiaoping e all’adozione dell’economia di mercato socialista ha, fin dagli anni ’80, portato crescita della città e a una ricostruzione e riorganizzazione degli spazi anche nella parte vecchia del centro urbano, rompendo questo modello di localizzazione delle aziende e degli spazi residenziali. La Pechino d’inizio millennio è ua città in transizione: sopravvivono ancora alcune danwei, per lo più legate all’esercito e alla polizia, nonché alle grandi aziende pubbliche, ma l’economia privata ha scisso il rapporto casa e luogo di lavoro, portando alla nascita di centri d’affari in centro e quartieri residenziali in periferia. Sono inoltre sorti i compounds all’americana, i complessi residenziali di lusso con guardie private: il solo nome è un biglietto da visita per il proprio livello sociale. Una volta, fa notare qualcuno, la gente si vantava della danwei in cui lavorava, oggi si vanta del luogo in cui vive: se abiti al Central Park o al Moma, i compounds più alla moda e pieni di stranieri, sei automaticamente al di sopra di uno che abita nel distretto di Tongzhou o a Xizhimen, dove invece sono sorti quartieri dormitorio attorno a remote fermate della metropolitana. Pechino cambia e si globalizza, e ci si chiede se sarà in grado di trovare soluzioni urbanistiche originali, e non seguire a bacchetta il modello imperante di centro ricco e periferia povera.

Pan Shiyi, il proprietario di SOHO, sta provando a pensare in nuovo l’idea di xiaoqu, progettando centri in cui la gente possa vivere, lavorare, far compere i luoghi commerciali e socializzare in ambienti comunitari come giardini o bar, palestre, ristoranti. Ma anche Pan Shiyi alla fine, per quanto imprenditore iluminato, punta a fare soldi, e se le auto trovando posto in garage sotterranei, la parte bassa della scala sociale, ovvero i migranti, vanno a dormire altrove quando staccano il loro turno. La municipalità di Pechino ha lanciato un piano per lo sviluppo della città fuori dal centro, in parte per proteggere quel poco che rimane della città vecchia, in parte per alleviare il peso dei pendolari sulla rete dei trasporti, con la costruzione di nuovi quartieri modello in periferia: il primo sarà il quartiere olimpico, che dovrebbe essere riconvertito dopo i giochi; poi seguiranno Tongzhou, Shunyi e Shijingshan, dove dovrebbero sorgere nuovi spazi urbani progettati con coscienza: ma questo appare solo un palliativo al momento, e non una soluzione definitiva. La segregazione residenziale tra ricchi e poveri, tra cittadini e migranti, è un pericolo che cresce in manera inquietante, e rischia di estraniare due parti dello stesso Paese, un Paese costruito su teorici principi di uguaglianza, parità e solidarietà sociale.

2008-05-30

Trasferimento

Stiamo assieme da molti mesi, io e Dandan, e le relazioni a distanza, soprattutto quelle a una distanza di duemila e più chilometri, sono estenuanti. Ci si offre però una speranza: la banca statale in cui Dandan lavora offre agli impiegati delle sedi distaccate la possibilità di uno stage in sede centrale, a Pechino, per 6 mesi. Basta fare domanda. E’ un sogno.

Dandan dunque si prepara psicologicamente e cerca di dare di più ogni giorno lavorandosi ben bene il capo e le altre persone coinvolte nel processo decisionale, tramite il padre, la nonna, amici, compagni di scuola, eccetera. Al momento ci sono altre persone in stage a Pechino, ma a fine anno dovrebbero essere rispedite indietro e, con le loro posizioni aperte, si aprirebbe il concorso. Concorso ovviamente durissimo perché in sede centrale c’è possibilità di far carriera e di prendere contatto con chi veramente conta nella struttura, e quindi moltissimi provano ad andarci.

Finisce novembre, e ancora non si sa nulla: il concorso in teoria avrebbe dovuto aprirsi in quel mese, ma nessuno ne ha parlato né si hanno notizie. Quando si accetteranno candidature? Non è dato sapere. Quando torneranno gli stagisti attuali? Nessuno è informato. Ma torneranno o no? Tutti si scuotono nelle spalle, e a me la situazione ricorda i racconti della burocrazia di Kafka o Buzzati. Tutti sanno che c’è, ma nessuno ha informazioni utili, e dei responsabili non si hanno che dei cognomi e delle vaghe posizioni altolocate, così altolocate che non è possibile nemmeno parlare con loro o sapere che faccia hanno.

Le settimane si trascinano penose: ogni giorno faccio domande, ogni giorno Dandan mi ribadisce che nessuno ha risposte. Un giorno di metà dicembre viene convocata nell’ufficio del suo direttore, che a fa sedere e comincia con delle domande vaghe:

“Signorina, lei è una persona che nel nostro ufficio ha sempre dimostrato grandi doti di iniziativa e ambizione”

Dandan sorride, e intando spera di immaginare il perché del colloquio.

“Così, dopo aver letto molte relazioni favorevoli sul suo operato, mi è venuto da pensare che lei è ambiziosa, e forse questa piccola sede di Chengdu è troppo stretta per lei”

Dandan ormai è praticamente sicura che la proposta di stage stia arrivando. Vorrebbe gridare “Sì, mi mandi a Pechino, in sede centrale potrò fare cose meravigliose per la nostra azienda”. Invece sta zitta, sorride e lascia che il direttore vada avanti.

“Ed è per questo” dice “che ho pensato che un’esperienza fuori sede potrebbe esserle utile e gradita. Lei conosce bene l’inglese mi dicono, ha studiato all’estero, e si da’ il caso che la nostra banca stia proprio ora aprendo dei progetti in Africa... ”

Sorriso tirato: “Scusi... ha detto Africa?”

Ebbene sì, le viene proposto questo meraviglioso stage in Africa, location non meglio definita, per sviluppare le infrastrutture dei Paesi alleati della Cina. In alternativa sono disponibili altri interessantissimi progetti in Pakistan o Afghanistan.

“Cosa le pare?” chiede il direttore “Ci pensi bene... e mi faccia avere una risposta entro domani, che c’è da partire subito!”

Dandan mi telefona praticamente in lacrime. La calmo, rassicurandola del fatto che, male che vada, si licenzia e viene a Pechino la settimana seguente a cercar lavoro. Il giorno dopo, rifiutando, scopre che la stessa proposta è stata fatta a tutti i suoi colleghi, perché gli stagisti mandati due anni fa non hanno mai trovato sostituti volontari, e quindi la banca non li ha mai rimpatriati. Prenderebbero chiunque, e probabilmente quei poveri impiegati cinesi abbandonati in un luogo non meglio precisato dell’Africa venderebbero l’anima al diavolo perché qualche pazzo si offra per predere il loro posto. Dicembre passa, e di notizie sullo stage a Pechino non ne vengono.

Poi un bel giorno di gennaio, così all’improvviso, arriva un’e-mail generale a tutti gli impiegati: se volete provare a fare lo stage in sede centrale, avete 48 ore per consegnare una documentazione impossibile presso gli uffici risorse umane della vostra sede. Ma non è tutto: la struttura gerarchica cinese impone che Dandan ottenga il beneplacito del suo superiore, regola questa non scritta ma estremamente vincolante, e il manager in questione sono tre settimane che nicchia e prende tempo: di fatto se lui non fa una telefonata in risorse umane, la candidatura di Dandan non viene nemmeno accettata, ma finisce in modo causale nel cestino.

E’ un momento strano da descrivere, persino da capire, per un italiano, ma quasi normale per un cinese: settimane e mesi spesi nell’attesa, preparandosi ogni giorno a un evento che arriverà ma non si sa quando. E quando arriva è come una guerra, tutti scattano, la velocità è fondamentale, la preparazione fino a qual momento fa la differenza, in poche ore ci si gioca il tutto per tutto in una competizione spietata contro i propri simili. E’ così che funzionano le cose nella burocrazia orientale: Dandan, con reattività sorprendente, muove tutte le sue pedine assieme. Forza a un incontro il suo capoufficio, mettendolo alle corde con un atteggiamento calcolato in cui sbandiera fedeltà all’azienda e velatamente promette favori in caso di cooperazione e minaccia ritorsioni o addirittura licenziamento in caso contrario; allerta via telefono tutti i suoi contatti che si muovo assieme in un attacco concertato alla struttura decisionale: e sono telefonate, e-mail, cene, sfide a majiang che decidono il gioco. I documenti nel fascicolo di candidatura contano, chiaro, ma non bastano. Quelli che non si sanno muovere così non partecipano neanche alla partita.

Le 48 ore passano febbrili fino alla chiusura, poi c’è un’altra settimana di attesa snervante, che si prolunga per un’altra, e ancora nessuna risposta giunge dalla sede centrale. E’ ormai febbraio: un lunedì finalmente le liste dei selezionati appaiono non annunciate su una bacheca, alla vista di tutta l’organizzazione, e Dandan è tra loro. Verrà a Pechino in stage, nella mia città. Lei cammina a tre spanne da terra, ma io non sono così felice, qualcosa non mi torna. Quand’è che si trasferirà? Be’, questo non si sa, l’ufficio risorse umane lo farà sapere in seguito. Non sono tranquillo. Passano ancora due settimane di silenzio, poi l’ufficio risorse umane comunica a Dandan via telefono che lei è attesa in ufficio a Pechino il lunedì della settimana seguente. E se uno, chiedo io, deve preparare delle cose, che so, affittare il suo appartamento, vendere la macchina, fare dei documenti? Non c’è eccezione, mi dice Dandan, a meno che ovviamente il suo capufficio, figura dotata di poteri quasi illimitati sui suoi sottoposti non intervenga. Infatti interviene, con una telefonata tipo “Salve, ufficio risorse umane centrali: so che avete chiesto alla signorina Dandan, che lavora nell’ufficio di cui sono responsabile, di trasferirsi a Pechino settimana prossima. A me servirebbe ancora due settimane, vi scoccia se comincia il training un po’ dopo?”. Risposta “Mei wenti”. Ma, chiedo ancora io, pignolissimo occidentale, se c’è un progetto comune di diciamo quindici risorse spostate in sede centrale, non ha senso che si facciano il training tutti assieme? Se arrivi in ritardo e perdi il training come fai a lavorare? Domande vuote, non riesco a capire se per i cinesi questo non costituisca un problema in sé oppure sì costituisca un problema ma, di fronte al mare di problemi che li circonda, risulta un problema minore perché impatta sull’efficienza aziendale e non direttamente sui loro affari personali. Dandan si limita a dire che in questi casi ci si affida al buonumore del capoufficio assecondandolo, e sperando che il progetto non si trascini più in là, come effetti accade (durerà tre e non due settimane, ma in questi casi un ritardo del 50% in più si dava per scontato).

E’ un bel pomeriggio assolato di aprile quando torno a casa da lavoro e mi trovo Dandan in soggiorno, la valigia sfatta in camera mia, addosso ha una mia camicia e i pantaloni di una mia tuta, manco fosse lei la padrona di casa e io l’ospite. E’ solo allora che comincio a crederci a questa cosa dello stage a Pechino (ed è questo, beninteso, l’atteggiamento giusto per molte cose in Cina – crederci solo quando le vedete di persona e le toccate; altre cose invece non dovete crederci nemmeno in quel caso). La sera stessa festeggiamo la fine della nostra relazione a distanza e l’inizio di quella che era nata come relazione nella stessa città, e invece si rivelerà convivenza. Ma non divaghiamo.

Da novembre ad aprile sono passati cinque mesi, un bel ritardo su sei mesi di stage. La cosa divertente è che Dandan è una delle prime a presentarsi: praticamente nessuno è arrivato in ufficio alla “data inderogabile” proposta dall’ufficio centrale, perché tutti avevano delle scuse, trattenuti ancora tre-quattro settimane dai loro capiufficio che non avevano preventivato di rimanere con una risorsa in meno. La banca assegna a Dandan una stanza in un residence a cinque minuti a piedi dall’ufficio, tutto spesato, inclusi i pasti alla mensa aziendale che funziona a pranzo e cena sette giorni su sette, e il giorno dopo il suo trasferimento inizia a lavorare all’ufficio di Pechino. Così si chiude un calvario di cinque mesi, per uno stage che dovrebbe durarne sei, anche se speriamo che, se la nostra convivenza regge, con una domanda ben fatta e un paio di telefonate alle persone giuste, Dandan potrebbe essere confermata in sede centrale e quindi rimanere a Pechino come impiegata fissa.

Ironicamente, la comunicazione della fine dello stage, a un anno di distanza, non è stata ancora data, chissà perché. Un certo manager un giorno ha ventilato anche la possibilità di concessione della residenza pechinese per gli stagisti, notizia mai confermata da altri. La stanza di residence, in cui Dandan ha dormito forse tre notti in un anno, è ancora lì a disposizione, e lei ancora mangia gratis in mensa quando le pare e piace, come qualunque persona in trasferta. Si vive così, in una strana incertezza, nelle aziende statali cinesi.

Ma quel che conta in fondo per noi in quel momento è che, grazie al Cielo, ad aprile del 2007 siamo finalmente insieme, a Pechino, e la nostra storia sta prendendo una direzione e una velocità non più facilmente manovrabile come prima. E di questo, con gioiosa incoscienza, siamo entrambi felici.

2008-05-29

Crollo in metropolitana

Il 1° aprile 2007 una bella notizia compare sul China Daily, a ricordarci come vivono i migranti e come vengono considerati dai cittadini, e tante volte anche dai loro stessi compaesani. Non è un pesce, purtroppo, e questi eventi sono ordinaria amministrazione, solo che di tanto in tanto la verità viene fuori e, per togliersi d’imbarazzo, la polizia deve punire qualcuno.

La notizia racconta di come, durante gli scavi per una delle nuove linee della metropolitana di cui si sta dotando la città, ci sia stato un improvviso crollo della galleria. Ecco come suona la notizia, presa pari pari dal quotidiano nazionale in lingua inglese:

“The collapse happened at 9:30 a.m. on Wednesday at a construction site for the No.10 Subway Line in Haidian Nanlu Road between the third and fourth northern ring roads in the city's Haidian District.

Six workers were buried underground after the accident, of whom one came from central China's Henan Province and the other five from southwestern Sichuan Province.

Rescuers recovered a worker's body Friday afternoon after more than 50 hours of excavation. The victim was confirmed to be 20-year-old Li Peng from Henan.

Family members of the six workers are in Beijing now to handle the aftermath.

Local police have detained 10 people over the subway cave-in, including the work supervisor and tunnel designers but the labor contractor, Zhou Yongfu, is reported to have fled.

The construction company - China Railway 12th Bureau Group Co.- refused to report the accident to municipal authorities when the collapse occurred, instead mounting its own operation to rescue the trapped workers.

In an attempted cover-up, project managers ordered all the workers to stay at the construction site and told them not to talk to media and police. They confiscated mobile phones from workers.

The Beijing municipal authority finally learned of the accident at 5:00 p.m. on Wednesday, almost eight hours after the collapse occurred, after a worker from Henan called Henan police.

Municipal government officials told Xinhua on Friday that rescue work had been delayed by the company's cover-up attempts and the complicated underground conditions.”

Ecco come si costruisce la Pechino olimpica, e se è per questo anche la Shanghai dell’Esposizione Universale e tutte le altre città della nuova Cina.

Perché, viene da chiedersi, succedono queste cose? Le ragioni sono tante: anzitutto, anche in presenza di regolamenti di sicurezza molto avanzati, nessuno li rispetta: imprenditori e manager vogliono sveltire i lavori e semplificare, il committente se ne lava le mani, gli operai tacciono e intascano la paga, e la polizia e gli ispettori intascano le mazzette. E’ un sistema, e i colpevoli sono tutti quanti. Ma quando poi la disgrazia capita, perché non si può sperare di essere sempre fortunati, la gente si spaventa e pensa per sé. Per l’imprenditore e il manager, far trapelare la notizia del fattaccio non è solamente pericoloso dal punto di vista penale, ma è anche un modo di perdere la faccia, il mianzi. Quando un errore qualsiasi viene palesato, la cosa è considerata disonorevole in Oriente: disonorevole per l’azienda, chi l’ha scelta, anche chi ci lavora, e quindi la prima preoccupazione –istintiva - delle persone è far sì che l’errore non si venga a sapere. L’imprenditore è stato zitto, il manager ha dato disposizioni di tacere a tutti quanti, i quadri hanno requisito i cellulari, gli operai se li sono fatti requisire – e non ditemi poveri operai, perché mille operai non si possono dichiarare vittima di una decina di dirigenti, il cellulare l’hanno consegnato e si son sciacquata la coscienza per i loro colleghi sepolti vivi. Solo un lavoratore dell’Henan, siccome un suo paesano era lì sotto, ha chiamato la polizia, quella del suo paese e non di Pechino, e allira qualcosa si è mosso e il sistema omertoso si è incrinato. E allora chi comanda si è messo in cerca del capro espiatorio.

Questa è la Pechino del 2007, “One world one dream” signore e signori. E a voi occidentali che esprimete giudizi a mitraglia su questo Paese, chiedetevi prima se avete idea di come pensa e di cosa vuole la gente, qui. Perché anch’io, dopo tre anni che ci vivo, faccio abbastanza fatica a capire.

2008-04-23

I migranti

In Cina si sente spesso parlare di migranti: sono la classe sociale urbana più bassa. Riconoscere i migranti è facile, basta guardare la pelle, scura e mangiata dalle intemperie, basta guardare il corpo, muscoloso per il lavoro fisico e di dimensioni inferiori ai cittadini per questioni di cattiva alimentazione in età di sviluppo, basta guardare i vestiti, rimediati chissà dove chissà come, riparati alla bell’e meglio e coperti di polvere, la polvere che a Pechino copre tutto.

Ma pochi di fatto capiscono chi sono i migranti. I cittadini semplicemente stortano il naso e li evitano, gli stranieri dicono “poverini” e gli scattano una fotografia, o peggio gli regalano dei soldi offendendo la loro dignità.

I migranti vengono chiamati in cinese nongmingong (农民工). Nong significa agricoltura, min popolo, gong è il lavoro, principalmente manuale. Sono quindi i “braccianti del popolo contadino”. In questa parola c’è tutta la divisione campagna-città che lacera la Cina dai tempi di Deng Xiaoping ad oggi. Per parlare dei migranti bisogna capire che cos’è l’hukou.

Hukou (户口) non è altro che un’anagrafe locale. In tutto il mondo gli abitanti sono censiti, e i cinesi sono stati i primi popoli a censire la popolazione già migliaia d’anni fa. Ora, quando nel 1958 Mao Zedong lanciò il Grande Balzo in Avanti, e fece partire a pieno ritmo l’economia pianificata (tra il 1949 e il 1958, a dispetto delle credenze, l’economia era ancora in buona parte libera, se non privata collettivizzata, ma non certo gestita dallo Stato), si ritenne necessario di regolare, oltre ai flussi di capitale e di beni, anche quelli del lavoro, elemento fondamentale di ogni sistema economico e particolarmente caro alla teoria marxista. Regolare il lavoro significava stabilire in un Piano Quinquennale dove le persone avrebbero lavorato e vissuto, ed ecco quindi che le persone ottennero documenti che stabilivano la loro residenza e la loro azienda. Se avessero voluto emigrare e cambiare lavoro, avrebbero dovuto compilare dei moduli e attendere un’autorizzazione statale, in modo da trovare pronto, al loro arrivo, un nuovo lavoro, una nuova casa e tutti i documenti necessari a ricevere i servizi pubblici come sanità, scuola, ecc. La distinzione fondamentale del sistema di pianificazione dei flussi di lavoro era la distinzione tra campagna e città. Chi stava in città lavorava nelle danwei, nelle fabbriche, nelle aziende; chi stava in campagna lavorava nelle comuni. Allocare la forza lavoro tra agricoltura e industria era la principale funzione del sistema.

Il sistema degli hukou di fatto funzionò solo per 8 anni, perché con la Rivoluzione Culturale la popolazione fu incoraggiata a spostarsi per il Paese senza chiedere nulla a nessuno, i contadini come Guardie Rosse nelle città, e gli studenti a imparare dai contadini. Solo lentamente, e in certe aree del Paese, la legalità fu ristabilita; il Piano Quinquennale veniva sempre stilato, ma quasi mai rispettato, e ogni località pensava per sé, chi accogliendo i migranti, chi bastonandoli e rispendendoli indietro. Poi venne Deng Xiaoping, che si inventò l’economia di mercato socialista, affittò appezzamenti di terra alle famiglie contadine, liberalizzò il piccolo commercio, creò le Zone Economiche Speciali e rilanciò il settore privato riscattando il Paese dagli anni di privazioni derivati dal modello maoista. Progressivamente, il flusso di beni e capitali privati fu liberalizzato, ma quello del lavoro no. Perché no? Il modello di Deng Xiaoping era quello di una crescita ineguale, ovvero certe aree, perlopiù aree urbane della Cina orientale, si dovevano sviluppare in fretta, vedere la costruzione di strade, scuole, ponti, fogne, linee del telefono ecc., mentre altre, perlopiù aree rurali della Cina occidentale, dovevano finanziarle per il bene del Paese. Risultato, se in media tutti stavano meglio, gli abitanti di certe aree stavano molto meglio di altri, e questi altri non ci stavano ad essere svantaggiati. Inseguendo sogni di gloria, tantissimi contadini volevano trovare un lavoro in città e arricchirsi facilmente invece di spezzarsi la schiena e pagare con le proprie tasse le scuole ai figli dei ricchi.

Se ciò fosse stato permesso, nel giro di pochi anni le città cinesi sarebbero esplose sotto la pressone di un’immigrazione totalmente incontrollata, diventando esattamente come tante altre città dell’Asia e dell’Africa, ovvero centri economici avanzatissimi circondati da periferie poverissime dove la razza umana raggiunge i peggiori livelli di degrado. Pechino sembrerebbe Bangkok, Shanghai sembrerebbe Lagos, Canton sembrerebbe Calcutta. Deng Xiaoping, lungimirante com’era, decise quindi di mantenere il controllo sul flusso di persone, permettendo una crescita limitata delle città attorno al 5-10% l’anno, cifre che a noi sembrano enormi ma per un Paese in via di sviluppo sono piuttosto basse.

Ai tempi di Mao se uno non obbediva alle disposizioni del’hukou non aveva lavoro e veniva rispedito indietro, ma con l’economia rombante della Cina riformata chiunque può, di fatto, prendere un treno o un bus con la scusa di visitare i parenti lontani e poi trovar lavoro dov’è arrivato. Solo che, senza l’hukou regolare, questa persona non può accedere ad alcun servizio pubblico, dalle scuole alla sanità alle case popolari, e si riduce a un cittadino di serie B. Ecco, questi sono i migranti. E se per caso hanno a che fare con la giustizia, vengono rispediti indietro, ragion per cui non posso nemmeno rivolgersi alla polizia se subiscono soprusi dai propri datori di lavoro o da altri migranti.

Se poi non trovano lavoro, o lo perdono, vien da sé che a volte si diano ad attività illegali, spinti dalla necessità, e i cittadini guardano a loro come noi in Italia guardiamo agli immigrati irregolari, talvolta con benevolenza come si fa col filippino a cui dai una manciata d’euro per pulirti la casa quasi meravigliandoti che non rubi nulla quando viene, spesso con paura, come si fa col nero che incontri solo mentre torni a casa alle tre del mattino, o con ostilità, come si fa col maghrebino seduto a bordo strada e guarda tutti i passanti col fare torvo tipico dei musulmani e che dagli europei viene identificato con lo sguardo del malintenzionato.

Se una volta i controlli erano abbastanza stringenti, per questioni di ordine pubblico, ora i governi locali e la polizia chiudono un occhio in nome dello sviluppo economico. I migranti costano meno dei cittadini e aiutano lo sviluppo economico. Nel 2004, il Ministero dell’Agricoltura (e la competenza la dice tutta) stimava la popolazione di migranti attorno ai 100 milioni, e siamo su cifre conservative.

Oggi basta guardare fuori dalla finestra e li vedi: sono le ayi che vi lavano la biancheria e i pavimenti, sono i fuwuyuan che vi servono nelle bettole dove vi rintanate quando volete spendere poco per magiare, sono gli operai che costruiscono i grattacieli e le nuove linee della metropolitana, sono gli omini col banchetto ambulante degli spiedini fritti o delle patate arrosto o delle sigarette che incontrate alle tre del mattino quando rientrate a casa da Sanlitun, sono quelli con i tricicli o i miandi carichi all’inverosimile di roba, e sono quelli che vi vengono a chiedere la bottiglia di plastica dell’acqua quando state bevendo, e non vogliono l’acqua, ma la bottiglia che per loro vale qualche fen alla centrale del riciclo. Sono la manodopera priva di diritti su cui questo Paese sta fondando il proprio modello di sviluppo, un modello apparentemente vincente perché funziona ed è stabile, e permette anche ai migranti di arricchirsi, e fare una vita migliore di quella che farebbero a casa loro in campagna.

Ma c’è qualcosa di oscuro che mi spaventa, mi mette a disagio. I contadini sono troppi, e se 100 milioni sono già da noi in città, felici di lavorare come animali per avere una vita migliore, che razza di esistenza conducono gli altri 700 milioni là fuori? La Cina che conosco e che amo è un’isola felice abitata da una minoranza della popolazione... e il resto? Cosa c’è oltre il Sesto Anello, oltre le fabbriche della città?

2008-04-22

Né italiani né cinesi

Stare a Pechino da studente e single è una gran ficata, perché c’è sempre una buona occasione di far festa con gente nuova di ogni razza e colore, ma quando si cresce, me ne rendo conto, le cose cambiano. Chi lavora è pù stressato e non ce la fa ad andare a ballare in posti luridi, bevendo porcherie da 5 kuai e tirando le sette del mattino, ma preferisce rilassarsi in posti meno caotici e, necessariamente, meno adatti alla socializzazione; e del resto chi è in coppia ma ha un partner lontano è escluso sia dalle uscite con altre coppie sia dai gruppi in tempesta ormonale che in media escono con l’unico scopo di trovare compagni/compagne per la notte. Non è facile incontrare gente con cui passare il tempo libero, e ad aggravare la mia situazione c’è il fatto che non sono sportivo, e quindi non prendo nemmeno in considerazione la possibiltà di giocare a calcetto o andare in palestra, e che non sono un uomo in carriera, e quindi non ci sto dentro ad uscire con gente del mio ramo che parla solo di business in bar pettinatissimi e ristoranti fighetti. Non c’è quindi da stupirsi se, in questo periodo, non trovo granché da fare e, se le sere infrasettimanali le passo a chiattare online con Dandan, nel weekend la mia solitudine mi crolla addosso durissima e trascorro intere giornate attaccato al computer o a leggere libri.

Incontro quella che chiameremo Viola a una di quelle tristissime cene di italiani in cui in media accorrono 30 o più persone di tutte le fasce sociali e d’età, in un ristorante cinese dove si ordina sempre troppo o troppo poco, e in generale si beve, si fa rumore e ci si annoia. Lo scopo di tali cene è, per gli sfigati che non conoscono nessuno, conoscere altri italiani per sentirsi meno soli e, per le persone normali, vedere gli amici sfigati tutti assieme e, per altri sei mesi, non dover sentirsi in colpa se gli si dà buca agli inviti per uscire. In quel caso, io appartengo alla prima categoria, ma Viola è una di quelli che veramente apprezzano queste occasioni di socializzazione.

Arrivata insieme al fidanzato cinese che non parla alcuna lingua straniera, Viola è chiaramente sinologa e lavora per Radio Cina Internazionale. Tutta vestita in nero da vera intellettualoide, manca dell’aria distaccata del personaggio-tipo e al contrario denota un entusiasmo propromente e genuino per moltissime cose, e in primis per la vita in questo Paese. Chiacchierando, scopriamo di avere molte opinioni in comune, e a fine cena ci si scambiano il numero e il contatto di Messenger.

Nelle settimane che seguono ci sentiamo poco, incontrandoci forse solo per altre uscite di gruppo tra italiani, fino a che un giorno, io scazzato perché sono solo a Pechino con la fidanzata lontana e i pochi amici che giocano a calcetto o sono impegnati per lavoro, lei scazzata perché si è mollata col tipo e questo evento ha innescato una serie di ripensamenti anche sulla sua vita professionale, decidiamo di vederci e passare il sabato pomeriggio insieme. Dove? Due italiani innamorati della Cina non possono andare a Sanlitun, troppo commerciale e viziosa, troppo corrotta dai laowai, anzi tanto vale mettere una grossa croce su tutto Chaoyang. Si va ai laghi, ma non a Qianhai o Houhai, anche quelli troppo commerciali, troppo pieni di bar cinesi che vorrebbero essere stranieri ma non possono. Noi si va a Xihai, quella parte di Shichahai dove i bar pieni di neon e con la musica a palla non sono ancora arrivati. Passeggiamo lungo le sponde tranquille del lago, con gente che pesca e altra che va in bici, e ci piazziamo in uno dei pochi posti disponibili. Il menù è effettivamente scoraggiante, è ovvio che vorrebbero offrire cose occidentali ma non hanno idea di come fare... i menù di questi posti sono tutti uguali: il caffé espresso o “coffee espreso” o “epresso cafe (single or double)”, di solito sui 20 RMB, è un beverone orribile e amarissimo da evitare, che apre una lista che include cappuccino, blue mountain coffee, milk shake, e una serie di porcherie impossibili copiate male da Starbucks, e comunque tutte con quel gusto dolce chimico tipico delle bevande cinesi. I tè non sono meglio, di solito ci sono diversi té cinesi di scarsa qualità, il milk tea taiwanese con le palline gommose dentro (freddo e caldo), magari al gusto di mandorla chimico, e poi l’intramontabile té Lipton giallo in bustina. Io e Viola ci guardiamo, guardiamo l’orologio e constatiamo che sono le 3 e mezza, ci riguardiamo e ordiniamo due Bacardi Breezer. E così ci alcolizziamo già dal primo pomeriggio, non avendo altre alternative accettabili; ma almeno ci sentiamo in Cina, e cominciamo a chiacchierare della vita, dei nostri dubbi, del che cazzo ci facciamo in questo Paese, di che palle a volte i cinesi che non capiscono gli occidentali, e che palle gli occidentali che non capiscono i cinesi e vengono qui solo per la carriera, e via così.

Usciamo dal baretto dopo una lunga chiacchierata e, consci delle nostre origini, ci avviamo verso la Baie des Anges, un’enoteca (ahimé) francese ma decisamente meritevole, nascosta in un hutong di Houhai, e qui avanti a tazzare con del rosso di Provenza, e via ai discorsi filosofici che solo la gente che è nata in Europa e ha vissuto in Cina e parla cinese può capire. Saranno le sette quando emergiamo dall’enoteca e, affamati, ci infiliamo nella porta di fianco, da Hutong Pizza, dove saziamo la nostra fame alcolica con una margherita. E avanti con i nostri discorsi, come ti integri, come non ti integri, come mantieni il cinese, come lo migliori, ma vero che certa gente del Sud della Cina non la capiscono neanche i loro connazionali quando parla; ma quanto mi fa schifo la vita da espatriato, giacca e cravatta e ristorante europeo ogni giorno, per lamentarsi di quanto è dura la vita in Cina. Siamo sulla stessa linea d’onda io e lei, ci capiamo, abbiamo in fondo esperienze simili, tutti e due italiani scappati dal nostro paese e ora cittadini pechinesi in cerca di una strada tra Occidente e Oriente, per non essere né italiani né cinesi, ma semplicemente qualcosa di diverso, forse nuovo, certamente più libero e fantasioso.

Dopo cena finiamo al Vineyard Café, in un hutong alle spalle del Tempio di Confucio, dove un nostro amico italiano canta e due francesi suonano blues con la chitarra. Ci uniamo a un gruppone di cinesi e italiani e ordiniamo un’altra boccia di vino bianco, perché fa caldo. Rimaniamo fino a tardi ad ascoltare la musica, e poi ciascuno a casa sua. Ci salutiamo in modo diverso dalle altre volte, io e Viola, perché la nostra amicizia in fondo è cominciata oggi, con la reciproca scoperta e condivisione delle proprie esperienze. Un pomeriggio diverso dal solito, in cui almeno io mi sono sentito meno solo in questo posto dove, quotidianamente, lotto per essere me stesso e non un membro di un gruppo o di una civiltà che vuole imporre regole proprie. Per fortuna, oggi ne ho la conferma, non sono l’unico.

2008-04-13

Coreani

Che fine avrà fatto Dom? Me lo chiedo qualche mese dopo che non lo vedo più. Ammetto che non l’ho chiamato per un bel po’, era diventato troppo strano, troppo paranoico, ma poi col tempo mi convinco che, se non è morto, probabilmente si è ripreso. E lo chiamo.

Dom è un bel po’ contento di sentirmi e si decide di vedersi. Mi fa piacere sapere che ha ritrovato l’allegria, e finalmente lo incontro un sabato sera nella sua nuova casa, un duplex fantastico in zona Wangjing che gli affittano dei non meglio precisati “amici”. L’appartamento è molto spoglio, ma si intuisce facilmente il potenziale perché diventi confortevole. Oltre a noi c’è Paul, un venticinquenne coreano cresciuto in Germania, che è a Pechino per uno stage in una clinica di chirurgia plastica coreana.

Ma non mettiamo troppa carne al fuoco: cominciamo dalla storia di Dom, che mi racconta mentre mangiamo del pollo al curry cucinato in un forno elettrico, e beviamo birra Yanjing. Dom qualche settimana dopo l’ultima volta che l’ho visto ha continuato a studare per l’HSK, che non ha ancora dato, ma la sua paranoia ha raggiunto un livello tale da essere preoccupante anche per lui stesso. Tutti parlavano alle sue spalle, tutti lo guardavano in modo strano... finché non è venuto a scoprire che un suo compagno di corso, dopo una discussione politica, aveva messo in giro la voce che Dom fosse un attivista di estrema sinistra, un’accusa piuttosto infamante che ha reso tutti i membri del corso, e specalmente gli asiatici, molto cauti nel parlare con lui. Tutte le sue frequentazioni erano di fatto convinte che Dom fosse in Cina per tutt’altri motivi che studiare cinese, e certamente non volevano avere per nulla a che fare con questi motivi. Quando l’ha scoperto, Dom ha semplicemente lasciato la scuola e l’appartamento e si è trasferito da Wudaokou al quartiere di Wangjing, in questo nuovo appartamento dove vive da solo.

Ma perché Wangjing, quartiere di periferia ancora in costruzione, fatto solo di grandi strade e palazzoni? Visto che la sua paranoia nasceva principalmente da frequentazioni coreane, trasferirsi nel quartiere coreano di Pechino, dove praticamente tutte le pubblicità e le insegne dei negozi sono in doppia lingua, non mi sembra la più felice delle scelte. Con innocenza Dom mi spiega che le scuole coreane sono le uniche, a Pechino, che permettono di studiare cinese a prezzi estremamente economici e in un’ambiente comunque asiatico e molto orientato al risultato. Sarà, io ne sono poco convinto e facendo domande vengo a scoprire che il ragazzo è ancora perdutamente innamorato della sua bella coreana di Wudaokou, con cui ancora però non riesce a parlare, schermata com’è lei dal suo ambiente conservatore e bigotto.

Vivendo a Wangjing e uscendo solo per fare la spesa, Dom in qualche modo conosce Paul. Ora, i coreani sono un popolo famoso per la chirurgia plastica: in Corea del Sud se non ti sei rifatto non sei nessuno. Tutte le star della televisione sono completamente scolpite dal bisturi, dei manichini dai tratti perfetti e dal sorriso di gomma, tutti uguali, tutti fintissimi. Paul frequenta coreani, parla coreano, torna in Corea ogni anno a visitare i nonni, ma è tedesco dentro, e vive la sua coreanità con un’insofferenza che è divertentissima. Dopo il pollo decidiamo di muoverci verso Wudaokou, e finiamo in un bar per coreani. Com’è un bar per coreani? Anzitutto è rozzo e lercio, non quanto un bar per cinesi, ma quasi. I coreani, praticamente tutti studenti vestiti alla moda pop giapponese, bevono shoju, il loro liquore nazionale distillato dalla patata, e sono tutti fottutamente ubriachi. Quando entriamo ci guardano male perché io e Dom siamo gli unici stranieri, non ci sono nemmeno cinesi. Dom sembra esserci abituato, mantiene il suo sorriso, si siede e ordina shoju. Paul è schifato: “Man… shoju sucks! What’s the matter with you, what about a beer?!?”. Ma Dom è adamantino, siamo in un bar coreano e dobbiamo bere coreano, e comunque ci tiene a farmi provare lo shoju, e io obbedisco... be’, ragazzi, voi non provatelo mai, se c’è un liquore che riesce a essere peggiore della baijiu andata a male, sappiate che quello è proprio lo shoju. Non so chi abbia avuto l’idea malsana di distillare alcol dalle patate, ma certo una cultura che ne ha fatto il liquore nazionale non merita d’essere classificata civile. Io e Paul ci guardiamo e ordiniamo birra Qingdao. Paul descrive la vita di un teenager coreano vista dagli occhi di un europeo, ovvero un esercizio di conformismo totalitario forzato da una peer pressure folle, tutte le sere a far gare a chi beve più shoju e poi collassare nella propria gloria. “Guarda quel tizio” dice indicando con la testa “stasera lo porteranno a casa a braccia”. Un ragazzotto coi capelli gialli paglia ciondola, beve ancora e poi collassa sul tavolo e i suoi amici, tutti vestiti e pettnato allo stesso stile, battono le mani ridendo dei loro sorrisi ubriachi. Se la libera e democratica Corea del Sud è così, non mi stupisce immaginare perché quella del Nord sia considerata uno dei peggiori totalitarismi della Storia; a quanto pare, questo atteggiamento di uniformazione delle masse e asservimento alle aspettative degli altri è insito nella cultura coreana. I giapponesi, che pure sono simili, sono comunque troppo aggressivi per accettare un simile sistema; e i cinesi troppo anarchici e imprecisi per mantenerlo in vita. Grazie al cielo la Corea è un paese piccolo, penso.

Ci spostiamo al Zub, una discoteca luridissima in un basement strapieno di studenti d’ogni razza e colore, uno di quei posti bui da incubo kubrikiano dove, se scoppiasse un’incendio, nessuno si salverebbe. Qui, caso vuole, incontriamo Valeria, la ragazza vegetariana conosciuta al party yoga in cui ci incontrammo io e Dom, e delle sue amiche. Dom si lancia in pista con uno spirito ben più giovanile di me e Paul, che invece ci limitiamo a chiacchierare e mantenere un aspetto fondamentalmente cool in un luogo pieno di gente scalmanata e totalmente succube dei propri ormoni. La musica succhia, DJ Wordy è troppo “wordy”, se stesse zitto e lasciasse suonare i suoi CD sarebbe molto più simpatico. E invece alza la mano, salta e grida “DJ Wordy in da house!!!” e vari “Yo!” fini a sé stessi. Ben, direi che è quasi ora di salutare.

Torno a casa in taxi, oltre 40 kuai che mi fanno ricordare quanto remoto è Wudaokou e perché non ci vado più spesso. Strana, strana gente si continua ad incontrare, ma non posso fare a meno di sorridere se penso a Dom, recuperatosi dalla paranoia, ma che tenta disperatamente di diventare coreano, e al giovane Paul che, tedesco con gli occhi a mandorla, coreano non vuole proprio essere e mugugna contro la peer pressure di un popolo a cui non sente di appartenere mentalmente. Viva la diversità signori, abbasso quelli che nascono con dei valori imposti dai loro simili, e viva quelli che i valori se li scelgono, a scorno totale delle apparenze. Chi l'ha detto che chi ha la faccia da coreano è coreano, e chi ha i capeli biondi e gli occhi azzurri non lo è?!? Viva le persone che pensano in modo diverso e che nel mondo faranno la differenza tra un’idea conformista e noiosa e una che vale la pena almeno di ascoltare. Son contento di incontrare gente così, anche se per farlo ogni tanto tocca andare fino a Wangjing o a Wudaokou.

2008-04-05

Zhongguoren

Il che ci porta a una domanda da un miliardo e trecento milioni di dollari e più, ovvero: “Che cosa definisce l’identità cinese?”. O anche, “Chi si può chiamare cinese, e chi no?”. Sul punto esiste una grossa confusione, non solo tra gli stranieri, ma anche tra i cinesi stessi. E’ un domandone non facile nemmeno per cinesi di cultura. Dopo aver parlato con alcuni di loro ed essermi letto un po’ di letteratura specifica, io mi sono fatto un’idea.

Nella definizione di una nazione esistono fondamentalmente tre scuole di pensiero. La scuola razziale è seguita dalle nazioni omogenee, come la Germania, il Giappone o la Tailandia: si è tailandesi se si è nati da genitori tailandesi, giapponesi se nati da giapponesi, e la cosa è facilmente constatabile dai tratti somatici; poi c’è la scuola legale, utilizzata dagli imperi, come gli Stati Uniti: americano è chi, indipendentemente da razza e colore, ha passaporto americano e giura fedeltà alla bandiera; e poi c’è la scuola culturale, tipica delle civiltà più antiche, come Italia o Francia. Italiani e francesi sono tali in quanto parlano una lingua propria, condividono tradizioni, per lo più legate alla vita quotidiana, e riconoscono valori fondamentali.

A quale di queste categorie appartiene la Cina? Esistono sostenitori di tutte e tre le scuole, a volte in conflitto tra loro e a volte in concordia secondo le necessità. Tra i cinesi della Repubblica Popolare, quando si parla dei cinesi di China Town all’estero si seguono la scuola razziale o culturale (“i cinesi di Milano sono cinesi e la Repubblica Popolare tutela i loro diritti in quanto comunità cinese”), invece quando si parla di minoranze etniche in Cina si segue la scuola legale (“i tibetani e gli uighuri, anche se non parlano cinese e appartengono a culture diverse, sono cittadini cinesi e quindi soggetti alla Repubblica Popolare”). Questo splendido esercizio di double-think, come direbbe Orwell, è stato ben inculcato dalla propaganda di Partito nella mente di tutti quelli cresciuti in Cina, tanto che le risposte, se chiedete, sono sempre le stesse, e rafforzate dalla sciocca superstizione per cui qualunque popolo che sia stato in passato soggetto al Celeste Impero sia cinese e quindi suddito legittimo della “madrepatria”.

Ma cerchiamo di essere obiettivi e raggiungere un punto fermo. La scuola legale è la meno solida: la Cina è la Cina, ed esiste un concetto di unità inculcato nella civiltà cinese dai tempi di Qin Shihuang primo imperatore. Nel corso della storia, innumerevoli volte, la Cina è stata divisa politicamente ma il legame della civiltà ha sempre permesso una riunificazione. Guardate Hongkong e Macao, e sappiate che anche Taiwan è “Cina” e tornerà alla madrepatria. A a seguirla sarà Singapore. Passaporto o non passaporto, qualunque cinese vi dirà che la sua identità nazionale non dipende da un documento.

La scuola razziale è popolare tra gli ignoranti, e soprattutto tra molti occidentali, secondo i quali qualunque gruppo etnico non riconducibile agli han non è cinese e dovrebbe secedere dalla Repubblica Popolare e fondare una sua democrazia indipendente; ma questa scuola è comuna anche tra i cinesi d’oltremare. Pur essendo ben contenti di arricchirsi in Paesi ad alto reddito e magari pure democratici, costoro fanno comunque riferimento a “Mamma Cina” che tutela i loro interessi quando vengono minacciati da gruppi razzisti. Ma se chiedete a un cinese nato e cresciuto in Cina cosa ne pensa dei cinesi d’oltremare, ecco che spuntano i nomignoli: huaqiao (华侨) è quello più cortese, significa appunto “emigrato dalla Cina”, e si pronuncia con quel sorriso strano con cui si pronuncia laowai, oppure stortando la bocca, come altre volte si parla di un laowai. Se no c’è appunto l’appellativo xiangjiao (香蕉), banana, giallo fuori e bianco dentro o tanti altri. E’ evidente che i cinesi considerano gli emigranti come “adulterati” dalle culture barbare, gente che ragiona da straniero, e che come gli stranieri non riesce a comprendere gli altri cinesi ed entrare in una relazione armoniosa con loro.

A parte ciò, che da solo basterebbe a sfatare la superstizone della scuola razziale, va notato che importantissimi personaggi storici cinesi non erano han: a cominciare dalla dinastia Tang (misti turchi shatuo), le cinque dinastie (turchi shatuo), i Liao e i Jin (mancesi), gli Yuan (mongoli) e di nuovo i Qing (mancesi). Chiedete a un cinese e mai vi dirà che si trattava di dominazioni straniere. Qianlong, l’imperatore che rimodellò Pechino secondo la sua concezione del potere nel 18° secolo, e che ha lasciato la sua impronta sulla Città Proibita, sul Tempo del Cielo, sul Tempio dei Lama, sulle Torri della Campana e del Tamburo, e su qualunque monumento che esiste oggi nella cerchia delle vecchie mura, era di etnia manciù, eppure è considerato uno dei più grandi imperatori cinesi. Hong Xiuquan, leader politico e religioso dei ribelli taiping, che conquistò mezzo impero, era hakka. Sun Zhongshan (Sun Yat-sen), primo presidente della Repubblica di Cina, era anche lui hakka. Lao She, scrittore e commediografo, uno dei massimi intellettuali del XX° secolo in Cina, era manciù. Secondo le fonti del governo, al’inizio del XXI° secolo i cinesi sono per il 94% di etnia han. Il 6%, ovvero circa 78 milioni di persone, appartegono ad altre 55 minoranze etniche, ma sono comunque cinesi.

Ed ecco quindi che rimane una sola scuola davanti a noi, quella culturale. Gli han sono cinesi, sono la base della civiltà cinese, ma cinesi sono anche tutti quei popoli che hanno accettato la cultura cinese, a cominciare dai manciù, ancora numerosissimi a Pechino; gli hui, i musulmani del nordovest che discenderebbero dai mercanti persiani della Via della Seta; gli hakka, i montanari del Sud della Cina in gran parte convertiti al Cristianesimo. E via così. Essere cinese significa essere un membro di una civiltà, e infuso di una cultura millenaria e unica. Cinesi non si nasce, si diventa.

E quindi, nell’aspetto pratico, da cosa si distingue un cinese da un non cinese? La lingua è il primo e il più ovvio degli elementi: non che serva saper scrivere, perché cinesi analfabeti ce ne sono tanti, ma certamente occorre parlare mandarino o un altro dialetto cinese. Occorre comprendere le basi di un comportamento sociale accettabile e la gestione delle guanxi (le relazioni), secondo i principi confuciani: mostrare rispetto ai superiori, benevolenza agli inferiori, avere mianzi (la faccia), dare mianzi: poi non è che poi ogni cinese segua queste regole, ma certamente ogni cinese è in grado di distinguere chi le segue e chi no, categorizzando un comportamento sulla base dei fondamenti confuciani, e distinguendo con disinvoltura la natura delle guanxi che dovrebbero intercorrere tra le persone. Capire in che situazione è cortese ringraziare, in quale è bene fare regali e offrire una cena, e così via. Non è tutto, per essere cinese bisogna padroneggiare la cultura del cibo, che non significa saper cucinare (pochi cittadini, purtroppo, sanno cucinare cose più complicate di un brodo), ma distinguere i cinque gusti fondamentali (xian, tian, suan, la, ma), saper distinguere tra un jiaozi e uno xiaomai, tra un baozi e un mantou. Insomma, capire cosa c’è in un piatto senza una guida turistica davanti, cosa ovvia per chi nasce in Cina ma non facile certamente per uno straniero. C’è poi la concezione cinese del corpo e della medicina: in Cina la gente non prende le aspirine, prende le yinqiaopian; non prende anestetici (se non in casi particolari), si fa l’agopuntura e toglie la sensibilità a una parte del corpo; non si prende una serie infinita di leggeri disturbi come malditesta, cervicale, brufoli, irritazioni: i cinesi prendono lo shanghuo, di cui parleremo più diffusamente in un post futuro; e per ogni possibile alimento edibile da esseri umani sa citare delle supposte proprietà terapeutiche, dal curare lo shanghuo al mantenere la pelle liscia e morbida al rafforzare le capacità amatorie. Insomma, se sei cinese la tua concezione del corpo, delle sue dinamiche e dei modi per manterelo sano è diversa dal resto del mondo.

C’è un ultima parte della cultura che poi è meno ovvia, ma altrettanto importante che le altre: la ritualità e il calendario. Ci sono ancora tanti cinesi, ma tantissimi, che ogni mattina consultano il calendario astrologico per vedere se quello è un giorno buono o cattivo per fare qualcosa, e su questa base pianificano decisioni finanziarie, traslochi, incontri, celebrazioni e persino parti clinici, ma grazie al Comunismo questa pratica non è più vissuta con forza vincolante come una volta, almeno dai giovani e dai vecchi che hanno fatto la Rivoluzione. Sui giorni qualunque la gente non impazzisce più come una volta: ma sulle feste non transige nessuno. I cinesi santificano le feste: che sia il Chunjie, piuttosto che la Festa delle Lanterne o quella delle Barche-drago o della Luna o anche solo del Lavoro, esiste una ritualità ben precisa che va rispettata, e guai a chi se ne ride, viene additato come incivile. Non visitare la famiglia nel Chunjie, o mangiare gli zongzi per la festa delle Barche-drago, o visitare i morti nel loro giorno è vissuto come un crimine morale, con una forza che stupisce gli stranieri. Chiaro che uno può avere scuse più o meno serie, ma la decisione di semplicemente non seguire la tradizione per partito preso è inconcepibile per un cinese. Ricordatevene bene la prossima volta che vi fate beffe delle mooncake e dei tangyuan, e sappiate che i cinesi annuiscono, sorridono, ma nel loro cuore vi stano etichettando come barbari e incivili senza speranza.

Questo, in breve, significa essere cinese. Sarò diventato cinese anch’io? In parte certamente sì, sono in grado di comunicare in questa difficilissima e stranissima lingua, mangio ormai qualunque piatto ben cosciente di quello che contiene, mi curo le irritazioni mangiando cetrioli e i brufoli bevendo brodo di zampe di maiale, e accetto con pazienza la ritualità di Dandan nel celebrare le decine di feste cinesi e rispettarne l’etichetta. Ma lo farei se non vivessi con lei, se non abitassi in questo Paese? “When in Rome, do like the Romans” dicono gli anglosassoni, e la loro ragione ce l’hanno.

Io vivo in Cina, e ormai non ho problemi a “fare” il cinese. Ammetto che per arrivarci mi ci è voluto un bel po’, e ancora tante volte vengo colto in fallo con un dialogo complesso, con una festa mai sentita prima o una proprietà medica di un comunissimo cibo, ma i cinesi son pazienti, o almeno “fanno” i pazienti per gentilezza. Mi trattan da cinese quando è cortese farlo, e chi lo sa chi davvero mi considera un barbaro sinizzato e chi mi sorride e, in cuor suo, mi dà della scimmia depilata? E chi lo sa se, tutta questa fatica per essere più cinese, la faccio per far contenti loro o per imparar qualcosa io? Sia come sia, mi sforzo di capire e di fare secondo ciò che imparo, non troppo interessato al perché, ma al come. C’è chi dice che il viaggio sia più importante della meta, e forse è proprio in questa scelta – quella di fare per capire e non pretendere di capire prima ancora di cominciare a fare – che, se non di pensare alla cinese, dimostro a me stesso d’essere ormai più vicino a Laozi che ad Aristotele, d’esser più asiatico che europeo, talvolta. Quello che è certo, e quello che in fondo conta per me, è di non esser più la persona che ero prima di venire qui, d’esser cresciuto, d’aver imparato, e d’essere diventato un po’ migliore di quello che sarei stato se non fossi mai venuto ad abitare in questa città, Pechino.

2008-04-04

Cognomi

In Cina le persone si chiamano tra loro in maniera completamente diversa dagli europei: anzitutto il cognome viene prima del nome, a sottolineare l’importanza del primo sul secondo; nella società cinese tradizionale, infatti, la famiglia è sempre stata l’unità base per la vita pubblica, e la maggior parte delle leggi in vigore non prendevano nemmeno in considerazione l’individuo. Le famiglie facevano contratti, le famiglie commettevano crimini e venivano punite, le famiglie costituivano un villaggio. L’individuo esisteva solo nella sfera privata, e infatti usava due nomi propri diversi, uno pubblico e uno privato, usanza questa che si è persa con la fine dell’Impero.

Il nome proprio è dato a piacere, formato da uno o due caratteri scelti in modo da creare un significato piacevole, con una varietà incredibile. Il nome del resto è unico, e non si dà mai lo stesso nome a due persone imparentate, come invece si usa da noi all’interno delle stesse famiglie.

Il cognome varia meno, si eredita dal padre e si mantiene fino alla morte, e le donne lo mantengono anche dopo il matrimonio. Esiste un gran numero di cognomi che hanno origini antichissime, e vari studiosi hanno provato a darne una catalogazione, quasi sempre senza riuscire ad esaurire l’argomento sterminato. I cognomi hanno solitamente un carattere, anche se alcuni ne hanno due e talvolta i membri di minoranze etniche ne hanno fino a quattro.

Il cognome ha sempre avuto un significato importante in Cina e ha unito le persone con legami fortissimi per tutta la storia, dai suoi albori sino alla Rivoluzione Culturale, quando si fece di tutto per cancellare il familismo della società. In passato i cinesi distinguevano tra xing (姓), famiglia, e shi (氏), clan, ovvero l’insieme delle famiglie con lo stesso cognome. Col tempo la differenza si è persa. In taluni periodi storici famiglie e clan hanno raggiunto poteri estremamente elevati, al punto da amministrare aree del Paese, controllare città in modo legale o illegale, e persino controllare o usurpare il trono degli imperatori inserendo i propri membri nell’amministrazione imperiale.

Le origini dei nomi sono le più disparate, e quasi ogni cognome ha una leggenda che ne spiega le origini. Molti di essi hanno anche una poesia legata alla casata, che funge da motto per esprimere valori e le ambizioni della famiglia. Fino agli anni ’70 era diffusissima la tradizione d imporre un carattere di questa poesia nel nome dei membri di una generazione. Quelli della generazione successiva avrebbero ricevuto il carattere successivo nella poesia, e così via, i modo da rendere seplice riconosce il grado di parentela all’interno di gruppi familiari molto estesi, e stabilire le gerarchie sulla base della vicinanza agli antenati.

Ora però viene la parte divertente: nel corso della storia alcune famiglie si sono espanse notevolmente grazie all’assorbimento di famiglie minori, mentre altre sono scomparse a causa di guerre, epidemie o persecuzioni, quando appunto gli editti imperiali colpivano tutti quelli che portavano lo stesso cognome, e per sopravvivere era necessario adottare nomi nuovi. E così nel ventesimo secolo il 50% dei cinesi nel Mondo condivide dieci cognomi. Zhang (张) Wang (王), Li (李), Zhou (周) e Liu (刘) sono quelli più comuni, con circa 100 milioni di membri ciascuno. Il 75% dei cinesi condivide 100 cognomi. Il restante 25% invece spartisce le restanti centinaia.

Il padre di Dandan, che è persona di grande cultura, esaurisce tutte le mie domande e mi illustra la storia della sua famiglia, i Cheng (程), che secondo il censo più recente sono la 27esima famiglia più numerosa, con alcuni milioni di membri. E, con grande stupore mio e di Dandan, mi rivela che il mio cognome, Kuang (旷), è effettivamente un cognome storico appartenente a una famiglia minore. A memoria cita il nome di un generale dell’Armata di Liberazione Popolare che combatté i giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Si mobilita così la famiglia in cerca di ulteriori informazioni. Il padre di Dandan torna a casa dall’uffico, il giorno successivo, con diverse pubblicazioni sull’argomento ma, ahimé, la famiglia Kuang è talmente poco numerosa da non destare l’attenzione della stampa. Il signor Cheng mi fa dono di una figura a colori, inserto della versione di Focus cinese, che tramite la raffigurazione di un albero elenca le casate cinesi secondo l’origine. Nessuna traccia della mia. La sera stessa però, navigando su internet, scovo una pagina interessante che pare tratti l’argomento. La mostro a Dandan che imbarazzata mi spiega che il cinese è talmente aulico e letterario che lei non è in grado di leggerla. Chiamiamo quindi il signor Cheng, che si siede al computer, inforca gli occhiali, e chiede alla figlia di tradurre le sue parole in inglese.

A quanto pare il cognome Kuang nasce ai tempi della dinastia Tang, quando un certo Huang Xian, discendente di feudatari già dalla dinastia Han, riceve dall’imperatore il titolo di Duca di Yun. Il Duca di Yun doveva essere una persona audace ma non troppo fortunata: nonostante per i suoi meriti avesse acquisito il titolo, qualche anno dopo, a causa di una dura sconfitta subita dai nemici sul campo di battaglia, lo perse e al suo posto guadagnò un Editto di Sterminio da parte del trono, indirizzato a lui e a tutta la sua famiglia estesa. Il risultato fu la morte di innumerevoli parenti e la fuga di altri, che dovettero cambiare nome e rinnegare gli antenati per poter sopravvivere. Della genia degli Huang di Yun se ne salvò solamente uno, il secondogenito di Huang Xian, Huang Zicheng. Nel primo anno di regno dell’imperatore Zhongzong, Huang Zicheng si era classificato secondo all’esame imperiale, era stato fatto ministro e alto membro della corte, si era guadagnato il titolo di “Marchese della Pace” e aveva sposato una delle figlie dell’imperatore stesso, grazie alla quale era stato risparmiato dall’Editto di Sterminio. Zicheng ritenne comunque opportuno cambiare il suo cognome da Huang (黄) a Kuang, e visse felice per molti anni servendo ben quattro imperatori, di cui l’ultimo dei quali, Xuanzong, per più di 35 anni. Poi un bel giorno contraddisse in pubblico il sovrano e, alla veneranda età di sessanta e passa anni, venne esiliato dalla corte e spedito a governare la cittadina di Jizhou sperduta tra le montagne del Sud della Cina, e lì la casata rimase per otto generazioni; fino a quando, a causa delle calamità del periodo delle Cinque Dinastie e Dieci Regni, i Kuang si sparpagliarono per il Paese. Il più famoso di loro, Kuang Yourong, si trasferì con i suoi discendenti a Gaozhou, e divenne il primo di una dinastia locale di poeti e letterati.

Be’, non male come storia, direi: da nobili, guerrieri e ministri falliti a pacati letterati. Siamo tutti soddisfatti, alla fine l’origine s’è trovata. Il cognome Kuang esiste ed ha anche una storia degna di tutto rispetto.

Il mattino seguente mi sveglio tardi, mentre tutto il resto della famiglia è in ufficio. Ancora mezzo addormentato vado in cucina per prepapare il caffé, e sul tavolo trovo il foglio regalatomi dal signor Cheng. Su uno dei rami, aggiunta a penna, c’è una foglia in più con il carattere Kuang.

Come a dire: “Anche se non è scritto sulla rivista, lo sappiamo che la famiglia Kuang esiste e vive”.

Come a rassicurare: “Riconosciamo il tuo cognome come appartenente alla tradizione cinese”

Come ad annunciare: “Anche se qualcuno può chiamarti laowai, ti consideriamo uno di noi”

Ed è così che mi rendo conto che, pur rimanendo bianco e con gli occhi chiari, appartenente una qualsiasi minoranza etnica di yidaliren, mi è stato riconosciuto il diritto di portar un nome cinese. Il che mi rende, se non legalmente, almeno moralmente, un membro di questa civiltà. Da oggi non sono più un barbaro, sono stato accettato come cinese.