2007-12-29

La Liberazione dei Pesci

E’ un pomeriggio di dicembre, e il Grande Freddo è arrivato da un paio di giorni. I laghi di Shichahai sono ghiacciati, e io cammino sulle sponde di Houhai con i miei, quando mi trovo davanti una scena curiosa: nella strada si raccoglie una piccola folla, fatta di adulti ma anche numerosi bambini che rovistano chinati in una pozzanghera non ghiacciata, bloccando il traffico di auto che inutilmente suonano il clacson.

Avvicinandomi noto nella pozzanghera una miriade di piccole creature: all’inizio mi sembrano grossi vermi neri, oppure girini, ma mio padre li riconosce al volo. Sono piccole anguille che sguazzano nel gelo invernale. Poco lontano, un triciclo carico di sacche d’acqua contenenti pesci d’ogni genere, grandi e piccoli. Una delle sacche è caduta, e il suo contenuto si è sparso sulla strada. La gente si congela le mani cercando a fatica di raccogliere una a una le anguille, e le getta nel lago che, ghiacciato com’è, non offre l’ambiente ideale per dei pesci. Un ragazzo cinese sui vent’anni ha un’idea brillante: prese due scope, di quelle cinesi corte, le lega con uno straccio ottenendone uno strano oggetto contundente che ricorda un nunchaku di dimensioni sbagliate. Lo solleva e, dal bordo del lago, ne colpisce la superficie bucando lo strato di ghiaccio e permettendo alle sfortunate creature di tornare all’elemento che più si confarebbe a loro, non fosse per la temperatura. I piccoli serpenti nuotano verso il basso fino a scomparire nell’acqua nera. Nel frattempo, la folla è cresciuta alimentandosi di curiosi: turisti stranieri, abitanti del vicinato, semplici passanti.

Quando l’ultima anguilla è stata salvata, le macchine possono riprendere a circolare, e la folla si accalca sulla balaustra del lungolago. E’ allora che noto altri due tricicli carichi di pesci insaccati, che altri ragazzotti scaricano con ben poca grazia sulle rive formando una lunga fila. In quel momento alla folla si aggiunge la figura più di nota – non intabarrata in una giaccavento, ma in una semplice veste arancione, stivaletti gialli e cranio rasato. E’ un monaco buddhista.

La gente gli fa spazio, e questo si avvicina alla balaustra. In molti gli fanno gesti di reverenza. Il monaco estrae un libro scritto in tibetano e comincia a recitare mantra. La folla abbassa il capo, e una vecchia signora con un pezzo di carta in mano, una pagina plastificata con un’immagine di un buddha d’oro e svariate scritte cinesi, prende a girare qua e là benedicendo prima le sacche dei pesci, poi la gente.

Allora tutto assume più chiarezza. Il Buddhismo si basa sulla legge del karma, che insegna che ogni causa ha un effetto, e ogni effetto ha la sua radice in una causa. Poiché le buone azioni portano buone conseguenze, da millenni in Cina si pratica il rito della liberazione dei pesci: la gente compra un pesce al mercato e, invece di cucinarlo, lo fa ritornare alle sue acque facendogli dono della vita. La stessa legge di causa effetto, tuttavia, fa anche sì che a seguito del rito frequente nasca un giro d’affari notevole di gente che cattura i pesci per poterli vendere a chi li vuole liberare, vanificando le buone intenzioni. Ma questo la chiesa buddhista solitamente se lo dimentica. Ma torniamo a noi.

Il monaco recita i mantra tibetani a ruota, nel silenzio della folla immersa in riverenza dell’occasione solenne. Molti stanno a capo chino a seguire la voce monotona del religioso, altri semplicemente osservano aspettando di vedere i pesci liberati. Il tutto si protrae a lungo, finché molti dei curiosi se ne vanno. Tra di essi ci siamo anche noi. Giungo le mani in segno di rispetto per il monaco, la sua comunità e il suo rito, e me ne vado per la strada insieme ai miei.

Abbiamo percorso una cinquantina di metri quando un clamore attira la nostra attenzione. Dalla folla immersa in meditazione un attimo prima si alzano grida, qualcuno è visibilmente alterato, altri ridono imbarazzati alla maniera asiatica. Un uomo se ne va di fretta, sul suo viso si legge un misto di rabbia e vergogna. Mentre cammina veloce verso di noi, le grida continuano. Lo osservo bene, mentre ogni tanto si volta a dare un’occhiata alla folla che lo insulta. E poi attraverso il riverbero del sole al tramonto colgo il dettaglio fondamentale: l’uomo regge sulla spalla una canna da pesca. Si ferma a un centinaio di metri, con l’aria di chi si sente offeso senza ragione, e getta la sua lenza, sempre lanciando occhiate furtive verso la folla, che riprende il rito.

Per ogni causa c’è una conseguenza. Per ogni conseguenza, una causa. Questa è la legge universale rivelata dal buddha. Curiosamente, in Cina, questa legge sembra funzionare in maniera meno ovvia e prevedibile che altrove, o forse è la gente che la interpreta in modo diverso. Cosa commenterebbe il buddha? Forse farebbe finta di niente, proprio come i suoi fedeli che recitano imperterriti i mantra sacri; come il pescatore, che guarda ora la lenza ora i fedeli; o come me, che scuoto la testa, ormai quasi abituato ad essere stupito ogni giorno, e riprendo il mio cammino con uno strano sorriso.

2007-12-23

Uomini e Bestie

I pechinesi hanno una particolare predilezione per gli animali, ma non come quella dei cantonesi, che gli animali li cucinano: ai pechinesi piace tenerli in casa, come compagni. E’ una tradizione antichissima, su cui sono stati scritti anche dei libri – su come meglio allevare e selezionare le varie bestiole da compagnia.

I pesci sono scontati – praticamente tutti hanno i pesci rossi, ma qui non sono semplici come da noi: ci sono diverse razze di pesci rossi che variano per dimensioni e forma, e i più ricercati sono grossi quanto un pugno, tondi tondi, con gli occhi sporgenti e delle lughe pinne. Un po’ simili ai leoni o ai draghi cinesi se volete, corrispondono perfettamente ai canoni estetici locali, che noi definiremmo “sproporzionati”. Poi ci sono vari altri pesci bianchi, neri, colorati, sempre selezionati per gli occhi enormi e bulbosi e le lunghe pinne simili a strascichi. Wang Li per esempio ha un acquario professionale lungo un metro con dentro almeno una trentina di pesciolini, che ciba scientificamente per averli più sani e colorati.

Poi ci sono i cani, i pechinesi appunto, quelle strane bestiole grassocce, sgraziate, con il muso piatto e le orecchie pendule. Per l’appunto, agli occhi dei cinesi meravigliosi. Il cane pechinese più famoso era Peonia, il cucciolo dell’Imperatrice Vedova Ci Xi che la seguiva ovunque, e cui veniva tributato lo stesso onore che alla padrona dagli eunuchi di palazzo. Ci sono varie classificazioni dei pechinesi che variano per lo più a seconda del colore – bianco puro, chiazzato, bianco con le zampe e le orecchie brune, ecc. Recentemente la moda ha fatto anche apparire gran quantità di volpini, abbondantemente cotonati in modo da divenire tremanti palle di pelo con un musetto che spunta, e chihuahua, grossi come ratti, ma sempre con queste orecchie puntute e gli occhi sporgenti. Adorati dai loro padroni, in inverno tutti hanno il loro cappottino in tela cerata contro il vento, appena cacano subito il padrone è pronto a raccogliere il tutto con il sacchetto di plastica, e mai che li si veda sporchi o arruffati: non avete idea del tempo che viene speso per lavarli e pettinarli.

I gatti riscuotono indubbiamente meno successo, sarà per l’eleganza, anche se in media i gatti di Pechino sono grossi una volta e mezza quelli italiani, col pelo lungo e arruffato e stra-aggressivi. Non si possono considerare al livello degli altri animali, ovvero non c’è una vera tradizione dell’allevamento dei gatti, sono più animali che si tengono per cacciare i topi che per compagnia e piacere. C’è chi li tiene negli hutong, in modo che vaghino liberi, e chi li tiene in appartamenti, nascosti agli occhi del mondo.

Decisamente più tradizionali e tipicamente cinesi sono invece i grilli. Si comprano d’estate, e li si tiene tutto l’inverno in casa, per godere del loro canto. Sono grossi grossi, costano poco e si trovano in piccole gabbie tonde di paglia intrecciata, ma chi ci tiene prende loro apposite e costosissime gabbie ricavate da zucche cave o legno pregiato, e in taluni casi anche osso; ce n’è di intarsiate e bellissime, veri pezzi d’arte. Il bello dei grilli è che uno li può portare con sé, tenendoli in tasca o dentro la giacca, e poi li può far combattere. Il combattimento dei grilli è un divertimento antico e ancora oggi onorato, c’è gente che ci esce di testa, e spende tutto il suo tempo ad allevare e addestrare grilli per la lotta.

Infine gli uccelli, di ogni varietà. I più comuni sono simili ai canarini, solo di colori diversi: anche qui sulle gabbie ci si sbizzarrisce, e ce n’è di veramente belle e preziose. Soprattutto i vecchi amano gli uccelli, e la mattina o al tramonto li si vede camminare con le loro gabbie (c’è chi ne ha fino a quattro) in mano, coperte con una tela blu in modo da non innervosire la bestia. Si dice che il movimento della gabbia stimoli le gambe dell’uccello, rafforzandole, e al tempo stesso tenga in esercizio i polsi del vecchio. I pensionati si trovano al parco, o nell’hutong, o in qualunque angolo della città, attaccano la gabbia a un ramo, un tubo, una partica, rimuovono la tela blu e si godono il concerto. Quelli più bravi tengono i piccioni: il bello dei piccioni è che, anche se non cantano, volano in stormo e si possono addestrare. Si attacca una specie di fischietto alle zampe dei più svegli, così gli altri li seguono, e tante volte li si sente da lontano, come un rombo, e i si vede volare in cerchio attorno alla piccionaia. C’è gente che fa le gare con i piccioni viaggiatori, per vedere chi ha i più veloci e intelligenti, quelli che per primi raggiungono un certo luogo a decine di chilometri di distanza e tornano indietro. E poi ci sono i fenomeni con le rondini ammaestrate – la rondine è l’uccello simbolo di Pechino: li si vede con dei bastoni a cui è legato il volatile. Il vecchio lancia in aria briciole o semi, ed ecco che la rondine spicca il volo, afferra il cibo, tora sul trespolo e ingoia; fenomenali.

I pechinesi hanno davvero un amore particolare per gli animali domestici, e ovunque a Pechino si può ammirare la convivenza non utilitaria dell’uomo con la bestia. Eppure, eppure... non può essere così semplice e lineare in Cina, ci deve essere un eppure...

Eppure col tempo ci si accorge che l’amore dei pechinesi per le loro bestie è un amore da dominatori. L’animale è un gioco e al tempo stesso un modo per farsi vedere, motivo di vanto. I pechinesi non sono schiavi dei loro animali, ma tengono bene a mente la gerarchia, così importante per tutti i cinesi. Il padrone ordina, l’animale esegue come gli è stato insegnato: se fa bene è premiato, se no viene punito. Animali grassi e viziati non se ne vede, gli uccelli che non cantano hanno vita breve, e nessuno vuole un cane vecchio e spelacchiato.

Basta pensare al destino di Peonia, per capire la natura dell’amore dei cinesi per i loro animali. Morta la sua padrona, l’Imperatrice Vedova, pare che anche Peonia si sia intristito e sia morto di lì a pochi giorni, fedele fino alla fine alla vecchia che rovinò la dinastia Qing. Ma i pechinesi raccontano che fu il capo eunuco a fare uno scambio di cani, che quello morto non era l’originale, e che il buon Peonia fu invece venduto sottobanco, per una somma ingente, a un facoltoso mandarino che voleva pavoneggiarsi nell’avere il cane appartenuto all’Imperatrice.

Non so cosa sia meglio, il cane-schiavo che c’è qui, o il cane-imperatore al cui servizio è tutta la famiglia, in Occidente. Francamente devo ammettere di odiare l’idea di avere un animale in casa, che dipende da me per sopravvivere, che non è libero di uscire né del resto autosufficiente per sopravvivere alla libertà. I gatti son felice di sentirli miagolar la notte sui tetti, i grilli cantare tra le fronde, le rondini volare libere nel cielo a primavera, e i cani... be’ quelli che li tenga chi abita in campagna, o al massimo chi ha il cortile per lasciarli correre e saltare. A ognuno il suo, immagino, e in casa mia... solo umani!

2007-12-15

Vecchi in strada

Secondo la cultura confuciana, la relazione più importante tra gli uomini è quella tra genitore e figlio, e l’anzianità è un criterio generale che misura la dignità di cose e persone. Ne viene da sé che in Cina gli anziani sono sempre stati venerati, e ancora oggi, in barba alla Rivoluzione e alla civiltà socialista, i vecchi comandano a bacchetta e i giovani subiscono. Al di là delle molte implicazioni sociali di questa caratteristica, la prima cosa che uno straniero nota è proprio la quantità di anziani che passeggiano per strada e in generale se la spassano. Non come da noi che sono chiusi in casa e attaccati alla TV, e hanno paura ad andare a ritirare la posta – qua i vecchi escono, fanno amicizia, viaggiano, giocano, formano club, intrecciano anche relazioni amorose, con una vtalità che da noi sarebbe impensabile per settantenni e ottantenni.

Gli attrezzi pubblici sono il segnale più lampante: li si vede un po’ dappertutto, sia nei compound più fichi che negli hutong più stretti, in qualche angolo ci sono questi attrezzi gialli e blu. Le prime volte che li vedevo pensavo che fossero per gli sportivi, ma poi mi sono accorto che ci vanno solo i pensionati: all’alba e alla sera sono lì, in gruppi, che chiacchierano e fanno stretching, qualcuno pratica il qigong, se avete la pazienza di svegliarvi all’alba vedrete gruppi che ballano o che fanno taijichuang, alcuni con tanto di spade. Attivissimi, si può dire che in questi orari strambi, quando la gente come noi dorme o guarda la TV o il DVD, loro diventano i padroni della città, e guai a disturbarli, son subito pronti a fare gruppo davanti a un giovinastro che invade il loro territorio. “Gli attezzi sono per gli anziani, mica per i giovani, smamma” oppure “Le sigarette vai a fumarle a casa tua, mascalzone, che il parco è nostro”. Bullissimi.

Un luogo di ritrovo meno facile da individuare sono i club di majiang, comunissimi anche quelli, e anche quelli gratuiti offerti dal comune o anche dal management di un palazzo. Da me ce n’è uno, di cui pago la manutenzione con le spese condominiali, dove gli anziani si trovano ogni sera al suono caratteristico delle tesserine di quel gioco strano che solo i cinesi sanno giocare, e al cui tavolo si concordano affari, matrimoni, decisioni politiche. Non è raro, specialmente d’estate, trovare gruppi di settantenni che alle cinque del mattino sono ancora al tavolo, con una tazza di té, qualcuno con la sigaretta, e giocano come forsennati, puntando biglietti da 1 kuai alla volta. Non si gioca solo a majiang, in questi posti: ci sono anche gli scacchi e le carte, l’importante è far passare il tempo e vedersi con gli amici. Ai giovani chiaramente non è concesso di entrare, guai a mettere un piede dentro per sbaglio. “Fuori, questo posto è riservato agli anziani, non ti vergogni di abusare così dei vecchi? Delinquente!”

Negli hutong più sgarruppati non ci sono le sale da majiang, così la gente in estate si piazza banalmente per strada: un tavolino da campeggio e qualche sgabello, a volte un divano – con i cucini che vengono portati dentro e fuori a seconda dell’orario e del tempo, mentre il divano è fisso tutto l’anno nel vicolo.

I pensionati più intraprendenti fondano associazioni e club, con attività quantomai varie, tipo “Rappresentazione dell’Opera di Pechino” piuttosto che “Studio della musica tradizionale”. Altri si dedicano all’addestramento di animali – cani e uccelli per lo più – a cui dedicano la maggior parte del loro tempo, e che tengono lindi e disciplinatissimi, manco fossero nipoti.

Come si possono permettere uno stile di vita del genere? Quasi tutti hanno pensioni misere, ma sono mantenuti dai figli che non osano fiatare: la nonna ordina, il figlio paga. Ma non è che la loro vita abbia costi così alti. E allora perché da noi i vecchi son tutti isterici e chiusi in casa, e se si ritrovano a chiacchierare una volta la settimana è dopo la messa, in piedi sui gradini della chiesa?

Non lo so, ma la cosa mi fa pensare. Forse se ci fossero più posti di ritrovo per gli anziani, se il governo onorasse i pensionati in modo più esplicito, anche da noi si vedrebbero settantenni che ballano al parco e ottantenni che si toccano le punte dei piedi in cortile, non più soli e abbandonati, non più inutili come si sentono troppo spesso, e avremmo risolto un bel problema della nostra società.

2007-12-08

Il Grande Freddo

Pechino, contrariamente a quanto si creda, non è una città fredda. La sua latitudine è la stessa di Napoli, Barcellona, Istanbul, e se è per questo ache di New York. Per la maggior parte dell’anno Pechino è più calda che un qualsiasi posto in Italia, con primavere precoci e autunni tardivi. Essendo però affetta da un clima continentale, ed essendo direttamente confinante a Nord con il deserto del Gobi, e oltre con la Siberia, senza quasi nessuna barriera naturale del mezzo, c’è un momento in cui il Freddo arriva, e quando arriva, arriva duro. Quel che rende Pechino fredda è il vento. Arriva da Nord, come un rasoio, portando spesso con sé della sabbia, e in una notte abbassa la temperatura di dieci gradi. Ci si sveglia una mattina, e fuori c’è un sole meraviglioso; gli alberi però sono piegati, e le finestre, tutte le finestre di Pechino apparentemente, ululano come banshee, vuoi per superficialità nella costruzione, vuoi perché il vento che c’è qui non è un vento comune.

Ci si accorge della differenza, comunque, solo nel momento in cui si varca la porta di casa, e una folata ci sposta di mezzo metro congelandoci una metà del corpo. Fa freddo, ma tanto freddo. Così freddo, che uno non ci crederebbe nemmeno. Eppure è così. La temperatura normalmente è sui -5 gradi, ma spesso e volentieri dopo il tramonto scende a -10, con punte di -15 e -20 nelle nottate più fredde. Non è un freddo che vedi, perché la totale mancanza di umidità impedisce alla brina di imbiancare i prati e ai ghiaccioli di formarsi sui rami degli alberi. Sembra una normalissima giornata, a vederla. Il Freddo pechinese è un freddo che si sente e basta.

Camminando per strada, provi pietà per quei poverini costretti a stare all’aperto, come i bao’an, i guardiani, intabarrati nei loro giacconi imbottiti color verde militare o grigio scuro; o i venditori ambulanti, con i loro colbacchi in testa, le falde tirate giù a coprire le orecchie. Cammini e fai fatica, spinto dall’aria inclemente e appesantito dal montone, dai guanti, dal cappello, dagli scarponi, e dalla maglia di lana e da quell’indumento che mai avreste pensato di indossare, il maoku, una calzamaglia di lana pesantissima che è l’unica possibilità di sopravvivenza in un clima del genere. I pechinesi la portano da ottobre a marzo, voi giurate a voi stessi di metterla solo se necessario, ma meno di 30 giorni non ne potrete fare a meno, se dovete stare all’aperto più di dieci minuti per volta. Ed è allora, con questo sforzo sovrumano nel deambluare, che ci si rende conto che la lotta dell’uomo contro la natura non è ancora finita, e che l’Inverno può far paura.

E’ in quei momenti in cui la consapevolezza della propria fragilità davanti al mondo fa capolino che, stranamente, ci si sente vivi. E anche questo è uno dei motivi per cui amo Pechino.

2007-12-04

I genitori in visita

Viene un momento a lungo atteso e temuto per tutti coloro che abitano all’estero per lungo tempo, ovvero la visita della famiglia. E’ un esame, in un certo senso, perché toccherà dimostrare che la loro vita ha un senso nel posto in cui vivono, che ci sono delle ragioni credibili per cui costoro hanno deciso di porre la loro dimora dall’altra parte del mondo rispetto al luogo dove vivono i propri genitori.

E’ questa la promessa doverosa per raccontare l’arrivo dei miei genitori all’aeroporto di Pechino una mattina di dicembre. Ragione ufficiale: passare il Natale con il figlio cui un’azienda di stronzi non ha concesso le ferie. Ragione non detta: farsi un’idea del perché quel disgraziato d’un figlio si ostina a vivere nel Paese di Mezzo invece che nel Bel Paese che, anche solo dal nome, suonerebbe meglio come luogo di residenza.

I miei genitori hanno preso l’ultima volta l’aereo nel 1978, un anno prima della mia nascita. Destinazione: Malta. Mezzo: per una serie di tremendi imprevisti e problemi tecnici del velivolo originale che non poteva decollare, un bimotore operato dalla Air Pakistan. Da quel viaggio di nozze maledetto, nessuno dei due ha mai sentito il bisogno di mettere piede su un aereo, almeno, fino al dicembre del 2006.

La Cina non è Malta, il 2006 non è il 1978, né i velivoli della Air Pakistan sono gli stessi della KLM. Sta di fatto che il viaggio dei due signori italiani comincia con un’attesa di sei ore - dalle 18 alle 24 – all’aeroporto di Amsterdam per “problemi tecnici”. Il che non è neanche male, considerato che al ritorno la KLM non proverà nemmeno a decollare, piuttosto preferendo dirottare i passeggeri su un volo China Southern in partenza due sole ore dopo. Il tutto in un aeroporto incasinatissimo in cui nessuno pare parlar lingue intelligibili ai due signori italiani.

Il figlio non se la vede meglio, poiché è ben cosciente della sua situazione da esaminando e suda freddo ad ogni disguido. Suda anche perché i suoi non sono mai usciti dall’Europa, non viaggiano all’estero da più anni di quelli che ha lui, non parlano lingue straniere se non qualche frase di circostanza in francese e inglese, e sono anche abbastanza anzianotti.

Le tre settimane che seguono vedono i genitori accamparsi nell’appartamento del giovine, mettendo in riga la gestione casalinga – calcolo delle entrate e delle uscite mensili, pulizia di ogni singolo angolo dell’abitazione, training alla aiyi su cosa deve fare e come deve farlo (con conseguente stress anche della aiyi), ridefinizione totale della dieta del figlio sulle basi della cucina casalinga dell’Italia di una volta, planning della spesa per supportare meglio ordine e pulizia della casa e sanità della dieta.

Da parte sua, il figlio cerca di tirare i genitori fuori di casa e portarli a vedere le bellezze di questo Paese, nonostante fuori la temperatura sia svariati gradi sotto lo zero. Si comincia dalle attrazioni turistiche, con il figlio che si improvvisa guida turistica, storico dell’arte e archeologo. Poi il giro per le strade, con analisi socio-economica del contrasti tra i grattacieli di Chaoyang con gli hutong di Dongcheng. Poi i ristoranti, sia quelli di specialità cinesi (jiaozi, baozi, anatra laccata, zhajiangmian) che quelli internazionali (indiano, russo, tailandese, turco). Alla fine del tour, peraltro pianificato con attenzione machiavellica dal figlio, i genitori rimangono a bocca aperta dalle meraviglie di cui sono stati spettatori, considerato che già consideravano un’esperienza incredibile il caffè ricevuto ad Amsterdam, mezzo litro di brodaglia nera servito in un bicchiere di carta da Coca-Cola.

La visita dei genitori è uno stress per tutti, uno stress fisico e mentale per i genitori in visita nel Paese più insensato del Mondo; per il figlio che deve fare bella figura o almeno evitare che i suoi ritornino in patria evitando lavande gastriche, esaurimenti nervosi o arresti da parte della polizia locale; e per tutte le persone coinvolte nella loro relazione – aiyi, amici, fidanzata, parenti, ecc.

Niente comunque prepara al confronto finale, che capita più o meno il giorno prima della partenza dei genitori. Il tutto può cominciare con una frase detta distrattamente tipo “Allora, figliolo, quand’è che torni a casa definitivamente?”. Ne segue una discussione serratissima e snervante fatta di frasi diplomatiche il meno possibili offensive verso la parte avversa, ma al tempo stesso unilaterali nella loro presa di posizione.

“Ma alla fine cosa ci fai qui?

Non ti piacerà mica vivere dall’altra parte del Mondo?

Ma ti ricordi che a casa hai una famiglia che ti pensa?”

“Stare qui mi piace, ed effettivamente pensavo di fermarmici per un po’ ancora, diciamo qualche mese… o anno.

In Italia non troverei una posizione lavorativa così istruttiva e al tempo stesso remunerata.

In Italia? Ma state scherzando?”

La discussione, come sempre, si conclude quando entrambe le parti si autoconvincono di aver avuto la resa dell’altra. Il dibattito termina con sorrisi tirati e frasi diplomatiche, qualche abbraccio e gesto d’affetto. Nessuno dice nulla per paura di riaccendere la lotta. I genitori aspettano il figlio a casa a breve. Il figlio sa che ha l’approvazione dei suoi a stare quanto vuole. E allora, si vogliono tutti un gran bene, si perdonano i torti passati e si sta più attenti a quelli futuri.

E poi, c’è la partenza.