2007-06-29

Voglia di Piccante

A metà ottobre l’autunno arriva a Pechino. Anche se il sole non si offusca, ma rimane brillante, un’aria fredda spira dal Nord, e la temperatura si abbassa di una decina di gradi. Tempo di indossare un maglione e, la sera, di mettere il piumone sul letto. Cè un bel fresco, benvenuto dopo la gran calura dell’estate. Le finestre non si chiudono ancora, tuttavia: si sta bene, l’aria è secca e frizzante, pare quasi di stare a Milano a fine settembre, belle giornate ventose col sole giallo.

Con il freddo, l’appetito viene stimolato e tutti i piatti troppo pesanti per l’estate vengono riscoperti, con gli odori che escono dai ristoranti. E per chi scrive, il primo freddo dell’autunno di solito comporta un’insana voglia di mangiar piccante. Pechino naturalmente offre una selezione di cucine che soddisfa qualunque gusto: dall’indonesiana alla tailandese, dalla sichuanese alla messicana.

Ci sono due posti che sono i miei preferiti, in questo momento dell’anno. Il primo è il Red Rose Restaurant, scoperto tanti anni fa grazie a Yao Qiong: un edificio a forma di moschea dove, all’interno, cinesi si mescolano con stranieri da ogni parte del mondo: americani, indonesiani, pakistani, africani, francesi, e tanti tanti musulmani dall’Ovest della Cina. Il ristorante, oltre ad essere famoso per i suoi yangrouchuan’r, gli spiedini di montone più grossi, teneri e saporiti della capitale, offre spettacoli a tema, dalla musica tradizionale, con qualche influsso internazionale tipo Gypsy Kings (i xinjiangesi, i migliori chitarristi d’oriente, subiscono comunque il fascino dei gitani, i migliori chitarristi d’Occidente), danza del ventre, danza col serpente (ovvero con un pitone arrotolato attorno alle spalle) e, all’occasione, il karaoke di qualche cinese completamente sbronzo. Il tutto a un volume impossibile. La prima volta è pittoresco, la seconda è già fastidioso. Ma la carne di montone, coperta di abbondante cumino, pepe nero e peperoncino, è tanto buona che val la pena di subire lo spettacolo. Il nang, il pane xinjiangese, è divino, ben lievitato e coperto di semi di sesamo. Notevolissime anche le Xinjiang chaocai (新疆炒菜), le verdure saltate alla xingjiangese, ovvero pomodori, patate, peperoni rossi e verdi, cipolle e striscioline di montone saltate nel wok e servite in una salsa di pomodoro speziata. E infine il “latte fritto”, crocchette burrose e fritte da intingere nello zucchero, indeali per concludere in dolcezza una cena invernale.

L’altro luogo che prediligo è il Golden Elephant, un ristorante indiano fattomi scoprire da Vaira e Vikash. Una volta era gestito da Muhammad Yussef, un signore indiano ben distinto, sempre in giacca e cravatta, ma panzone e baffuto come impone lo stereotipo del musulmano arricchito d’India. Ora Muhammad è partito, e il ristorante è gestito da cinesi – il servizio è terribilmente scaduto, ma il cuoco non è cambiato, e il Rogan Josh, il montone al curry del Kashmir, come lo mangiate lì non lo mangerete altrove. Anche qui la carne è tenerissima e il piccante del curry è delicato come non mai. Anche qui il naan, versione indiana del nang, è fantastico, insieme agli altri pani come il paratha e il roti. Notevole il classico pollo tandoori, servito a rischiesta con uno spicchio di limone che ne esalta il gusto di brace.

Poche cose sono piacevoli quanto starsene in un ristorante familiare a mangiar piccante mentre fuori fa freddo, e sapere che il conto è così abbordabile che ci si può permettere di mangiar qui a volontà senza sentirsi in colpa. La compagnia di un buon amico, una birra come si deve o un bel bicchier di rosso, e l’inverno in arrivo non fa più paura. Ci si accende una zhongnanhai a cena finita e si aspetta placidi, pigri e sorridenti che il vento della Siberia si scateni su questa città. Avrai anche il gelo e il vento sabbioso dalla tua parte, caro inverno pechinese, ma noi abbiamo i talismani appropriati per tenerti a bada – pepe nero, pepe verde, peperoncino e carne di montone.

2007-06-24

Il signor Chen

I miliardari sono tutti un po’ strani, e quando sono cinesi sono ancora più singolari. Mi capita di conoscerne uno presentandomi a un ristorante italiano per vendere i prodotti della mia azienda. Il signor Chen, titolare una catena di ristorazione italiana, mi risponde al telefono in un misto stentato di inglese e italiano, e mi dà appuntamento in uno dei locali per l’ora di cena.

Rotondo e sorridente, di un’eleganza molto semplice, capello corto, sbarbato e occhialini tondi, Chen siede al tavolo di questo ristorante che vorrebbe essere la trattoria italiana nella mente di una persona che ci è stata forse un paio di volte tanti anni fa. Pavimento e soffitto di legno, tovaglie a quadri bianchi e rossi, curiosi affreschi tipo Trecento sulle pareti, fila di vini con scritto “Chianti” sull’etichetta e, ciliegina sulla torta, una torre di Pisa in plastica posizionata al centro del tavolo da display, alta almento un metro e mezzo.

Chen mi fa accomodare gentilissimo, accetta il mio biglietto da visita e mi offre il suo: una carta bianca con la sua caricatura sorridente, e sotto scritto dal disegnatore “开心的小陈”, “il piccolo Chen felice”. Dopo poche battute è evidente che il mio cinese è meglio del suo italiano: chiacchieriamo amabilmente senza che nessuno accenni agli affari. Mi chiede di me, e poi a turno io gli chiedo di lui. Il signor Chen è il cinese andato all’estero ed arricchitosi, una storia comune, quasi un modello di vita per una generazione di suoi compatrioti, soprattutto nel Sud del Paese dove la tradizione dell’emigrazione e del commercio è antica. Chen è stato in Italia, ma non è di Wenzhou come tutti gli altri, ci tiene a precisarlo: viene da un paese vicino, sempre nel Zhejiang, ma guai a dire che è di Wenzhou. Tra le altre cose, è stato in Italia per poco tempo, un anno solo a Jesolo, prima di andare a lavorare in Germania come lavapiatti. Parla tedesco correntemente, ma questo non aiuta la nostra comunicazione. Come mai non ha aperto un ristorante tedesco, gli chiedo, e la sua risposta è molto diretta: “Perché il cibo tedesco fa schifo”. Si ride.

Nel frattempo Chen fa segno ai camerieri, che mi portano un menù. Uno di loro porta una boccia di vino in tavola. “Ti piace il vino?” chiede Chen, con ostentata premura. Salute, dico io, e tracanno il Chianti da supermercato che mi viene gentilmente offerto. Chen va avanti con la sua storia: l’Italia era bella, sì, ma in Germania c’era da guadagnare di più: è lì che ha fatto i soldi. Poi un giorno è venuto a Pechino, ha visto che non c’erano ristoranti italiani, e ne ha aperto uno, facendo venire uno chef dall’Italia. Tredici anni dopo di ristoranti ne ha cinque. Ordina ai camerieri una bottiglia di Prosecco, e mi chiede che ne penso. “Non male” dico. In Germania Chen viaggia ancora per affari, facendo trading. Oltre ai cinque ristoranti italiani ha anche un piccolo agriturismo finto toscano, un ristorante cinese in campagna e ha appena ottenuto l’appalto per la vendita dei beni sequestrati all’aeroporto di Pechino. Tutto quello che le guardie tolgono ai passeggeri in transito – bottiglie di vino, birra, superalcolici, accendini, coltellini, ricariche dello Zippo, forbici – lui compra a un prezzo fisso settimanale, e le rivende in un suo supermercato che sta lì nei pressi. Ordina un’altra bottiglia e me la mostra orgoglioso: un liquore con un nome tedesco scritto in caratteri gotici, di colore ambrato e con della foglia d’oro che galleggia dentro. E’ foglia d’oro vera, ci tiene a specificare Chen. Gli credo. Il liquore ha uno strano sapore dolciastro, un misto di pesca e mela, con questa foglia d’oro che galleggia dentro ma non si sente. Il cameriere mesce. Oltre ai ristoranti, al commercio all’ingrosso, al trading con la Germania, Chen ha senza dubbio un sacco di altre attività. Me le elencherebbe tutte se potesse, probabilmente. Mi chiede di dove sono, e scoprendolo dice con gioia che anche lui è stato a Milano, una volta, all’hotel Principe di Savoia, che è un buon hotel sottolinea, come se uno di Milano non lo conoscesse. Ma, mi dice, in quel posto non ci torna più: servizio splendido, sì, ma pieno zeppo di fantasmi. Fantasmi?, chiedo. Sì, dappertutto, la notte non c’era verso di dormire, continuavano a tormentarlo. Gli chiedo se li ha visti e che aspetto avevano. Chen si fa serio: “Non li ho visti... ma so che c’erano”. Mi chiede se voglio altro da bere, magari un amaro. Averna? Ramazzotti? No, perché lui li ha tutti, anche quelli che non si trovano normalmente in Cina, lui comunque riesce ad averli.

La conversazione finisce ad ora tarda. Si parla d’affari distrattamente, presento la lista dei miei prodotti, li commenta entusiasta atteggiandosi a profondo conoscitore della cucina italiana. Io chiedo il conto. Per carità, per carità, dice, sei mio ospite. Torna quando vuoi. Ma guarda un po’, che gentile il signor Chen, certamente con le persone ci sa fare. D’altra parte, se non fosse così non sarebbe quello che è ora.

Andandomene e salutandolo, mi viene una domanda: se lui è stato a Jesolo, perché il suo ristorante l’ha chiamato con il nome di un’altra città più piccola, non molto lontana, che comincia per “A”? La risposta è tanto semplice quanto spiazzante: “Ho pensato che così il nome del ristorante sarebbe venuto primo in tutti gli elenchi”. Sempre pragmatico, il signor Chen. Lo ringrazio a profusione prima di andarmene e cercare un taxi. Sarà quel che sarà, ma devo dire che mi sta davvero simpatico, ed è questo, saper essere simpatico a tante persone, quello che fatto la sua fortuna. Sono contento di scoprire che si può essere arricchiti e pieni di sé senza essere antipatici e arroganti. Pechino riserva sempre un sacco di sorprese.

2007-06-20

Una Promessa Mantenuta

Dandan è a Pechino per la settimana della Liberazione e, a parte comprar mobili e portar la mia Lei visitare la città, che non girava da circa 20 anni, decido di andare a cercare una vecchia conoscenza del passato e mantenere una promessa fatta nell’inverno del 2003.

Biglietto da visita in mano, io e Dandan ci incamminiamo tra gli hutong vicino al Tempio di Confucio e, facendomi guidare da una memoria lontana, mi metto in cerca della casa del vecchio signor Ban, l’ex professore di matematica ora pensionato e, per arrotondare, calligrafo per turisti. Ho conservato la foto che ci siamo fatti assieme, ma l’epidemia di SARS mi aveva impedito di portargliela come promesso. La parola data è sacra, e dunque eccomi qui, curioso di vedere ancora il vecchio signore così gentile.

Entriamo in un vicolo stretto costeggiato da porte e vecchi pingfang (平房, ovvero baracche posticce di mattoni rossi costruite ai tempi di Mao, in cui veniva ospitata la gente che immigrava in città, posizionate in qualunque spazio possibile come cortili, lati di strade, vicoli chiusi, ecc.). Dandan ha un’idea: il signor Ban è vecchio e piombargli in casa così all’improvviso non è carino, meglio telefonare. Chiamiamo. Risponde una donna che, incerta, ci invita ad entrare al tal numero e spiega come orientarsi nel vicolo, quali direzioni prendere, e a quale porta posticcia fermarsi.

Arriviamo, sì, sono passati più di tre anni ma me lo ricordo questo scorcio di pingfang, stanze minuscole, il salotto-camera da letto da un parte, la cucina a cabina telefonica, la biblioteca-camera dei figli dall’altra parte del vicolo di mezzo metro di larghezza. C’è una signora con gli occhiali spessi e quadrati e i capelli bianchi che ci aspetta sorridente. Niente indugi, ci invita a sederci al tavolino, io su una seggiola scassata e Dandan sul letto, la sciura prende uno sgabello, apparecchia con delle carte di giornale e sega a metà un’anguria titanica.

La signora Ban, senza nemmeno sapere chi siamo, spiega che il marito è fuori ma tornerà presto, nel frattempo ci offre quello che ha in casa e chiacchiera con Dandan. Tempo dieci minuti, eccolo che arriva: è lui, un po’ dimagrito, decisamente invecchiato, ma sempre lui. Saluta calorosamente ma è chiaro che non ha capito chi sono, solo che le regole dell’ospitalità gli vietano di essere freddo. Nessun problema, ecco il deus ex machina: estraggo la foto e spiego, con l’aiuto di Dandan, della mia promessa. Mi scuso di non poter essere venuto prima, ma le circostanze non me lo hanno permesso. Il signor Ban si illumina, e allora orgoglioso e compiaciuto si butta nella conversazione. Ci fa ogni genere di domanda, accompagnando le risposte, come si conviene, con complimenti a profusione sull’Italia, su Chengdu, sul mio cinese, sul fatto che sembriamo bravissimi ragazzi, e chi più ne ha più ne metta.

Il signor Ban è sempre pensionato, fa sempre il calligrafo ma ultimamente ha sempre meno voglia di uscire, data l’età e gli acciacchi. Per fortuna uno dei suoi figli è diventato professore come lui: non guadagna un granché, ma è un mestiere prestigioso e gli permette di aiutare i genitori, che ricevono una pensione di meno di 1000 kuai al mese. E’ anche vero che casa loro, nei suoi 35 metri quadri di spazio, costa meno di 100 kuai di affitto. Poveri in canna, ma dignitosi, sempre così la famiglia Ban. Ora che il mio cinese, rispetto a tanti anni fa, è migliorato, riesco a chiacchierarci meglio e ad approfondire. Ragazzi, la mia prima conversazione in cinese l’avevo avuta con lui!

Rimaniamo a discutere amabilmente e mangiar frutta a lungo, e il signor Ban mi chiede di scrivere dietro la foto la data e il mio nome, per ricordarseli, che l’età gli fa brutti scherzi. Ne scattiamo un’altra, con la mia nuova macchina digitale, per ricordarci d oggi. Poi la moglie sparecchia, pulisce il tavolo e lui estrae la sua collezione. Ci fa scegliere tre rotoli da darci in dono: caratteri semplici incorniciati da formule di buona fortuna. Io e Dandan scegliamo Ai (), Amore; Fu (), Felicità; e Fo (), Buddha.

Salutiamo il signor e la signora Ban con infiniti ringraziamenti, che contraccambiano di cuore. Poi, nella sera che cala, io e Dandan c incamminiamo verso casa con i nostri tre rotoli di calligrafia. Il primo di questi finirà incorniciato sopra il letto.

La sera, stesi uno accanto all’altra, pensiamo all’incontro e ai tre auguri del vecchio Ban. Stringendoci la mano, immaginiamo il nostro futuro in questa città, insieme.

2007-06-11

L'Ikea, pure quello falso

E’ la prima settimana di ottobre, e in Cina è la Festa della Liberazione, ovvero la festa che celebra la vittoria dei Comunisti su Giapponesi e Nazionalisti. Tutti i cinesi godono di una settimana di vacanza e così Dandan viene a Pechino per passare le vacanze con me. Il tempo è perfetto, non so se per intercessione dei cannoni sparasale del governo o del potere dei draghi, ma poco importa: ci sono sole brillante e una bella brezza fresca che stempera il calore.

Casa è ancora piuttosto spoglia, e siccome Dandan ha l’abitudine di seminare le proprie cose in giro per l’appartamento, aggiungendo al mio disordine il suo, di comune accordo decidiamo che ci servono dei mobili in più, nello specifico un altro armadio, una scrivania, una libreria e un mobile porta scarpe.

Per mantenere lo stile della poca mobilia che già c’è decidiamo quindi di andare nel luogo dove sono stato con Wang Li e sua moglie. Telefoniamo al numero stampato sul volantino che avevo conservato, e una signora ci dice: “Venite pure, siamo aperti per tutto il periodo delle vacanze, mei wenti!”

E’ così che ci imbarchiamo sulla metropolitana, cambiamo linea a Jianguomen, e dopo circa un’ora scendiamo a una stazione di periferia. Come previsto, lì a pochi metri c’è il bigliettaio che ringhia e spedisce la gente su un jinbei bianco che nemmeno in Iraq ne hanno di così scassati. Faccamo il biglietto, lascio a Dandan la discussione sulla fermata, paghiamo un kuai e ci accomodiamo in fondo, ammirando tutti gli strani personaggi che abbiamo attorno. Il mezzo si riempie abbastanza in fretta e corre lungo una grande strada diritta, con il bigliettaio che spinge giù i passeggeri se devono scendere o li tira su se vogliono salire, il tutto ovviamente senza mai fermare il taxi bus.

Il jinbei lentamente si svuota, e finalmente arriva la nostra fermata. Forse perché sono straniero, il taxi bus questa volta ferma e ci fa scendere comodamente, poi inverte la marcia e va via. Siamo io e Dandan su questo stradone di periferia, sotto il sole, davanti a una fila di attività che comprendono quattro meccanici, un ferramenta e un grande magazzino con l’insegna gialla e blu, in perfetto stile svedese. Piccolo particolare, le porte sono chiuse con una catena e un bel lucchetto da bicicletta, le vetrine sono coperte di polvere come se non fossero state lavate per settimane, e l’interno è assolutamente vuoto se si eccettuano pezzi di macerie casuali. Mi torna in mente il mei wenti della donna la telefono.

Per fortuna sulla porta è attaccato con lo scotch un foglio su cui qualcuno ha scritto, a mano “Se avete bisogno di qualcosa chiamate il seguente numero” che poi è quello che appunto ci aveva assicurato che il negozio era aperto. I meccanici ci guardano come se fossimo alieni, qualcuno scuote la testa, altri ridono. Attorno non si vedono taxi, fermate di bus o qualsiasi altro mezzo di locomozione utiizzabile. Siamo sperduti nella periferia sotto il sole, e quelli se la ridono di noi.

Dopo tanto tempo in Cina ho imparato a non farmi prendere dalla rabbia o dallo scoramento. Chiamiamo ancora questo numero di prima e vediamo cosa dicono:

Tuut... tuut... tuut... pronto?” risponde la stessa donna di prima.

“Buongiorno, voleamo chiedere un’informazione. Abbiamo già chiamato un paio d’ore fa per sapere se siete aperti... voi ci avete detto di sì... solo che ora siamo qua davanti al vostro negozio e non ha un’aria per nulla aperta”

“Aahhh, siete arrivati finalmente!” dice la donna “Mei wenti! Aspettate un secondo che mando qualcuno a prendervi!” e mette giù.

E va be’, aspettiamo. In queste situazioni una vota mi sarei incazzato da morire, ma ora scuoto le spalle e aspetto. Per ogni cosa c’è una spiegazione, basta avere pazienza e cercarla. Eccolo che arriva, dopo qualche minuto, il nostro uomo, in sella a un grosso e rombante triciclo a motore tutto giallo e blu, con una bella bandiera svedese sul manubrio. Quando ci vede agita la mano: “Adesso vi porto direttamente al magazzino centrale, dove c’è molta più scelta!” dichiara orgoglioso. Il che tradotto in forma esplicita significa che l’IKEA deve aver fatto problemi alla loro azienda e quindi hanno spostato lo show room dalla strada principale a una location molto meno visibile. Infatti l’omino, dopo averci fatto montare sul retro, coperto da una tenda gialla blu, inverte la marcia e si infila in una stradina costeggiata da fossi e pioppi. Il “magazzino centrale” sta lì a due minuti coperto da un filare d’alberi e un paio di costruzioni di mattoni, esattamente uguale al vecchio show room, con le famiglie cinesi che esaminano i mobili e le venditrici che cercano di imbastirle sulla qualità e sul prezzo ottimi.


C’è tanta roba, dai mobili nuovi in stile vecchia Pechino a letti viola con coperte zebrate e sedie acidissime a forma di mano. Troviamo facilmente i mobili nel nostro stile e cominciamo ad elencare quelli che vogliamo chiedendo i prezzi. Ci sono in due colori, legno chiaro e legno scuro, e a noi serve il secondo, che però non è disponibile.

“Vorremmo questo tipo di armadio, ma con il colore di quell’altro armadio”

La venditrice scuote la testa: “Mei you, non c’è, non è disponibile”

“Lo vedo che non c’è, ma fatemelo arrivare. Ordinatelo alla fabbrica da cui lo comprate”

La ragazza sembra confusa: “Signore, mi spiace, ma guardi che l’armadio come lo vuole lei, ma dell’altro colore non c’è... “ ci pensa su un po’ “Non esiste” conclude.

E’ tipico dello staff puramente esecutivo in Asia, nelle situazioni impreviste, trovare una scusa gentile per sottrarsi alla responsabilità di dover pensare o dire qualcosa oltre le istruzioni che si sono ricevute. Nello specifico, la proprietaria ha detto alla ragazza di vendere i mobili che ci sono nello show room, ma siccome il mobile che voglio io non c’è, lei non me lo vuole vendere.

“Allora” spiego con pazienza “Questi sono mobili modulari. Ci sono tre modelli di armadio e due colori disponibili. Questi mobili sono costruiti per la maggior parte con gli stessi pezzi, per cui se esiste un mobile a cassetti chiaro, la fabbrica ne produce anche uno scuro, basta cambiare il colore dei pezzi. Guarda: scrivania chiara, scrivania scura, tavolo chiaro, tavolo scuro. Questo è l’armadio che voglio, ma trovami quello dell’ALTRO colore.”

La ragazza annuisce ma non ha capito nulla. Facciamo chiamare la responsabile del negozio, che senza essere una cima comunque dà l’impressione di aver capito la mia logica, anche se non è sicura che sia così. “Lo so che tutti questi mobili li fanno in due colori, ma magari quelo che vuoi tu lo producono solo in colore chiaro” spiega.

“Va bene” dico “allora dì alla fabbrica di prendere questo armadio, togliere questo pezzo che vedi qui e aggiungere quest’altro che vedi là, e farmelo avere. Perché vedi, se i pezzi già ci sono, vuol dire che la fabbrica può metterli assieme. Se hai qualche dubbio ancora, per favore... per favore... non esitare a chiamare il tuo capo in fabbrica. Sicuramente saprà cosa fare ”.

Finiamo di discutere il prezzo: un armadio, un porta-scarpe, una scrivania e una libreria coordinati, 900 kuai. Se ci aggiungiamo altri 100 kuai ce li consegnano a casa dall’altra parte di Pechino. Mi viene da ridere mentre pago, ma dove li trovi dei mobili uguai a quelli IKEA a questo prezzo? E poi dicono che IKEA costa poco... prova a guardare il reale costo di produzione di quello che compri!

I mobili arrivano come promesso un paio di giorni dopo. I due omini delle consegne riescono a trovare casa mia alla seconda telefonata, il che è un record positivo finora, si mostrano gentilissimi e mi aiutano a portare tutto quanto nell’appartamento. L’armadio è arrivato del colore giusto, anche se a guardarlo bene è una tonalità leggerente più scura dei mobili che ho già. Ma se uno prova a crederci, può dire che è un mobile di vero legno fatto a mano è unico e non replicabile, e far finta che non sia legno pressato con una mano di vernice chimica mischiata a cazzo al momento dal falegname. Si apre, si chiude, ed è anche bello da vedere. L’aiyi arriva il pomeriggio stesso e le facciamo lavare il tutto per rimuovere lo strato di polvere chimica e sabbia del Gobi che ricopre la mobilia fuori e dentro. E poi eccolo lì, bastano quattro mobili e meno di 100 euro, e s’è fatto un appartamento quasi decente! I vestiti vengono raccolti da terra e infilati nell’armadio, i libri nello scaffale, le scarpe nella scarpiera e le varie candele e statuine di divinità indiane e buddhiste posizionate con riguardo sulla scrivania. L’ordine può ora regnare in questo appartamento, che assomiglia sempre di più a una vera casa.

2007-06-09

Discutendo del più e del meno

Se avete letto superficilmente solo alcuni dei post di questo blog potreste esservi fatti l’idea che i cinesi siano tutti dei gran minchioni. Non c’è nulla di strano o di male, questa è comunque l’idea che si fa anche chi vive qui per un periodo piuttosto corto o comunque non si preoccupa di conoscere bene il Paese e la gente che lo abita.

La realtà tuttavia è ben diversa – così come i cinesi stupidi e ignoranti sono le bestie più bestie che ci siano, quelli svegli e di buona cultura sono dei geni che non ne trovi altrove. Chissà poi perché, ma è così. Nello specifico, uno dei miei amici ricade nella categoria dei geni, e siccome è parecchio tempo che non lo vedo, una sera lo chiamo e lo invito a cena sulla Guijie.

Arriva direttamente dall’ufficio il vecchio Joe, ossia Zhou, taglio di capelli standard, polo rossa e occhiali da topo da biblioteca, e ci infiliamo in un ristorante di hot pot di pesce stile shanghainese. Non può mangiare altro, mi dice, per problemi di stomaco. Molti cinesi ne soffrono, a causa delle quantità esagerate di té bollente che bevono, che erodono le pareti dello stomaco causando ulcere a manetta. Le sigarette non fanno che peggiorare la situazione.

Il buon Joe ordina dall’acquario, il cameriere pesca, ammazza, mostra ai clienti, e poi porta la bestia in cucina. Di lì a pochi minuti il pesce è cotto a puntino, servito in un calderone di metallo che ribolle di brodo profumato, la sua carne è tenera e delicata e per nulla oleosa e dolce, come invece di solito sono i piatti di Shanghai.

Si parla di massimi sistemi, con Joe. E’ una delle uniche persone che conosco qui con cui è davvero gratificante parlare, perché non c’è niente che non conosce, nessun argomento su cui non ha già riflettuto, e su cui non ha un’opinione solida. Verso metà della cena i nostri discorsi deviano verso la democrazia. Joe, a differenza di molti cinesi, non ha remore a discuterne con uno straniero. Mi dice che la Cina non ne ha abbastanza, che il governo è troppo unilaterale e non tiene conto dei problemi di tanta gente, soprattutto nelle campagne. I loro interessi, i loro diritti di base, sono calpestati senza pietà. Secondo lui, questa situazione non può durare in eterno, qualcosa deve cambiare, ci deve essere una rivoluzione. Non necessariamente una rivoluzione violenta, anche solo una rivoluzione amministrativa, nella cultura dello Stato.

Non mi trova d’accordo: vivo in Cina da ormai due anni e quello che vedo è un governo che si impegna per far crescere il Paese. Gli faccio l’esempio delle grandi democrazie e di quello che hanno prodotto. Quale Paese che pretenda di essere democratico, alla fin fine lo è davvero nel nostro secolo? Gli Stati Uniti, il grande campione della democrazia mondiale? Uno stato dominato dai media, dove la gente subisce un lavaggio del cervello non molto diverso da quello che riceve qui. Se non altro il Partito, dico, è più onesto nel dire ai suoi cittadini che le loro decisioni non influenzano il governo.

L’Europa? E’ una democrazia malata. Certo, siamo liberi di pensare, siamo liberi di scrivere e di parlare, ma questa libertà è abusata, ciascuno si trincera dietro i propri diritti personali e paralizza l’intero sistema. Da dopo la Seconda Guerra Mondiale siamo dominati da un’élite politica corrotta, e ogni tentativo di cambiamento positivo è bloccato da interessi particolari, da ideologie di nicchia. Quanto alla libertà di voto certo, la gente vota, ma cosa vota? Non ha idea di cosa accade veramente nei Parlamenti, nelle riunioni di governo, nelle alleanze di partito. Tutti possono esprimere la propria opinione, e alla lunga l’opinione è diventata più importante della realtà. Ciascuno è libero di non essere obiettivo, di non essere ragionevole, di divulgare informazioni parziali o faziose. Il sistema democratico moderno è basato sul conflitto, ognuno dice la sua, ognuno si preoccupa delle proprie prerogative. Ognuno pensa ai propri interessi di gruppo, e i valori, quelli che tengono insieme una società, sono scomparsi. Chi parla più di valori, in Europa? L’unico argomento è il welfare – le tasse, i servizi. E questa sarebbe politica? Questa sarebbe democrazia? Finché la gente concepisce lo Stato solo come un’amministrazione dei beni comuni, non si può parlare di democrazia. Non esiste una cultura della democrazia, e senza questa cultura non ci può essere democrazia. Senza cittadini responsabili che votano con coscienza, e senza amministratori altrettanto responsabili nei confronti dell’elettorato, abbiamo solo un sistema che non funziona.

In Europa, non abbiamo una cultura della democrazia. In America nemmeno, e neppure in India, in Russia o in America Latina. Che senso ha parlare di democrazia in Cina allora? Che senso ha dar potere di voto a ottocento milioni di contadini che sanno a malapena scrivere il proprio nome? Per chi voterebbero? Per cosa, se non per le promesse più fantasiose e per il candidato più accattivante e simpatico? Questa è forse democrazia? Credimi, Joe, tanto meglio il Partito unico che elegge i governanti al suo interno, almeno ho la certezza che chi comanda qui è stato eletto da persone che sanno quel che fanno, e che non si spaventano per un corteo di villaggio o per un prete che parla d’apocalisse. Mentre l’America produce solo guerre e l’Europa è paralizzata dal suo rispetto delle minoranze, la Cina cresce, si costruiscono scuole, ospedali, infrastrutture, e la gente pensa al futuro. Chi pensa più al futuro, in Occidente? Senza fiducia nel futuro, non si può migliorare.

Ci spostiamo a casa mia. In Italia ho comprato una moca per Joe, che ama il caffé. Almeno, spero, non si sfascerà più lo stomaco col té. Su sua richiesta, tiro fuori la chitarra, strimpello qualcosa. Gli piace, nella sua curiosità da bambino per qualunque cosa vuole imparare, e dieci minuti dopo Joe sta praticando Mi, Mi minore, La, La minore. Sospiro, gli do degli esercizi da fare a casa. Joe è entusiasta. Che uomo fantastico, averne di energie mentali così.

Rimaniamo a chiacchierare fino a tardi su questo e su quello, sul senso dell’arte e sulla cultura italiana, sulle donne e sugli uomini e sulle loro relazioni, sulla Rivoluzione Culturale e sulla lingua latina e le sue influenze nelle lingue moderne. Non andiamo d’accordo su molte cose, ma entrambi gioviamo dei punti di vista reciproci. Quando Joe se ne va verso casa, la sua moca in un sacchetto di plastica e la promessa di praticare gli accordi, mi sento leggero, come se tanti pensieri nella mia testa fossero venuti fuori e non spingessero più dall’interno del cranio. Ogni tanto ci vuole un amico così con cui parlare.