2007-03-31

Le bollette

Uno degli shock culturali più duri che si trova ad affrontare un italiano a Pechino è il pagamento delle bollette. Certo, tanta gente preferisce abitare nei bei compound dove il management parla inglese e tutte le spese sono incluse nell’affitto. Ma chi decide di abitare in una residenza più modesta e meno internazionale non sfugge all burocrazia squisitamente cinese, tanto che pare che dai tempi dei vari ministeri controllati dai mandarini all’insaputa dell’imperatore non sia cambiato nulla.

Jack cerca di spiegarmi, nel suo cinglese malamente formulato, come fuzionano le varie cose. Sembra che ci tenga molto, e anche Wang Li annuisce serio, anche se non capisce nulla di quel che Jack dice. E’ così che apprendo con sconcerto che le cose stanno nel seguente modo:

Il gas che si usa in cucina e per riscaldare l’acqua si utilizza tramite una carta prepagata verde, da inserire nel contatore in cucina. La carta va controllata ogni tot, e quando sta per scaricarsi bisogna recarsi all’ufficio del management di quartiere, un seminterrato inquietante con dei signori che hano l’aria di stare seduti a chiacchierare e giocare a carte tutto il giorno. Loro caricano la carta che va reinserita nel contatore. Se la carta si scarica e non è stata caricata, il gas viene tagliato.

L’elettricità si paga con una carta blu in un astuccio di plastica, e il contatore sta sul pianerottolo. Per qualche strano motivo il management non la carica, ma bisogna andare in banca. Anche questa, se si scarica, blocca la fornitura all’appartamento.

L’acqua non ha una carta: c’è una bolletta trimestrale che viene inviata via posta, e va pagata sempre in banca.

Anche il telefono si paga in banca, ma la bolletta non viene inviata, occorre recarsi ogni mese, tra il 10 e il 25, e dichiarare il proprio numero di telefono per avere il conto.

L’ADSL si paga invece sulla base di una regolare bolletta, questa mensile, solo che non si presenta in banca ma occorre andare all’ufficio più vicino della China Telecom, ufficio di cui peraltro nessuno sembra conoscere l’ubicazione.

Infine c’è il boccione dell’acqua potabile. Qui si telefona al management, ma a un altro ufficio rispetto a quello del gas, e un omino viene inviato a consegnare il serbatoio. Occorre pagare un deposito di 50 kuai per il primo boccione, se no magari qualcuno lo ruba (?).

Mio malgrado mi trovo ad annuire scioccamente, alla maniera cinese, davanti a Jack e Wang Li. “Nessun problema” dico. Davvero nessuno.

A distanza di otto mesi, la situazione è questa: il pagamento del gas è stato trasferito dal management di quartiere alla banca, ma non una qualunque, solo la Bank of Beijing, che è quella più lontana da casa mia. Il contatore dell’elettricità non è mai sceso di una virgola, 205 “punti” come ad agosto: secondo Wang Li è perché il palazzo è nuovo, quindi la società elettrica ha fatto gli allacciamenti ma non ha ancora effettuato le pratiche per calcolare il consumo (tradotto, sono otto mesi che non pago la corrente e il tutto è perfettamente legale). La bolletta dell’acqua non è ma arrivata, ma finché continua a scorrere nei miei rubinetti non mi preoccupo (ah, la pazienza che si impara in Oriente!). Il telefono si paga secondo le informazioni datemi da Jack, solo che al suo costo viene aggiunto l’ADSL, per cui non occorre andare a cercare la China Telecom. Il boccione dell’acqua pare l’unica cosa che funziona in modo veloce ed efficiente, senonché l’acqua fa schifo, perché sa di amaro o, se si cambia marca, di cloro. L’acqua buona non la tengono perché “costa troppo” e secondo loro non si vende, quindi se la voglio avere devo ordinarla a un’altro management di quartiere cercando di covincere l’omino a fare un pezzo di strada in più per farmi avere acqua decente. Fatica sprecata.

Ancora a nessun cinese è venuto in mente che, forse, sarebbe utile uniformare i pagamenti di questi servizi. Il motivo? La feudalizzazione e il decentramento amministrativo. Cercheremo di approfondire l’argomento nel prossimo post.

2007-03-27

Casa

Da mesi non riesco a dormire bene, e stamattina mi sveglio alle otto e mezza, con la parete che vibra ai suoni di un martello pneumatico nell’appartamento adiacente. E’ solo alle dieci e mezza che il rumore la vince e mi scuote dal mio sonno. Non è lo stesso posto dove mi sono svegliato altre volte: il rosa della camera è più rosa, la luce più luminosa, al suono dei lavori in corso si aggiunge quello delle cicale d’agosto. Sono a Pechino. Nel mio appartamento di Pechino.

Sono tre anni che cerco di tornarci a vivere, ed eccomi qui. Ho una ragazza che sta dall’altra parte della Cina, un lavoro che sto cercando di lasciare, non vedo l’Italia da sei mesi e ho tante cose da fare che l’idea stessa di dormire una volta almeno otto ore è utopica. Gli scatoloni del trasloco non sono ancora arrivati. Lavo il posacenere e ci verso dentro il latte comprato ieri sera alle due al ventiquattr’ore; un panino al cioccolato di pasticceria finto francese; succo di pompelmo e Yakult. Fuori dalla finestra le cicale cantano assordanti e il loro suono si confonde con quello dei trapani. Gli alberi sono antichi e verdi, e coperti d’edera come le case. Per cinquanta metri, ricado all’interno di Dongcheng, la parte orientale della vecchia Pechino degli Yuan. Al di là di un centro commerciale in costruzione, stavano le mura erette dai Khan.

Qualunque cosa succeda, adesso sono qui. Oggi celebro la mia vittoria, e posso dire di essere felice.

2007-03-24

Taxi Bus

Un mezzo di trasporto peculiare dei Paesi in via di sviluppo, che comunque rimane ancora nella Pechino del ventunesimo secolo è il taxi bus. Un bus percorre un percorso predefinito e chiede il biglietto in base a un tariffario fisso – tipicamente da 1 a 3 RMB. Un taxi segue il percorso preferito dal cliente e applica una tariffa variabile sulla base del tassametro. Un taxi bus è più complicato.

Si prende un pulmino, tipicamente un miandi bianco, con i sedili slabbrati, i finestrini unti, bloccati e/o rotti, e con una marmitta che sputa fumo nero che nemmeno una ciminiera. Lo si parcheggia in un luogo dove passa molta gente, di solito una stazione della metropolitana della periferia. Ci si mette di due: uno guida, l’altro fa il bigliettaio. Il bigliettaio si mette sul marciapiede in mezzo al flusso di persone, e più è rozzo meglio è: d’estate sta a dorso nudo con la maglietta sulle spalle a mo’ di straccio per il sudore; d’inverno con un montone dell’ante-Liberazione riparato in più punti, ma non in tutti; l’importante comunque è che sappia urlare in beijinghua’r (ovvero dialetto pechinese), scandendo la generica direzione del bus e attirando i potenziali passeggeri. Il passeggero interessato si avvicina, descrive al sua meta, e il bigliettaio risponde con un grugnito e una mano tesa a chiedere un kuai, oppure con un grugnito e una mano agitata in segno di negazione. Nel primo caso il passeggero sale, e il bigliettaio ricomincia a gridare, o ringhiare, la destinazione agli altri passanti. Dopo un tempo che va dai dieci ai trenta minuti il pulmino s’è riempito, e allora si parte. Mano a mano che i passeggeri scendono, il bigliettaio cerca di tirarne su altri per sfruttare tutti i posti disponibili: quando si passa un crocchio di persone l’autista decelera, il bigliettaio apre la portiera (se c’è), si sporge e urla la destinazione; se qualcuno si mostra interessato, si ripete la scena di prima, e caso mai il passeggero sale. In tutto questo, il pulmino non si è mai fermato del tutto. Se una persona è anziana magari ci si ferma, altrimenti il passeggero corre e salta.

Mi capita di prendere uno di questi bus l’ultima domenica di luglio. Ho chiesto ai padroni di casa di vedere i mobili assieme, e dopo una lunga discussione hanno preferito farmeli vedere a catalogo. “No problem, wery guda furnichur!”. Domenica pomeriggio mi chiamano in panico, chiedendomi di andare con loro perché non c’è la camera che hanno visto sul catalogo. Un’ora di Metro fino alla terzultima stazione ovest della linea 1, e poi Wang Li, maglietta da giocatore di basket, pantaloni sopra il ginocchio, scarpe di vernice, calzini di cotone neri tirati su a metà polpaccio e marsupio in spalla, mi invita a salire sul pulmino. La moglie, capelli nerissimi cotonati, vestito di lino blu e gambaletti color fumo, paga per me. Sopra il bus, la folla di personaggi è decisamente varia: di fianco a me uno studente che vorrebbe essere cool: jeans di tre taglie in più, una delle gambe arrotolata fino al ginocchio, capello lungo e laccato, cellulare all’orecchio con musica pop cinese a palla, cicca e borsa finto militare che usa anche per asciugarsi la bocca e il naso. Più avanti, la classica vecchia massaia cinese: vestiti lavati tante volte con detersivi chimici che i colori si sono fusi e ormai si fa fatica a distinguere maglietta da pantaloni, gambaletti color carne, ciabatte, capello corto e sguardo apatico, seduta in un angolo a gambe larghe. Ragazza alla moda, capello laccatissimo, un etto di cerone bianco in faccia, grassottella, unghie delle mani ognuna di un colore diverso e brillante, quelle dei piedi tutte azzurre, ciabatte, lettore mp3, sguardo annoiato. Musulmano arricchito, faccia cinese, pelle scurissima, baffo nerissimo, polo blu scuro a righe, pantaloni neri, scarpe di vernice impolverate, calzini di cotone bordeaux, unghia del mignolo lunga un centimetro, e il suo status symbol: un bastone in legno scuro con pomello di finto oro. Ci si appoggia orgoglioso, lo fa girare in mano, lo guarda incantato, e se lo tiene ancora incartato nella sua plastica, se no mica si capisce che è nuovo. E’ contentissimo.

Fuori dal finestrino scorre Pechino ovest, con i suoi vecchi edifici circondati da alberi, il distretto di Fengtai dove i grattacieli e i mall di Chaoyang non sono ancora arrivati. Si respira un’aria diversa qui. Arriva il momento della discesa: il negozio di mobili. Tutto copiato da Ikea ma a metà prezzo. In questi posti, forse, con il taxi o il bus normale non ci si arriva.

2007-03-20

In cerca di casa

Finalmente il tempo del mio trasferimento tanto agognato si avvicina, e il 24 luglio torno a Pechino per cercare casa. Contatto due agenti, ma nonostante le rassicurazioni dei miei amici residenti sul mio ampio budget, trovo solo sistemazioni brutte e costose. Pare che tutti gli appartamenti di Pechino soffrano di due enormi difetti: i bagni senza finestre e le finestre delle camere da letto che guardano in altre finestre di camere da letto. La filosofia del siheyuan è rimasta quella, e i compounds hanno tutti grandi corti centrali, ma gli edifici sono di gran lunga troppo vicini, e la privacy non esiste. Contatto quindi due altri agenti, aiutato da Irene, e dopo innumerevoli visite e giochi di diplomazia per mettere agente contro agente, il rapporto qualità prezzo delle case che mi fanno vedere migliora costantemente. Questo non mi impedisce di ritrovarmi davanti a scene tipicamente cinesi quali: letti in falso stile Luigi XVI con testiera in finto cuoio rosso borchiato; divani in pelle di mucca; e figli delle padrone di casa senza pannolino che, mentre io contratto con la madre, pisciano pacificamente sulla sedia del salotto.

Ma alla fine lo trovo: un appartamento piccolo, molto intimo, con vista su alberi e case vecchie, con una luce stupenda e a un prezzo più che accettabile. Senza mobili. Mi preoccupo di definire che i mobili li sceglierò insieme al padrone di casa, Wang Li, un signore che fa il manager delle risorse umane al Landao, e la moglie, una signora elegante e con un sorriso stupendo. Dopo un’ora di contrattazione mediata da Jack, l’agente, nel suo inglese rudimentale, ci accordiamo sulla scelta a catalogo. E allora faccio un errore madornale: sono talmente felice di stare a Pechino e di starci a lungo, che intravedo il potenziale di una casa ancora senza mobili e prendo la decisione: voglio fare la camera da letto con le pareti rosa!

La botta di creatività mi è fatale: mostro a proprietari e agente una foto dell’appartamento di Shanghai e, dopo due ore e diverse telefonate a vari amici sinologi, pare l’abbiano capita, e ci accordiamo nel seguente modo: io pagherò la vernice e Jack l’operaio. Per pura fortuna quel pomeriggio Irene lavora, Jingyi è a Tianjin, Patti deve stare dietro ai genitori in visita, e io incontro Joe al Bookworm con una sua amica, Rebecca, una PR laureata in Filosofia Scientifica. Me li porto dietro al negozio di vernici, e poi all’appartamento: e qui scopro la catastrofe. Jack non ha capito un beato cazzo di quello che ci siamo detti.

Nella casa, i proprietari guardano intimiditi Jack che, con una sigaretta in mano dirige due operai con assi di legno, seghetto e cemento stanno applicando uno zoccoletto di legno in tutta la stanza, tra i muri e il soffitto. Non lo volevo, ma d’altra parte anche se non l’avevo chiesto, lo zoccoletto appariva nella foto dell’appartamento di Shanghai, e quelli l’hanno copiato pari pari. E’ anche bello lo zoccoletto, sennonché Jack chiede 800 kuai per pagare gli operai e altri 240 per lo zoccoletto. Seguono due ore di discussione alla cinese tra Jack, i due operai cinesi – torso nudo e sigaretta in mano – Joe e Rebecca, mentre io e i proprietari assistiamo incerti ad ogni nuova mossa: urla, minacce, dita puntate al viso, lamenti, suppliche, lezioni di morale. Jack non ha capito un assoluto cazzo di tutto quello che ci siamo detti, e testardamente non vuole cedere su nulla, e prende Joe per sfinimento. Alla fine gli operai abbassano il prezzo, e Jack accetta di pagare 40 simbolici yuan di tasca propria. Gli altri 800 li metto io. Rebecca stila un contratto su due piedi e zittisce tutti leggendolo, traducendolo,e facendolo firmare ai presenti. Joe commenta che Jack non è in malafede, è genuinamente cretino e credeva di fare del bene, solo che non ha ascoltato quello che ci siamo detti in due ore la mattina stessa.

Il giorno dopo la mia camera è finita. Non è male, anzi, soprattutto dopo che faccio rifare i contorni delle porte e del calorifero da capo. Alla fine sono tutti contenti, Gli operai prendono i soldi e se ne vanno, Jack corre a vedere un altro cliente, Irene venuta a tradurre apprezza un po’ tutto l’appartamento; mercoledì farà un salto per controllare l’arrivo dei mobili. Salutiamo i padroni di casa. Tra una settimana, comincerò a vivere qui.

2007-03-14

Sicurezza Addio

E’ la sera del 25 luglio, e sono a Pechino per un altro viaggio di lavoro. Seduto al banco del Bookworm, sto chattando con Dandan, quando ricevo una mail inoltrata da Irene, con un’agenzia ANSA. Conoscendo il responsabile dell’ufficio ANSA di Pechino, che abita dall’altra parte della Gongti Bei Lu, la notizia mi sembra meno fredda di quella letta in un qualunque media, è come una voce passata da un conoscente.

CINA: MORTA GIOVANE ITALIANA A PECHINO, PROBABILE ASSASSINIO

(ANSA) - PECHINO, 25 LUG - Una giovane italiana, Paola Sandri di Bassano del Grappa (Vicenza), di 29 anni, è morta la notte scorsa a Pechino, probabilmente assassinata, nei pressi del parco di Chaoyang, in un distretto centrale della capitale. La notizia e' stata confermata dall' Ambasciata d' Italia in Cina e dalla polizia di Chaoyang.

La donna e' stata trovata la notte scorsa da passanti, che hanno notato che perdeva copiosamente sangue. Secondo le prime informazioni aveva due ferite di arma da taglio. La giovane e' arrivata morta all' ospedale di Chaoyang, dove era stata portata dalle persone che l' hanno trovata. La polizia non ha ancora formulato ipotesi sulla dinamica dei fatti o su possibili responsabili. Paola Sandri non era residente a Pechino ma visitava spesso la Cina, sia per turismo che per esercitare il suo lavoro di insegnante.(ANSA).

Rimango scioccato a guardare lo schermo. Rileggo la notizia, la cerco per conferma su altri siti, e la trovo, pubblicata da pochi minuti. Mi accendo una sigaretta e tremo.

Pechino è sempre stata la roccaforte della sicurezza in Cina, se non nel Mondo. Chiunque ha sempre saputo di poter andare in giro da solo di notte in qualunque luogo, senza timore nemmeno di trovare un ubriaco molesto. Ma le cose stanno cambiando, e una ragazza italiana viene accoltellata in piena zona Parco Chaoyang.

Immediatamente penso ai neri di Sanlitun, ma quella è un’altra zona, e cerco di calmare la mia paranoia razzista. Eppure pare che stiano diventando di giorno in giorno più molesti, più baldanzosi nella loro illegalità. Dandan cerca di calmarmi, cosa non facile: non vuole nemmeno pensare alla possibilità che sia un cinese, e lo definisce una vergogna per il suo Paese. Più tardi mi sposto all’Aperitivo, in cerca di qualche italiano con cui commentare l’accaduto: come sperato, ci trovo i soliti sospetti. Tutti sono sorpresi come me. Secondo Stefano può essere stato qualcuno della security di un bar: in zona Chaoyang non è un mistero che scoppino frequenti risse, per o più innescate da qualche russo ubriaco o da qualche laowai troppo invadente con una ragazza cinese accompagnata da connazionali. I buttafuori sono abituati ormai a trattare con questi tipi, e in troppi ci prendono gusto a poter mettere le mani addosso a uno straniero. Parecchi sono adeguatamente equipaggiati con una lama nascosta. Ma qui parliamo di una donna...

Si formulano altre ipotesi, ma tutto è vano. Qualcuno suggerisce che già alte due ragazze siao state ammazate negli ultimi mesi, una russa e un’altra europea di origine non precisata. Come al solito, in un Paese dove la trasparenza nel’informazione non esiste, le leggende urbane si ingigantiscono in fretta. La polizia, naturalmente, non dirà nulla finché non esisterà una soluzione definitiva al caso, e ora è presto. La versione ufficiale è che si tratti di immigrati, quella parte sostanziosa della popolazione urbana che non ha le carte in regola per stare in città, e sopravvive senza alcuna assistenza sanitaria o sociale, svolgendo lavori occasionali, sottopagati, non garantiti da alcun contratto né da guanxi personali. E’ comprensibile che in molti, spinti dal bisogno, diventino criminali. E ignoranti e sprovveduti come solo i contadini cinesi sono, possano farsi sfuggire la situazione di mano e trasformare una rapina in omicidio solo per essersi fatti prendere dall’eccitazione. Ogni anno centinaia di migliaia di loro di riversano in città in cerca di fortuna, vivendo in periferie senza nome in condizioni umane degradanti, disprezzati dai veri pechinesi che li vedono come invasori da sfruttare. Molti di loro sono così poveri che, in un Paese dove le donne sono meno della popolazione maschile, tutti sanno che non potranno mai permettersi di trovare una moglie. Quando non hanno talento per combnare qualcosa che li elevi dal loro stato, la loro vita è solo lavoro da schiavi, per pura sopravvivenza.

Ancora ipotesi, congetture, scenari immaginari, in una città dove la verità troppe volte viene accuratamente nascosta, specialmente quando è scomoda. Me ne torno in albergo all’una, solo per le strade di Sanlitun che improvvisamente non mi sembrano più sicure come una volta. Pechino sta cambiando, e ce ne stiamo accorgendo tutti.

2007-03-11

Salto nel vuoto

Volendo catalogare le ragazze cinesi sulla base del loro atteggiamento verso il maschio straniero si possono individuare due categorie principali: la Cinese manipolatrice e la Cinese ostile.
Alla prima categoria appartengono le ragazze che avevo conosciuto tanto tempo fa al Poachers, e di cui sono pieni i bar di Pechino, di Shanghai, e di tantissime altre città. Quello che cercano è talvolta il denaro, talvolta il matrimonio che porti denaro, un passaporto straniero e il diritto di procreare a volontà in barba alla politica del figlio unico.
Alla seconda categoria appartengono le ragazze cosiddette “tradizionali”, in cui secoli di pregiudizi sciovinisti e odio verso gli invasori hanno inculcato nella mente che lo straniero è una bestia inconciliabile con l’essere umano cinese, e che non è possibile instaurare alcun rapporto profondo con i laowai a causa della loro natura impulsiva, viziosa e barbara. E anche con questa categoria ho avuto i miei trascorsi più o meno turbolenti.
Viene da sé che pur non volendo generalizzare, sulle ragazze cinesi ero decisamente scettico, e l’ultima cosa che mi sarebbe venuta in mente era quella di cominciare una relazione con una di loro.

Poi una sera di maggio ho conosciuto Dandan, e anche se non è successo nulla tra noi e ci siamo salutati da amici sapendo che probabilmente non ci si sarebbe più visti, e magari neanche sentiti, sono due settimane che ci sentimo ogni giorno. Via messaggio, via messenger, via telefono, e più passa il tempo più lontana si fa l’idea che non ci si vedrà mai più. Mi piace, altroché, con i miei amici parlo quasi solo di lei, e sembra che la cosa sia ricambiata, nonostante una relazione interculturale a due ore di aereo di distanza non offra i migliori presupposti per qualcosa di stabile e sano.
Ma tant’è. Dandan non è né manipolatrice né ostile. Una ragazza semplice, per certi versi tradizionale, ma che parla inglese e ha studiato all’estero.

E’ in queste situazioni che la radicalità in me, che sono in generale calmo ed equilibrato, salta fuori con prepotenza. La parte Kali della mia anima, chiamiamola, quella che si butta nelle cose senza pensarci, quella che pone le scelte di tutto-o-niente, quella che in fondo mi rende una persona coerente con me stessa davanti ai problemi, me li fa affrontare in modo diretto e definitivo, senza esitazioni, senza compromessi. Il risultato è la prenotazione di un biglietto aereo per Chengdu. Così, per passare il weekend lì. Se va va, se non va non va, e ci leviamo il pensiero. Dandan è entusiasta. E speriamo che vada.
E così il venerdì sera sono a Chengdu per l’ora di cena. Barando spudoratamente con i collegi cinesi e inventandomi appuntamenti improbabili per uscir prima dal lavoro. Lei mi viene a prendere all’aeroporto e, dopo un pasto in un ristorante occidentale, ci troviamo a passaggiare su uno dei grandi viali di Chengdu, sotto alberi ombrosi, con l’odore di pepe verde che permea l’aria e le luci dela città fioche e discrete.
Lei mi piace da morire. Io le piaccio, lo so. E allora perché non accade nulla, non c’è contatto fisico, non si scatena la passione? Tutte le mie esperienze passate, a cominciare da quella con Jingyi, mi scorrono nella memoria, ma senza offrire soluzione. E come al solito, parto diretto, se pur gentile.
“Cosa c’è che non va?” le chiedo.
E’ dibattuta, lei, ma sincera e inaspettatamente diretta. Non mi spiega, semplicemente mi espone un fatto. Io le piaccio e vorrebbe stare con me, lei mi piace e vorrei stare con lei, lei vive a Chengdu, io vivo a Pechino. Lineare.
Sono preso alla sprovvista da tale semplicità e chiarezza di pensiero e comunicazione, non c’ero più abituato a furia di stare in Cina, né del resto anche in Italia il gentil sesso non mi aveva abituato bene. E’ allora che la parte Kali della mia anima salta ancora fuori, quando meno son preparato a controllarla, e prende il sopravvento. Non so quello che dico, non so perché lo dico, in quel momento semplicemente le parole escono dalla mia bocca e il mio cuore non se ne stupisce per nulla.

“Vieni a vivere a Pechino, allora”

Lei è sorpresa. Mi studia, sospettosa: l’idea è imprevista, ma più ci pensa meno le sembra folle. La guardo calmo, senza alcun cenno di esitazione: in qualche modo, sono anch’io perfettamente lineare.

E’ così che cambia il nostro destino. Con un invito a venire a vivere a Pechino, non per me, ma per sé stessa, perché Pechino è Pechino, è interessante, è bella, è ottima per una carriera. E poi si vedrà.

If we stand here together,
And we see the world as one,
We may think there's no future,
But it's the same for everyone.
It's like the world has lost its head
And it's like all the prophets said
But will we arise to a new world?

Così cantano i Kula Shaker dalle casse del mo computer portatile, quando il giorno seguente, dopo una notte di riflessioni su quello che ci siamo detti, chiudiamo gli occhi e ci baciamo.

Anche se apprentemente non c’è futuro, abbiamo deciso che non c’è ragione di aver paura, e ci buttiamo insieme, mano nella mano, in un tuffo nel vuoto. La mia mente mi grida che tutto ciò che sto facendo è assolutamente folle e irrazionale, ma il mio cuore non è mai stato così calmo e sereno.

E’ così che, senza nemmeno un sospiro, abbandono la mia esistenza da single in Cina, e inizio la mia storia con Dandan.