Da quando Dandan si è trasferita a Pechino la sua camera a Chengdu è vuota, e vuoto è quello che sentono i suoi genitori. Chengdu non è nemmeno dietro l’angolo abbastanza da visitare spessissimo, e quindi, sebbene figlia e genitori si parlino tutti i giorni al telefono, c’è una gran voglia di stare fisicamente assieme.
Il sig. Cheng è relativamente fortunato – lavorando al dipartimento provinciale dello sport ed essendo uno dei responsabili del passaggio della torcia olimpica in Sichuan, ha occasione di venire a Pechino relativamente spesso per vari meeting. Di solito viene alloggiato in un piccolo hotel dietro Chang’an Jie, di proprietà della provincia del Sichuan: siccome non è esperto di Pechino, la sera lo andiamo a prendere in taxi, e lo portiamo a cena o a visitare qualche angolo di Pechino. La prima volta è per me ardua: sono conscio che in parte siamo sotto esame. Portiamo il sig. Cheng nella Guijie, allo Huajia Yiyuan (花家怡园), ristorante di cucina cinese contemporanea di bella presenza, interamente costruito in un’enorme siheyuan a più cortili. E’ uno di quei ristoranti storici, con almeno due-tremila posti a sedere, aperto 24 ore al giorno, e sempre pieno (a orari pasti è normale dover fare la fila). Mangiamo un pasto lucculliano, ma il sig. Cheng, sebbene all’inizio si sforzi di parlare in mandarino, dopo un po’ cambia al sichuanese, e per quasi tutta la serata lui e la figlia parlano, con lei che racconta della sua vita a Pechino, il lavoro, il tempo libero, il cibo, l’aria, le persone, ecc. Percepisco un misto di appresione e nostalgia nella comunicazione del sig. Cheng. A fine cena Dandan mi suggerisce di pagare, e così faccio. C’è qualcosa che mi urta in questa cosa – il fatto che io sia rimasto fuori dalla conversazione per tutta la sera, e ora mi tocca pure pagare quando il sig. Cheng è un vice dirigente spesato dalla provincia. Ingoio il rospo abituato ormai a sospendere il giudizio in un Paese della cultura così diversa dalla mia: l’importante non è avere ragione o meno; sono disposto a subire un torto a tavolino pur di capire e imparare qualcosa. Da noi in Italia sono gli anziani a pagare, sia perché solitamete guadagnano di più, sia perché in Italia chi ha i risparmi sono loro, e i giovani soffrono da morire schiacciati da precariato, dal mutuo, dai costi in aumento di casa e benzina. In Italia una giovane coppia non pagherebbe mai la cena ai genitori. In Cina invece no: i giovani pagano, da un lato per rispetto culturale verso gli anziani – nella logica confuciana sono i figli a dover mantenere i genitori per riconoscenza di averli educati – e dall’altro per questioni economiche: in Cina sono i giovani ad avere i soldi. Scoprirò in seguito che lo stipendio da dirigente pubblico del sig. Cheng è non solo inferiore al mio, ma meno della metà di quello di Dandan. Questo è il frutto della crescita economica: per un cinese sarebbe assurdo pensare come me e aspettarsi di avere la cena pagata dal sig. Cheng. Ma c’è dell’altro – perché pago io e non Dandan? Sempre questione di faccia: io ho portato Dandan a Pechino nell’ottica si sposarla, io devo dimostrare di avere i mezzi e le virtù morali per poterle offrire una buona vita. E’ un’idea sessista, è vero, e la famiglia di Dandan, aperta fino ad accettare un fidanzato straniero che nemmeno parla bene cinese, non si lascia certo ingabbiare da simili formae mentis: è Dandan stessa a porci in posizione debole, in posizione da esaminandi, lasciando ai suoi genitori, semmai, a responsabilità di affracarci da tale condizione (cosa che accadrà già al secondo incontro, quando loro pagheranno la cena).
Fuori dal ristorante passeggiamo sotto le lanterne rosse della Guijie, discutendo dell’origine del carattere Gui (簋) e della forma del recipiente per preparazioni culinarie che rappresenta. Arriviamo a casa in breve tempo, mostrando al sig. Cheng quanto è tranquillo e sicuro il Min’an Xiaoqu e quanto è ordinata la mia – per la famiglia di Dandan ufficialmente ci vivo solo io, mentre lei abita nel residence della banca – casa, opportunamente pulita dall’ayi il pomeriggio stesso. Il sig. Cheng sembra soddisfatto, e non lesina complimenti incoraggianti per noi due. Ci sediamo al divano davanti a una tazza di té e chiacchieriamo ancora un po’, tirando tardi.
Un paio di settimane dopo anche la sig.ra Yuan viene a trovarci, approffittando di una commissione che suo cugino, che è anche il suo datore di lavoro, le ha affidato. Si ferma per un paio di giorni, dorme in albergo insieme a Dandan, per salvare e apparenze – non riesco a immaginare che i genitori non sappiano che nessuno normalmente dorme là, ma in Cina la faccia è importante – e poi anche lei esce a cena con noi, spesata da me, e visita l’appartamento, anche lei ci copre di complimenti su come teniamo bene la casa.
Un esame importante è passato, ora la famiglia di Dandan sa che qui lei conduce una vita sicura, ordinata, serena, e possono vivere con meno ansia la separazione. Ma come per me e i miei, anche per loro c’è il momento dell’addio.
Quando, a tarda notte, accompagniamo all’albergo il sig. Cheng, lo portiamo fino alla sua camera, quindi lui ci riaccompagna alla strada dove prendiamo un altro taxi. Sia lui che Dandan stanno prolungando il più possibile il loro stare assieme, e per due persone che solitamente vanno a dormire alle dieci di sera, stare alzati oltre mezzanotte è una gran dimostrazione di affetto. Mentre io salgo sul taxi, Dandan e il padre si abbracciano stretti, cosa che non ho mai visto fare a nessun cinese che conosco, specialmente in un luogo pubblico. Riesco a vedere, attraverso il vetro, nella luce rossa dei fari, gli occhi del sig. Cheng lucidi, e quando Dandan entra in macchina anche lei ha un groppo in gola. Il sig. Cheng rimane a guardarci e salutarci finché siamo troppo lontani per vederlo, poi si volta e cammina, a lungo, da solo e nel buio, prima di tornare alla sua camera in albergo.
Ho quasi una stretta al cuore mentre abbraccio Dandan e sento i suoi occhi bagnati, e penso che da un lato io la sto portando via ai suoi, e dall’altro, con la mia scelta di vivere qui, faccio del male ai miei, così lontani, all’altro lato del continente euroasiatico, soli e anziani. Ma non c’è una vera scelta, mi dico: la separazione, per quanto dolorosa, è necessaria alla crescita. Come potremmo diventare quello che vogliamo, con i genitori sempre a osservarci, giudicarci e correggerci sulla base di quello che loro vorrebbero che fossimo? Questi sono il prezzo e il frutto della libertà, il dolore della separazione affettiva, e le infinite possibilità che si aprono a noi una volta che non siamo più condizionati dagli antichi attaccamenti.
Mentre il nostro taxi sfreccia nella notte sul Secondo Anello, io e la mia Dandan pensiamo queste cose, e con i nostri genitori nel cuore, benediciamo la nostra scelta, il nostro futuro libero e insieme.
2 commenti:
è incredibile come in quella parte del mondo il ristorante di classe sia un luogo da milioni di coperti, possibilmente chiassosissimo, sicuramente pacchiano allo sfinire!
però un po' mi mancano le sedie coperte e l'unto in terra. mi mancano. il che significa che sono lontane. e questo è bene! :o)
ciau
dopo aver letto il tuo post ho sentito il bisogno di fare un giro di chiamate a tutti i miei amici e i miei genitori. da lontano mi mancano tantissimo, e mi sono anche scese due lacrimucce a pensare a mio papà in areoporto solo due mesi fa. ma come dici tu bisogna pur crescere!
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