2008-07-30

Contadini

Sono mesi che organizziamo la nostra gita a Datong, alle grotte dei Buddha e al monastero sospeso di Hengshan. Dev’essere la gita perfetta, tutto è calcolato. Il primo fine settimana dopo le vacanze di maggio, quando nessuno è in giro a fare il turista. Cerchiamo la calma, il silenzio, l’atmosfera originale dei luoghi. Ci procuramo descrizioni, guide, tabelle di treni e pullman. E poi, il giorno prima della partenza, ecco il contrattempo: il gruppo degli hutong ha l’ultimo incontro, quello fondamentale. Visto che comunque non abbiamo trovato nessuno per seguirci, e siamo solo io, Dandan e Viola, decidiamo di spostare la data al weekend successivo nella speranza di reclutare altri compagni di viaggio.

Ovviamente, contrattempo: due giorni prima della partenza, Viola scopre di avere il turno di notte in radio, il sabato sera. Visto che la domenica io e Dandan festeggiamo un anno insieme decidiamo comunque di partire, io e lei, ma con una meta meno impegnativa: Chengde, la città estiva degli imperatori Qing. Siamo pronti, abbiamo già il biglietto, treno prima classe con cabina letto per la mattina di sabato, arrivo prima di mezzogiorno nell’amena valle di Chengde. Ritorno previsto domenica notte, o lunedì mattina.

Ed ecco ancora il destino infausto abbattersi su di noi: il venerdì sera, alle otto, il capo di Dandan chiama e convoca tutti gli impiegati per domenica mattina alle dieci, perché la settimana dopo parte per New York e deve affidare a tutti qualcosa da fare. Dandan non fiata, come si conviene nelle aziende cinesi gerarchizzate, ma non vuole rinunciare al viaggio, e costringerci un altro fine settimana nella città. “Prendiamo l’ultimo treno stanotte, e torniamo domani sera con l’ultimo”. L’idea mi piace, raramente trovo la mia lei in una vena così avventurosa.

Zaino in spalla, si corre in stazione, la stazione di Pechino con il suo profilo squisitamente maoista. Scavalchiamo i contadini che dormono per terra, lerci e coperti dei loro stracci, appoggiati alle loro valigie che somigliano più a enormi sacchi deformi, e veniamo assaliti da orde di bagarini che ci offrono tutte le destinazioni possibili: tutte, s’intende, tranne Chengde. Quando pronunciamo la parola, curiosamente, quelli si girano e se ne vanno senza batter ciglio. Il che dovrebbe far suonare un campanello d’allarme, ma quando si è in vena avventurosa generalmente i campanelli d’allarme li si ignora con una risata. Cambiamo il biglietto regolarmente allo sportello, non ci sono più letti né sedili disponibili, nemmeno quelli duri, ma noi contiamo di trovarne di vuoti, o al più di sistemarci un un angolo tranquillo e sonnecchiare a turno. Siamo positivi, sentiamo che insieme possiamo affrontare qualunque problema. Ci rechiamo ai binari.

Ore 23.30, buio. Il treno è fermo sulla banchina. Non si tratta, come avevamo pensato, del treno Pechino-Chengde, ma dell’infamissimo convoglio Shijiazhuang-Chengde, che fa una breve tappa a Pechino. Incediamo cautamente, con il timore che si prova quando si entra in un luogo nuovo, sconosciuto e che potrebbe celare un pericolo nascosto.

Ne ho presi tanti di treni in Cina, ma non ne avevo mai visto uno come questo. Nella luce fioca e grigia dei neon, si vedono a perdita d’occhio solo famiglie di contadini, uomini e donne, vecchi e bambini, tutti lerci e neri, tutti senza scarpe, tutti con i loro sacchi che Dio sa cosa contengono. La maggior parte dorme in posizioni improponibili, tanto che a vederli paiono cadaveri, con la schiena arcuata e una gamba sollevata sulla valigia, un braccio che cade a terra. Ma forse non è la posizione, che fa pensare a un luogo di morte, quanto l’odore. Se siete entrati in un pollaio di quelli vecchi, agusti, umidi, senza finestre e con una porta minuscola, dove le galline si nutrono dei rifiuti del pasto familiare e dormono tutte le une sulle altre, forse potete farvi un’idea di quell’odore, altrimenti vi garantisco di no. Era come se quelle persone avessero mangiato, dormito, sudato, sputato, fumato per un mese, in cinquecento tutti sullo stesso vagone, senza mai aprire il finestrino. Solo che tutti i finestrini erano aperti.

Quelli che non dormono per lo più fumano, e guardano me e Dandan senza espressione, come se fossimo fantasmi. Abbiamo mille occhi addosso. In molti, come noi, salgono a questa stazione e cercano un posto.

“E’ libero?”

“No”

E’ l’unico scambio di battute che si sente. E il no non contiene mai simpatia, solo ostilità, un’ostilità territoriale di chi lotta per la sopravvivenza e per questo perde ogni compassione per il prossimo. L’unico sorriso ci viene da uno che sta in fila dietro di noi, e ha capito che per stanotte si starà tutti e tre in piedi.

Camminiamo per cinque vagoni, spintonati costantemente davanti e dietro, scavalcando i sacchi che bloccano il passaggio, e a volte vecchi che, non avendo trovato un sedile, si sono addormentati sul pavimento, per metà coperti dai sedili. I cessi mandano un odore che, persino comparato al resto del treno, è nauseabondo. Tra un vagone e l’altro la gente si accalca comunque, seduta per terra, e gioca a carte, fuma, oppure mangia. In fondo all’ultimo vagone che vediamo, appena prima della porta del vagone merci, ci sono due uomini sui quarant’anni che, accovacciati alla cinese, stanno spolpando un pollo, e gettano le ossa masticate a un metro di distanza, esattamente davanti alla porta d’accesso.

Guardo Dandan e immagino il nostro viaggio in questo treno da incubo, l’arrivo a Chengde alle 4.30 del mattino, la giornata passata a camminare, e poi il ritorno la notte successiva, magari su un treno identico. Anche lei mi guarda, ci capiamo.

“Scendiamo”

Seduti su un carrello bagagli, vediamo il treno partire, carico della sua umanità così diversa da noi, e lo salutiamo. Un uomo corre dietro al treno; probabilmente si era allontanato un attimo e ha calcolato male i tempi della partenza. Si ferma alla fine della banchina, sbraitando. Noi ce ne andiamo, zaino in spalla, verso l’unico spazio verde che vedremo questa notte: il parco di Ritan. Dove, allo Stone Boat Bar, con una qingdao in mano ci godiamo un concerto di musicisti tibetani, circondati da cinesi alla moda e stranieri, per lo più italiani che lavorano nel mondo dell’arte e delle PR. Mi viene da ridere a riflettere sul fatto che tanto spesso lodiamo le culture semplici e tradizionali, ma quando poi ci troviamo in mezzo ad esse, proviamo un sincero e completo disgusto per esse, sia per la mancanza d’igiene che per l’ignoranza, per la chiusura mentale, la trascuratezza. Che ipocrisia, la nostra.

Ma c’è un altro pensiero, che mi gira nella mente, qualcosa che sapevo ma solo ora comincio a capire, ed è la divisione netta che c’è tra gli abitanti delle città e delle campagne. La Cina è una civiltà agricola da sempre, dove il contadino è stato lodato come la base della società: ma oggi la Cina è divisa in due. Quella dei cittadini, la Cina che cresce, si arricchisce, che recupera il passato e la tradizione negate dal comunismo, quella che guarda oltre i confini nazionali con curiosità. E quella dei contadini, centinaia di milioni di facce nere, tutte uguali, tutte polverose e povere, che non crescono, si arricchiscono ma a un ritmo cento volte inferiore ai cittadini, che non sanno nemmeno di avere un passato salvo quello che il Partito ha descritto loro, che credono ancora che fuori dalla Cina ci vivono solo i barbari in regioni remote ai confini del Mondo. Sono due Cine che non provano simpatia reciproca, e che convivono solo grazie al fatto che il Partito nasconde all’una la vista dell’altra, e senza incontrarsi e scontrarsi mai direttamente si ignorano finché possono.

La Cina cui io appartengo, quella che amo, è la Cina cittadina, di cui drammaticamente condivido molti valori e opinioni. Non sento di avere nulla a che vedere con le campagne, e nonostante le origini dei miei antenati siano nelle campagne lombarde, i contadini cinesi mi fanno schifo, li trovo lerci, ottusi ed egoisti. So di averne bisogno, perché mangio quello che loro allevano e coltivano ogni giorno, ma la mia simpatia finisce qui, in un freddo rapporto di simbiosi che ripago con il mio lavoro quotidiano. Queste mie opinioni, essendo condivise da quattrocento milioni di cittadini cinesi, mi fanno non poca paura. Che cosa stanno pensando di noi, i novecento milioni di contadini là fuori?

2008-07-23

Il Vento

“Sotto il cielo di Dublino, Cairo, Bogotà e Pechino

C’è già il motivo per vivere.”

Il Cielo è vuoto o il cielo è pieno, da “Buon compleanno, Elvis!”, Ligabue (1995)


Dei cieli e del vento di Pechino hanno cantato in tanti, ma non si possono immaginare se non si sono visti. Ci sono giorni in cui il cielo è di un blu tanto intenso che sconvolge, non c’è una nuvola, non c’è un accenno di foschia, è come avere un enorme vuoto sopra la testa, e se lo si guarda a lungo sembra quasi di scivolarci, caderci dentro, in questo vuoto celeste e infinito.

Sono i giorni in cui fischia il vento del Nord, un vento gelido che sferza la terra senza pietà, che piega gli alberi, soffia via gli ombrelli, straccia le tende delle finestre, copre ogni suono con il suo ululato furioso, una forza della natura che non si cura degli uomini e delle loro meschine vicende. Ma è un vento che, se lo sai apprezzare, ti sa accarezza, in un suo modo rude ma cordiale, ti protegge dalla calura del sole troppo forte, troppo luminoso, rinfresca la tua pelle, riempie i tuoi abiti e gioca con i tuoi capelli.

La gente che non lo capisce, troppa gente, si rifugia nella case, mortificata da quella tramontana tartara che, prendendosi gioco dei pavidi, picchia alle loro finestre e sbatte le porte, ridendosela di chi crede di sfuggire alla steppa barricandosi in un grattacielo di ventro e cemento.

Io invece rimango nella strada, abbraccio il mio Vento che, con una carezza affettuosa e irruente, mi sposta di un passo, ascolto il suo sussurro e il suo canto, me lo godo lasciando che trascini almeno il mio spirito verso l’alto, verso quel cielo infinito e blu che sta sopra di me, elevandomi verso luoghi nuovi, meno piccoli, meno prigionieri di mille sciocchezze così terrene.

Sono le giornate di Vento, quelle in cui il cielo è blu come un drappo di seta srotolato sopra la città, che mi ricordo del perchè il mio corpo, il mio cuore, la mia pelle amano Pechino. Le parole non bastano a descrivere la profonda fisicità di queste sensazioni.

Ma io qui mi sento libero, come in nessun altra terra di sono ancora sentito.


“Sono il Vento, sono libero... come il Vento”

Il Vento, da “Pirata”, Litfiba (1989)

2008-07-21

Lontani da casa

Da quando Dandan si è trasferita a Pechino la sua camera a Chengdu è vuota, e vuoto è quello che sentono i suoi genitori. Chengdu non è nemmeno dietro l’angolo abbastanza da visitare spessissimo, e quindi, sebbene figlia e genitori si parlino tutti i giorni al telefono, c’è una gran voglia di stare fisicamente assieme.

Il sig. Cheng è relativamente fortunato – lavorando al dipartimento provinciale dello sport ed essendo uno dei responsabili del passaggio della torcia olimpica in Sichuan, ha occasione di venire a Pechino relativamente spesso per vari meeting. Di solito viene alloggiato in un piccolo hotel dietro Chang’an Jie, di proprietà della provincia del Sichuan: siccome non è esperto di Pechino, la sera lo andiamo a prendere in taxi, e lo portiamo a cena o a visitare qualche angolo di Pechino. La prima volta è per me ardua: sono conscio che in parte siamo sotto esame. Portiamo il sig. Cheng nella Guijie, allo Huajia Yiyuan (花家怡园), ristorante di cucina cinese contemporanea di bella presenza, interamente costruito in un’enorme siheyuan a più cortili. E’ uno di quei ristoranti storici, con almeno due-tremila posti a sedere, aperto 24 ore al giorno, e sempre pieno (a orari pasti è normale dover fare la fila). Mangiamo un pasto lucculliano, ma il sig. Cheng, sebbene all’inizio si sforzi di parlare in mandarino, dopo un po’ cambia al sichuanese, e per quasi tutta la serata lui e la figlia parlano, con lei che racconta della sua vita a Pechino, il lavoro, il tempo libero, il cibo, l’aria, le persone, ecc. Percepisco un misto di appresione e nostalgia nella comunicazione del sig. Cheng. A fine cena Dandan mi suggerisce di pagare, e così faccio. C’è qualcosa che mi urta in questa cosa – il fatto che io sia rimasto fuori dalla conversazione per tutta la sera, e ora mi tocca pure pagare quando il sig. Cheng è un vice dirigente spesato dalla provincia. Ingoio il rospo abituato ormai a sospendere il giudizio in un Paese della cultura così diversa dalla mia: l’importante non è avere ragione o meno; sono disposto a subire un torto a tavolino pur di capire e imparare qualcosa. Da noi in Italia sono gli anziani a pagare, sia perché solitamete guadagnano di più, sia perché in Italia chi ha i risparmi sono loro, e i giovani soffrono da morire schiacciati da precariato, dal mutuo, dai costi in aumento di casa e benzina. In Italia una giovane coppia non pagherebbe mai la cena ai genitori. In Cina invece no: i giovani pagano, da un lato per rispetto culturale verso gli anziani – nella logica confuciana sono i figli a dover mantenere i genitori per riconoscenza di averli educati – e dall’altro per questioni economiche: in Cina sono i giovani ad avere i soldi. Scoprirò in seguito che lo stipendio da dirigente pubblico del sig. Cheng è non solo inferiore al mio, ma meno della metà di quello di Dandan. Questo è il frutto della crescita economica: per un cinese sarebbe assurdo pensare come me e aspettarsi di avere la cena pagata dal sig. Cheng. Ma c’è dell’altro – perché pago io e non Dandan? Sempre questione di faccia: io ho portato Dandan a Pechino nell’ottica si sposarla, io devo dimostrare di avere i mezzi e le virtù morali per poterle offrire una buona vita. E’ un’idea sessista, è vero, e la famiglia di Dandan, aperta fino ad accettare un fidanzato straniero che nemmeno parla bene cinese, non si lascia certo ingabbiare da simili formae mentis: è Dandan stessa a porci in posizione debole, in posizione da esaminandi, lasciando ai suoi genitori, semmai, a responsabilità di affracarci da tale condizione (cosa che accadrà già al secondo incontro, quando loro pagheranno la cena).

Fuori dal ristorante passeggiamo sotto le lanterne rosse della Guijie, discutendo dell’origine del carattere Gui (簋) e della forma del recipiente per preparazioni culinarie che rappresenta. Arriviamo a casa in breve tempo, mostrando al sig. Cheng quanto è tranquillo e sicuro il Min’an Xiaoqu e quanto è ordinata la mia – per la famiglia di Dandan ufficialmente ci vivo solo io, mentre lei abita nel residence della banca – casa, opportunamente pulita dall’ayi il pomeriggio stesso. Il sig. Cheng sembra soddisfatto, e non lesina complimenti incoraggianti per noi due. Ci sediamo al divano davanti a una tazza di té e chiacchieriamo ancora un po’, tirando tardi.

Un paio di settimane dopo anche la sig.ra Yuan viene a trovarci, approffittando di una commissione che suo cugino, che è anche il suo datore di lavoro, le ha affidato. Si ferma per un paio di giorni, dorme in albergo insieme a Dandan, per salvare e apparenze – non riesco a immaginare che i genitori non sappiano che nessuno normalmente dorme là, ma in Cina la faccia è importante – e poi anche lei esce a cena con noi, spesata da me, e visita l’appartamento, anche lei ci copre di complimenti su come teniamo bene la casa.

Un esame importante è passato, ora la famiglia di Dandan sa che qui lei conduce una vita sicura, ordinata, serena, e possono vivere con meno ansia la separazione. Ma come per me e i miei, anche per loro c’è il momento dell’addio.

Quando, a tarda notte, accompagniamo all’albergo il sig. Cheng, lo portiamo fino alla sua camera, quindi lui ci riaccompagna alla strada dove prendiamo un altro taxi. Sia lui che Dandan stanno prolungando il più possibile il loro stare assieme, e per due persone che solitamente vanno a dormire alle dieci di sera, stare alzati oltre mezzanotte è una gran dimostrazione di affetto. Mentre io salgo sul taxi, Dandan e il padre si abbracciano stretti, cosa che non ho mai visto fare a nessun cinese che conosco, specialmente in un luogo pubblico. Riesco a vedere, attraverso il vetro, nella luce rossa dei fari, gli occhi del sig. Cheng lucidi, e quando Dandan entra in macchina anche lei ha un groppo in gola. Il sig. Cheng rimane a guardarci e salutarci finché siamo troppo lontani per vederlo, poi si volta e cammina, a lungo, da solo e nel buio, prima di tornare alla sua camera in albergo.

Ho quasi una stretta al cuore mentre abbraccio Dandan e sento i suoi occhi bagnati, e penso che da un lato io la sto portando via ai suoi, e dall’altro, con la mia scelta di vivere qui, faccio del male ai miei, così lontani, all’altro lato del continente euroasiatico, soli e anziani. Ma non c’è una vera scelta, mi dico: la separazione, per quanto dolorosa, è necessaria alla crescita. Come potremmo diventare quello che vogliamo, con i genitori sempre a osservarci, giudicarci e correggerci sulla base di quello che loro vorrebbero che fossimo? Questi sono il prezzo e il frutto della libertà, il dolore della separazione affettiva, e le infinite possibilità che si aprono a noi una volta che non siamo più condizionati dagli antichi attaccamenti.


Mentre il nostro taxi sfreccia nella notte sul Secondo Anello, io e la mia Dandan pensiamo queste cose, e con i nostri genitori nel cuore, benediciamo la nostra scelta, il nostro futuro libero e insieme.


2008-07-16

Illegalità al Midi

“Give up, just quit, because in this life, you can't win. Yeah, you can try, but in the end you're just gonna lose, big time, because the world is run by the Man. The Man, oh, you don't know the Man. He's everywhere. In the White House... down the hall... Ms. Mullins, she's the Man. And the Man ruined the ozone, he's burning down the Amazon, and he kidnapped Shamu and put her in a chlorine tank! And there used to be a way to stick it to the Man. It was called rock 'n roll, but guess what, oh no, the Man ruined that, too, with a little thing called MTV! So don't waste your time trying to make anything cool or pure or awesome 'cause the Man is just gonna call you a fat washed up loser and crush your soul. So do yourselves a favor and just GIVE UP!”

Dewey Finn, School of Rock


Una cosa bella dei primi festival di Pechino è che non c’era una vera e propria “sicurezza”: ognuno era libero di autogestirsi, e aveva il buonsenso di farlo. Ma da questo Midi no, e infatti all’entrata, già al primo giorno, vengo bloccato dal metal detector che attacca a ululare appena si avvicina il mio zaino. Avete presente i cassoni antidiluviani a raggi X, con nastro trasportatore scassatissimo, che in Cina trovate non solo negli aeroporti ma anche nelle stazioni del treno? Ecco, ne hanno sistemati due all’entrata del parco di Haidian. Ovvio che, al controllo, dentro lo zaino mi trovano l’impossibile: latte di birra, boccia di vino, cavatappi. Io d’altra parte sono attrezzato da picnic, come altro prepararsi a un festival?

Segue quella spettacolare abitudine cinese della negoziazione. In Italia abbandoni le tue cose o ti lasciano fuori. In Cina invece dialoghi. Alla fine io e la security ci accordiamo: lascio le latte di birra ma tengo il vino, che sarebbe una perdita economica consistente (del resto che ne sanno che costa poche decine di kuai?) e il cavatappi, ma prometto di riportare a casa la bottiglia vuota e non gettarla a casa nel parco (cosa che ovviamente farò).

La bottiglia ce la godiamo ben bene, va detto, nonostante gli americani e il danese ci guardino come dei paesani mentre loro sorseggiano la loro birra. Il vino alla fin fine spacca, è molto più stiloso e latino, infinitamente meno commerciale della birra, e quindi più rock.

Il giorno seguente arrivo solo al Festival, perché Vicky è al lavoro. Visto che non intendo rischiare la requisizione della mia seconda bottiglia, mi decido che l’unica soluzione coerente con lo spirito rock del Festival sia quella di entrare di sfroso. Segue quindi una ricognizione dell’area del festival, tutta circondata da un muro di placche di metallo blu tenute assieme da fil di ferro e qualche bullone. Faccio presto amicizia con un’infinità di cinesi che, per vari motivi, hanno deciso di scavalcare come me, e sono tanti. Purtroppo il muro non è facilmente scavalcabile se non in alcuni punti, ma questi punti tendono ad essere pieni di guardie, che saranno pure diciassettenni ma sono tante, e comunque l’idea di farmi beccare a scavalcare non mi attrae, specie per la figura che farei da straniero. Passi lo studente cinese squattrinato, ma il ricco laowai... e vai a spiegare che lo faccio solo per coerenza, e che se me lo permettessero pagherei anche un biglietto a parte per la boccia di vino...

Sta di fatto che le tentiamo tutte, io da solo, altri cinesi da soli, o a volte in gruppo, cooperando. Si prova a saltare. Si spostano panchine o pietre. Ci si fa la scaletta. Si snoda il fil di ferro. Si tenta di attraversare stagni e ruscelli. C’è chi si espone, c’è chi fa il palo, c’è chi va avanti a spiare, in un fantastico spirito di cooperazione all’illegalità. Siamo tutti fratelli nel cercare di scavallare senza biglietto in nome degli dèi del rock. Purtroppo quel giorno gli dèi del rock evidentemente guardano da un’altra parte, perché dopo due ore di vani tentativi non combino nulla, e ho l’impressione di non essere l’unico. Mi consolo pensando a quanto comunque mi sto divertendo nel tentare.

Maca poco al tramonto e Dandan, finalmente in arrivo dall’ufficio, mi trova stanco e sudato all’entrata. Vorrebbe tirarmi su di morale raccontandomi di aver acquistato, su un ponte pedonale e per un prezzo bassissimo, dei pass di Greenpeace che ci permettono di entrare senza prendere il biglietto ma, come cinicamente prevedevo, veniamo rimbalzati, e l’omino che ha venduto i pass, nonostante avesse promesso a Dandan di ridarle i soldi in caso di insuccesso, ovviamente si è volatilizzato. Oggi apparentemente non è proprio karma.

Rimane una sola possibilità – suona male, ma decido di infilarmi la bottiglia nel culo. Lasciatemi la possibilità di elaborare sul barbatrucco: la bottiglia di vino è provvista di una parte sottile, la canna, che va a infilarsi perfettamente nella piega tra le natiche e i jeans. Tenendo quindi il resto della bottiglia al contrario, la parte larga appoggiata alla schiena, se indossate una maglietta lunga e larga e tenete la pancia in fuori, la bottiglia sarà pressoché invisibile e, essendo di vetro, non sarà nemmeno individuabile dal metal detector. Tac, zaino nel cassone a raggi X ed ecco che io, un po’ legnoso ma con la faccia di bronzo, passo il metal detector e giro il primo angolo. Ringrazio i numi benevoli incrociando le braccia ed estendendo indici, mignoli e pollici al cielo.

E’ così che ci godiamo anche l’ultimo giorno del Midi, mescendo anche ad amici australiani e francesi, gente che la cultura del vino la capisce. Inneggio allo spirito della roccia e del metallo, conscio che oggi la vittoria morale è la nostra, in barba alla noiosa sicurezza imposta dall’autorità.

“Stick it to the Man!” avrebbe detto Jack Black.

“Well, Jables, today we definitely did it!” risponderei io.

Al vino e alla musica, e viva la libertà che rappresentano!

2008-07-04

Il Midi Festival

A Pechino, ormai da diversi anni, esiste una scuola di musica moderna, la Midi (北京迷笛音乐学校), allo scopo di promuovere e insegnare la musica non tradizionale (e peste lo colga a chi la definisce “occidentale”). Come tutti gli artisti, e specialmente quelli iconoclasti, i ragazzi del Midi sono degli innovatori e, nel 1997, hanno deciso di inventarsi un festival della musica a Pechino, nel cortile della scuola. Organizzato in pochi giorni, più che altro tra gli studenti e i loro amici, con esibizioni a rotazione di bands rock, punk, metal, tutto rigorosamente cinese, ha riscosso tanto di quel successo che, nel 2006, la decima edizione, è stata tenuta nel parco di Haidian (in una zona di periferia cinesissima, lontana anni luce dal ghetto laowai di Chaoyang), e ha accolto decine di migliaia di giovani, per lo più cinesi (anche stranieri, ma una minoranza), con 50 band di cui 18 straniere che si sono esibite su quattro palchi per tre giorni di autentico delirio, con gente che bivaccava ovunque. Per capire il Midi, bisogna capire che il rock in Cina è arrivato solo a metà degli anni ’80, ed è ancora nuovo, è ancora ribelle, non è stato ancora stuprato e prostituito da MTV e dalle major (ma senz’altro lo sarà a breve). E’ un periodo d’oro in cui chi suona non guadagna nulla, ma lo fa col cuore.

Va da sé che io decida di andare all’edizione 2007, e con Dandan ci piazziamo su un taxi che, dopo essersi perso nei dintorni del Palazzo d’Estate prima e della Metro (non la metropolitana, proprio il cash & carry tedesco) poi, finalmente imbrocca la via e ci scarica all’entrata del parco. Dentro, puro delirio – ci sono i personaggi più strani, dal punk con cresta di venti centimetri e giubbotto di cuoio con la A di anarchia, ai dark, agli emo stile giapponese, ai semplici rocchettari indipendenti, c’è di tutto e di più, in un mare di coperte e tende, bancarelle, chioschi della birra coi bicchieri di plastica, e via così. Atmosfera di libertà, piuttosto rara in Cina. Poca, pochissima vigilanza o polizia, eppure niente atteggiamenti pericolosi.

Al mercato delle pulci io e Dandan ci procuriamo due anelli tibetani col mantra “Om mani padme hung”, uno dei simboli pop degli alternativi in questo Paese, reperibili in qualunque bancarella hippie cinese. Stendiamo la coperta e attacchiamo bottone con degli studenti stranieri del Midi, Edvard, un metro e novanta, capello rosso, pelle mozzarella e accento scandinavo, e una coppia di americani, lui capello emo e cappellino da baseball, lei trascurabilissima. Rimaniamo a chiacchierare a lungo, scartando abbastanza presto i due americani – la banalità fatta coppia – e rimanendo a raccontarcela con Edvard, che da buon vichingo suda copiosamente sotto il sole impietoso della steppa.

Musicalmente, c’è un po’ di tutto, dai musicisti bravi fino alle tapparelle rotte; ci sono quelli fissi che suonano e se ne vanno e ci sono gli animali da palco che urlano, si rotolano per terra, tirano in mezzo il pubblico; ci sono i newbie mai sentiti e ci sono i mostri sacri tipo Cui Jian, il padrino del rock cinese (il primo rocchettaro della Cina ormai ultraquarantenne, uno che per dire ha suonato in Tian’anmen davanti a decine di migliaia di studenti in quei giorni famosi di giugno di tanto tempo fa e per questo non ha più pubblicato album per una decina d’anni). Tra i gruppi cinesi Pechino domina come capitale anche del rock, ma Chengdu fa la sua parte, e tanti ragazzi non sono han, ma di minoranze xinjianesi o yunnanesi, tutti insieme appassionatamente per il festival nazionale più importante; tra gli stranieri c’è un po’ di tutto, per essere realisti diciamo che non c’è un cazzo di budget (del resto il Midi Festival è per gli studenti e gli artisti squattrinati, il biglietto sono 150 kuai per tutti i tre giorni), per essere gentili diciamo che il rock cinese, o meglio lo yaogun (摇滚), che comprende tutta la musica alternativa, è alla ricerca e sperimentazione delle basi per creare il proprio stile, sta di fatto che le band più famose sono i tedeschi Liquido e i Soundtrack of Our Lives, ma gran parte degli altri sono band scandinave o americane goth metal, power metal, black metal tipo Hatesphere o Cruxshadows, e checché ne dica Edvard, secondo me succhiano alla grande. Ma il bello del Midi non è tanto la musica (tra l’altro l’acustica fa schifo perché le casse dei quattro palchi sono tutte voltate verso lo stesso punto medio, quindi i suoni tendono a sovrapporsi), ma è lo spirito. E’ il ritrovo degli alternativi cinesi – e non ce ne sono ancora abbastanza di alternativi in questo Paese – dove si dà via libera alla creatività e la polizia la si lascia fuori, senza per questo sbroccare. C’è un clima di festa, di vacanza, di picnic, vedi i cinesi liberi come si comportano i ragazzi di ogni altro Paese, senza gli atteggiamenti forzati che noti in altre situazioni, eccessivamente cauti o eccessivamente nervosi e aggressivi. C’è relax, c’è buona energia. Niente grandi band o nomi famosi, niente marketing, solo musica e divertimento.

Bello questo Midi Festival.