2007-11-29

I was doin’ time in the universal mind


Era tanto che cercavo un locale a Pechino di quelli che piacciono a me, lurido, grezzo e rocchettaro. Un bel giorno lo trovo, tramite suggerimento di un amico: si chiama Jiangjinjiu (疆进酒), un bar gestito da dei xinjianesi che prende il nome da un verso di una celebre poesia: alla fine del lungo viaggio verso il Xinjiang (新疆), la “Nuova Frontiera”, era tradizione bere un sorso di vino per celebrare la fine dell’impresa. Per l’appunto: 疆进酒.

Il bar è stato aperto nella piazza tra le Torri del Tamburo e della Campana, nella città vecchia, un luogo certo spettacolare. Il locale in sé è minuscolo, perennemente pieno, con tavolini e sgabelli spaiati uno attaccato all’altro, e un piccolo palco su cui, venerdì sabato e domenica, suonano musicisti d’ogni tipo, dai rocchettari ai punk, dai xinjianesi ai mongoli, dai chitarristi da flamenco a quelli da musica gitana. Come nella miglior tradizione, quando il gruppo ha terminato, chi vuole può continuare – c’è chi si è portato il tamburo, chi impugna il microfono, chi semplicemente batte l’anello sulla bottiglia di Qingdao. Al piano di sopra, alla fine di una scala ripida, c’è uno stanzino con tre divani circondati da cuscini, per l’afterparty. Un bancone sulla destra, e il cesso è quello pubblico di fuori, a una cinquantina di metri che d’inverno diventano mafan ma in fondo anche veramente caratteristici per un posto così.

La serata di gran lunga più indimenticabile al Jiangjinjiu capita con lo spettacolo di poesia organizzato dai quei fulminati dei Subterranean Poets. Ci sono tutti, il buon Federico con un cappello da gangster, il vecchio Ben con la sua fidanzata Sheila, c’è Zhou con i suoi occhiali dalla montatura pesante e la sua polo rossa da nerd, e Deep Sleep, il vate di pechino, vestito come lo sarebbe Jim Morrison se fosse nato cinese: lunga camicia di cotone blue troppo grande, con draghi bianchi disegnati ai lati, pantaloni neri attillati tipo Toreador, stivali di cuoio e sciarpa di seta nera drappeggiata attorno alle spalle. Lo spettacolo viene bene, al termine c’è una band di ragazzi dello Yunnan che suona unplugged e poi, quando la gente comincia a defluire, finalmente lo zoccolo duro comincia a darsi da fare. Va detto che a quell’ora siamo già quasi tutti alticci. Ben si impadronisce del bongo, e dimostra subito di padroneggiarlo bene. Uno dei ragazzi dello Yunnan jamma con la chitarra acustica. Zhou e Deep Sleep vocalizzano al microfono, poi Zhou tenta un maldestro approccio al tamburo. La gente batte le mani, Deep Sleep mi invita e io, credo in preda a mio animale guida, indosso una delle corde di perline di legno, caduta da una finestra, e la indosso al collo a mo’ di rosario buddhista, dandoci di vocalizzo con il vate che nemmeno in un monastero buddhista l’Om suona così intensa. L’atmosfera cresce. Zhou si alza e prende il microfono, io il tamburo e, schiena alla colonna, comincio a battere con le dita sul cuoio, mentre Ben passa il suo strumento a una ragazza del Suriname appena conosciuta, che si siede accanto a me. Non sono sicuro di quello che faccio, ma probabilmente il mio ritmo suona lo stesso di “In a Gadda da Vida” degli Iron Butterfly. La ragazza sorride, e mi segue. Il ragazzo xinjianese comincia con le variazioni sul tema e qualche assolo per rompere la monotonia, ed ecco che Zhou si fa possedere dagli déi del rock e dalla sua bocca esce il loro soffio.

“Beijing... “ sussurra con una voce che non è la sua, e sembra provenire dall’Inferno dei musicisti blues. La gente rimasta applaude o batte le bottiglie di birra sui tavoli. Zhou comincia un monologo da animale da palco, con la gente che urla risposte, chiede cos’è Pechino, chi sono i Pechinesi, chi sono i cinesi. Che cosa vogliono i cinesi. Zhou urla che vuole rispetto, e che vuole dire quello che vuole, e che vuole una donna per sé, perché non ce ne sono abbastanza per tutti. Chiede chi è che decide cosa sono i cinesi, e su questa domanda politicamente scorretta il pubblico esulta. Zhou segue l’onda, anche se si lascia trasportare dalla sua intellettualità, e si lancia in un’esecrazione dell’università e dell’educazione. Chi decide cosa è vero e cosa non lo è? Chi decide cosa va studiato e cosa no, cos’è la cultura?

“Fuck Aristotle!” grida Zhou “Fuck Confucius too!”

In quel momento lo adoro. Metà del pubblico è perplessa, ma dà fiducia al suo fuck e lo acclama. La voce di Zhou sale di tono, diventando confusa, roca e sempre più simile a quella di Kurt Cobain. Non c’è più dubbio, è il sacerdote e il dio della nostra cerimonia. Le mie dita battono sul cuoio del tamburo con una foga incosciente, in un crescendo mistico, le note della chitarra sempre più isteriche sgorgano dalle dita sottili del xinjianese, che non capisce una parola di inglese ma interpreta perfettamente il mood.

Zhou raggiunge il climax mandando affanculo tutti, ma proprio tutti senza risparmiare nessuno, né in cielo né in terra, né i vivo né i morti. La Rivoluzione vive tra noi, quella forza la cui essenza è il cambiamento tramite la distruzione del vecchio. Il pubblico è ipnotizzato.

“Fuck! Fuck! Fuck you!” urla lo sciamano prima di abbandonare il microfono. La musica si affievolisce. Deep Sleep prende lo scettro offertogli come un chierichetto, sorridente ma ovviamente offeso per essere stato escluso dal rito. La gente comincia a scuotersi dalla trance.

Niente più musica per stasera: abbandoniamo gli strumenti, e indossiamo le giacche a vento, con strette di mano e pacche sulla spalla sia tra amici che tra sconosciuti. Stasera s’è fatto rock, di quello vero, puro e duro. Ecco, questo era il posto che cercavo. Era anche ora che lo trovassi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Vorrei esserci stata.
Kià