2007-08-28

Oltre il Sesto Anello

Il centro geografico di Pechino è la Città Proibita. Attorno alla città proibita, lungo il perimetro delle antiche mura quadrate, negli anni ’60 è stato costruito il Secondo Anello, che gira tutto attorno alla città. Dopo il Secondo, il Terzo Anello è venuto in fretta, in forma semiquadrata, per contenere l’espansione della città. Poi il Quarto, ormai quasi un cerchio attorno all’area urbana. Il Quinto Anello è una meraviglia che in pochi hanno visto. Il Sesto Anello, al momento in costruzione, è quasi una leggenda lunga centinaia di chilometri attorno alla capitale della Cina.

Una delle fabbriche del partner cinese dell’azienda per cui lavoro sta nel Distretto di Tongzhou, a sudest del centro di Pechino, in una zona di sviluppo industriale, appena oltre il Quinto Anello. Siccome è lontano e temo il traffico, per arrivarci una sera e controllare l’arrivo della merce dalla fabbrica centrale di Nanchino, prendo la Metropolitana. La stazione più orientale della linea 1, il capolinea, non ha nemmeno un nome: Sihui Dong, “la stazione che sta ad Est di quella di Sihui”. Per quel che ne so, all’uscita potrei trovare una distesa bianca infinita con scritto “Terra Incognita” in caratteri cubitali, oppure un deserto popolato da draghi e leoni. L’unica mia aspettativa è che, come ogni capolinea di metropolitana nel mondo, offra mezzi alternativi per proseguire la corsa.

All’arrivo seguo la folla che mi incanala su per delle scale, quindi giù per altre scale più strette, quasi scale di un condominio, poi in un corridoio con negozietti e una canzone di Norah Jones in sottofondo, poi in un cortile, quindi mi trovo in una stradina larga non più di due metri, fiancheggiata da bottegucce da quattro soldi, e una fila di tricicli elettrici modello apecar. “Halooo?” ride uno dei proprietari facendomi segno di sedermi. No, non è il mezzo che mi ero immaginato. Cerchiamo un taxi.

Per venti minuti vago a caso in una periferia fatta di palazzi a quindici piani tutti uguali, vie strette e piene di gente, carretti che vendono roba da mangiare, folla, e soprattutto buio, illuminato da lampade, da insegne, da finestre accese, ma mai da un lampione o una luce stradale. E’ passata quasi mezz’ora, è buio, non ci sono taxi, non ci sono nemmeno strade se è per questo. Cerchiamo di tornare alla stazione della metro.

Con relativa sorpresa scopro di aver sbagliato uscita: dal mio lato della stazione c’era un quartiere residenziale con strade a malapena carrabili, dall’altra parte c’è una strada a dodici corsie. Prendiamo un taxi, il mezzo di trasporto di gran lunga più flessibile e affidabile in Cina. Il tassista non pare granché sveglio, ma la fretta mi è fatale e non lo cambio. Discute con i colleghi circa la mia meta, poi parte.

“OK?” chiedo. Lui rimane impassibile.

“Hai capito dove voglio andare? Hai idea di come arrivarci?” Silenzio, guida lentamente in avanti, come concentrato. “OK?” insisto.

“Devo fare inversione a U” risponde, come affranto da un problema schiacciante.

In una strada a dodici corsie, fare inversione a U non è semplice. Il mio tassista ci mette tre chilometri prima di trovare il luogo adatto. Quindici minuti dopo siamo al punto di prima, e siamo diretti verso est, abbandonando Pechino alle spalle, e imboccando l’autostrada.

Un’uscita. Il mio tassista ci passa davanti e la ignora. Dieci metri dopo l’uscita rallenta improvvisamente e dichiara: “Ho sbagliato”. E va be’, capita, vai, prendiamo la prossima. Cinque chilometri dopo, passa anche la seconda uscita.

“Perché non l’hai presa? Potevi fare il giro e imboccare l’autostrada in senso inverso” chiedo.

“Prendo una scorciatoia… credo”.

Mi guarda, esitante: “Fermo il tassametro… nel frattempo… ”.

“Sì, grazie” rispondo, comprendendo ormai troppo tardi l’errore.

Autostrada per Shenyang, ore sei di sera del nove novembre, buio pesto, nessun lampione, nessuna macchina. Guardo il mio autista, e mi sale il serio dubbio che questo possa da un momento all’altro accostare, estrarre un coltello, rapinarmi, forse pure tagliarmi la gola, e quindi lasciarmi a lato autostrada. Superiamo il Sesto Anello… entriamo nella terra in cui poche persone che conosco sono mai state. Ho paura, ho davvero paura. Cerco di leggere il suo numero di matricola ma è buio, e se lo illumino con il cellulare potrebbe insospettirsi. Il mio cellulare… una tacca di batteria, forse non basterà nemmeno a fare una telefonata. Il pensiero di me stesso senza soldi nel mezzo della campagna cinese, a novembre, al buio, senza cellulare e magari accoltellato non mi aiuta a sorridere. Il mio tassista è come sempre impassibile. Estraggo un pacchetto di sigarette, gliene offro una. Accetta. Fumiamoci la nostra ultima sigaretta, chissà che non aiuti.

Terza uscita, dodici chilometri più in là dell’uscita per Tongzhou. Il tassista la prende, arriva al casello, e chiede all’impiegata:

“Come faccio ad arrivare a Taihu, nel distretto di Tongzhou?”

“Esci, fai il giro, imbocchi l’autostrada in senso inverso” risponde candida la ragazza.

Il tassista si gira verso di me, imbarazzato. Io sorrido di un sorriso decisamente tirato.

“Non c’è una scorciatioia?” insiste il tassista, tanto per accertarsi.

“No… “ scuote la testa la casellante.

“Quanto costa l’autostrada?”

“Quindici kuai

“Troppo”

Ore sette meno un quarto, strada di campagna. Buio. Camion carichi di merci indefinibili. Polvere e lavori in corso. Fabbriche con insegne spente. “Guarda, siamo arrivati a Tongzhou, e quella voleva farmi pagare 15 kuai di autostrada!”. Vorrei rispondere che se voleva i 15 kuai glieli regalavo io, che magari a quest’ora eravamo anche già arrivati. Ma il mio pensiero è un altro. La fabbrica sta all’uscita dell’autostrada, se non ci si arriva da quella, soprattutto con il buio e le insegne spente, non la si trova in mezzo a mille altre fabbriche.

“Di dove sei?” chiedo.

“Io?”

“Sì, tu, sto parlando con te”

“Della contea di Yanqing”

Yanqing, dall’altra parte di Pechino, almeno un centinaio di chilometri da qui. Perfetto, sono in buone mani.

Ore sette e un quarto, Taihu Town, fabbriche su fabbriche. Buio. Un passante ogni chilometro o più, a piedi o in bicicletta. Il mio tassista, come temevo, sta procedendo a caso. “Chiediamo informazioni” suggerisco col tono di chi ha i coglioni troppo pieni per sentirsi rispondere negativamente. I passanti ci danno indicazioni vaghe, ma la cosa che più mi stupisce è che non sono intimiditi. In qualunque Paese del mondo, se sei solo nella notte in una zona industriale, e una macchina ti si ferma di fianco, come minimo fai un passo indietro. Quelli, nel buio, si avvicinano al finestrino e sorridono. “Di là… ”. Avanti…

Ore sette e mezza. Buio. Fabbriche. Polvere. Non sappiamo dove siamo. Una luce in fondo, poi avvicinandosi una vista: il casello dell’autostrada.

“Ci siamo” dico.

L’autista frena: “Se vado avanti finisco ancora in autostrada”.

“No” gli dico “la fabbrica sta davanti all’uscita, non preoccuparti”.

Si preoccupa.

Fanculo, apro la portiera e scendo, vado a piedi fino all’angolo, sbircio: è lei, la fabbrica, riconosco l’insegna anche da spenta. Siamo arrivati. Torno alla macchina: “Ci siamo, lo dicevo, è quella!”.

“OK!” dice l’autista. Ingrana la marcia, e inverte a U.

Stop. Rewind.

“Perché ha invertito a U?”

“Per non entrare in autostrada”.

Silenzio.

“Torna indietro” ordine gelido.

“Ma… ”

“Ho detto torna indietro”.

Obbedisce mogio mogio, e si fa condurre all’entrata della fabbrica. Si stupisce nel vedere che effettivamente è lì. Scendo.

“Aspettami”

“Ma… ”

“Ho detto aspettami”.

La guardia mi ferma e mi chiede i documenti. Praticamente la sbrano, quella mi fa passare senza controlli, e poi fa passare anche il taxi che mi deve aspettare.

Cinque minuti. Entro in magazzino, verifico la presenza della merce. Torno al taxi.

“Torniamo a Pechino, la strada la sai?” mi informo.

“Quella sì” dice.

“E allora vai” comando, con disperazione.

Almeno quella la sapeva. E anche oggi, pare, siamo arrivati vivi a fine giornata. Chissà domani, mi chiedo…

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