2007-01-22

Quiete Campagnola


Sono i primi giorni di giugno quando un altro dei miei viaggi mi porta a Pechino. E’ sera, e faccio appena in tempo a farmi una doccia, poi vado a cena al Kiosk. Il Nali è praticamente vuoto, se si eccettuano un paio di cinesi di mezza età seduti sul dondolo, Sasha, le sue cameriere e due altri clienti, stranieri sui quarant’anni. Mi siedo direttamente al tavolo con loro, anche se non li conosco. Uno se ne va in fretta, l’altro rimane a chiacchierare: è svedese, fa il corrispondente per una testata del suo paese e si diletta di fotografia. Al collo porta una Canon professionale, con cui scatta quando l’ispirazione lo prende. Il nostro argomento principale è lo sfascio causato a Sanlitun dai progetti di ricostruzione che vanno avanti da anni. La nostra conclusione, che la cultura del “backstreet bar” sopravvivrà spostandosi continuamente in là.

Il mio Kiosk Burger è come sempre eccezionale, e ci aggiungo delle patate fritte tagliate spesse. Peccato non possa bere birra, gli antibiotici che prendo per il raffreddore da aria condizionata preso a Shanghai me lo impediscono.

Dopo un po’ lo svedese se ne va. I cinesi sul dondolo sono spariti, le cameriere salutano e vanno verso casa sulle loro biciclette. Le luci si spengono, tutti i tavoli sono già accatastati in un angolo, e rimaniamo io seduto all’unico tavolo rimasto sulla strada, e Sasha nel suo chiosco che mette in ordine le ricevute della giornata. Il silenzio della sera mi coccola: non c’è un rumore. Sono nel centro del quartiere dei divertimenti di Pechino, è domenica sera, e pare d’essere in campagna, luce bassa e silenzio di pace. Me lo godo per dieci splendidi minuti, fino all’arrivo di Irene, con una lattina di birra in mano comprata al 24 hours, che costa meno. Saluto Sasha, chiedendogli se gli serve una mano a spostare l’ultimo tavolo. Rifiuta con un sorriso e saluta con la mano.

Camminiamo per Sanlitun, io e Irene, e ci si racconta quel che è successo durante la settimana. La nostra tappa successiva è un parrucchiere nella strada tra Sanlitun e Xindong Lu, una strada buia e piena di buche lasciate dalle ruspe ora dormienti, dove le uniche luci sono quelle di un rivenditore di sigarette e tre negozi di parrucchieri pieni di cinesi con strane acconciature. Irene dispone, i cinesi mi fanno accomodare, mi lavano i capelli, me li rasano, me li ripassano a rasoio, poi con un pettine e una forbice li ricontrollano una terza volta per assicurarsi che siano tutti lunghi 6 millimetri. Poi mi rilavano i capelli.

Nel frattempo, altri due inservienti hanno intortato Irene sui prodotti innovativi importati dall’Europa a prezzi spropositati, che renderanno i suoi capelli meravigliosi. Irene cerca di non ridere troppo, pensando che solo due settimane prima una tinta bionda le ha lasciato tutta la testa rosso rame. Adesso ne ride, ma dal parrucchiere la reazione era stata ben diversa.

Soddisfatto del mio taglio 6mm e della foresta di riccioli che giace sul pavimento, allungo 10 kuai a uno di loro, che ringrazia.

Io e Irene ci incamminiamo nel silenzio verso casa. Non sarà nemmeno mezzanotte, e il più della gente che si trova per strada va in giro in pigiama e ciabatte. La domenica sera di giugno a Sanlitun è come stare in campagna. E io sono proprio contento di non essere a Shanghai.

2007-01-20

Io e Dandan

La mia prima impressione di Dandan è di stranezza. Il suo viso, la sua struttura fisica, il suo atteggiamento mi lasciano dubbioso, non riesco a catalogarla. Non assomiglia a niente di quello che ho già incontrato prima. Ci si presenta cordialmente, ma con un po’ di diffidenza reciproca, e lei mi chiede dove voglio andare.

“Speravo me lo dicessi tu” scherzo “sei tu la locale”.

“Non so che posti ti piacciono… vuoi un bar, una discoteca… dimmelo tu”

E’ un passarsi la palla al rimbalzo, come se ciascuno non aspetti che le scelte dell’altra per poterla studiare, capire.

“Andiamo in un bar, e vediamo com’è”

All’inizio l’atmosfera è fredda. Lei è una ragazza che sta sulle sue, io non ho ancora capito abbastanza di lei per scegliere un atteggiamento, e quindi non faccio che attendere una sua mossa rivelatrice. Andiamo in un bar cinese con musica caotica, proviamo a parlare ma non ci si sente. Finito un Bacardi Breezer, le propongo di portarmi altrove, ovunque la musica non sia così forte. Finiamo allo Shamrock, un bar frequentato dagli occidentali di Chengdu. Il posto è decisamente migliore. Accenna a sedersi, ma la fermo: “Andiamo fuori, si parla meglio”. Fuori non c’è nessuno, e rimaniamo soli a chiacchierare. Lei mi guarda stranita e si chiede perché io abbia deciso di sedere qui, e rimane sulla difensiva. Io decido di attaccare, e senza più distrazioni la metto a suo agio, le offro da bere, la faccio parlare di sé. Il discorso finalmente fila liscio, complici alcol e stanchezza.

E poi c’è un momento, in cui lei parla e io le guardo gli occhi, due occhi piccoli e a mandorla, nerissimi e seminascosti sotto una frangia di capelli castani, in cui capisco che mi piace. Lo capisco perché non la sto ascoltando, le sto semplicemente guardando gli occhi, come li muove, come sbatte le palpebre e lascia vagare lo sguardo attorno.

Quando si fa tardi ci salutiamo, dandoci appuntamento al giorno successivo, per andare a visitare le attrazioni turistiche di Chengdu. Mi addormento pensieroso, incapace di capire questa strana ragazza, e sono così stupito che non ricordo che ho già incontrato una persona che mi ha fatto lo stesso effetto. Succedeva 11 anni prima, e la persona in questione era colei che in questo blog ho chiamato Laksmi.


Il giorno seguente è come se avessimo metabolizzato entrambi lo shock dell’incontro. E’ una splendida giornata di sole, e Dandan mi porta a visitare il tempio di Wenshu, un monastero buddhista antichissimo, circondato da un parco enorme con tutte le varietà di bambù presenti in Sichuan. Due cose mi stupiscono, nella nostra lunghissima conversazione. La prima è che, contrariamente all’abitudine cinese di vantare in modo spudorato le attrazioni nazionali, mi dice che il Panda è un animale sporco, ispido e abbastanza inutile. Il Panda è il simbolo di Chengdu, dove è situato il centro internazionale per la riproduzione della suddetta bestiaccia. Tutti i chengdunesi ci sono stati a osservare il Panda da vicino, lo hanno anche accarezzato e osservato nella sue abitudini, che poi si riducono a nulla più mangiare bambù di giorno e dormire di notte. La seconda cosa che mi stupisce è che conosce la Storia dei posti in cui mi porta, e anzi mi racconta un paio di aneddoti sugli imperatori che non conoscevo. Ora, sebbene qualunque cinese incontrerete si vanterà che la sua civiltà ha 5000 anni di Storia, sarà molto difficile conoscere qualcuno che abbia una minima idea di cosa è successo in questo lasso di tempo. Dandan invece lo sa, ed è particolarmente ferrata su tutto ciò che riguarda la meravigliosa Storia del Sichuan, che poi è la provincia con la Storia più ricca, i personaggi più gloriosi ecc ecc. E’ così che mi rendo conto di avere di fronte una ragazza di un certo spessore: sarà che è sichuanese, sarà che ha studiato in Inghilterra, di fatto in molte cose sfugge all’omologazione culturale del suo Paese.

Ci fermiamo davanti a un baracchino per turisti, una specie di tiro al bersaglio con balestre di legno. Sulla parete è raffigurato sull’attenti un occidentale vestito da ussaro che, con un fumetto in cinese e rudimentale inglese, asserisce di aver inventato le armi automatiche. Alle sue spalle Zhuge Liang (诸葛亮), per i profani un cinese vestito da mandarino che agita in posa plastica un ventaglio di piume, si beffa di lui nelle stesse lingue, vantandosi di aver inventato le armi automatiche con duemila anni di anticipo sullo sciocco laowai. Esageratamente cinese.

Le armi automatiche in questione sono per l’appunto delle rozze balestre dotate di un meccanismo che permette di ricaricare i quadrelli contenuti al loro interno. Diversi cinesi provano a centrare bersagli di paglia da tre metri di distanza, riempiendo di buchi la parete che sta dietro. Il gestore mi indica con aria di sfida, invitandomi a provare. Impugno l’arma automatica e pianto tutti e sette i quadrelli nel bersaglio, uno dietro l’altro. Il gestore pare offeso, e con riluttanza mi consegna il premio, una medaglietta in finto oro raffigurante la dea buddhista Guanyin. Cina-Italia, 0-1.

Dandan mi fa i complimenti, entusiasta, e mi racconta di come suo padre, quando militava nell’esercito, sia stato campione regionale di tiro al bersaglio. La regione, per inteso, è il Sichuan, ai tempi più o meno 60 milioni di abitanti. Cina-Italia 2-1. Chiudiamo al competizione qui, che mi sa che è meglio. D’un tratto, essendo al corrente dell’abilità del padre, mi trovo molto più cauto nel trattare con la mia guida turistica.

Il pomeriggio vola, e con la scusa di provare le prelibatezze locali la invito a cena. Anche qui Dandan dimostra un’ottima conoscenza della propria cultura. Il cibo è ottimo e i sapori incredibilmente complessi. Ci congediamo sul tardi e io torno in hotel, dove incontrerò i miei colleghi cinesi arrivati da Chongqing in corriera. Mentre sto in taxi, penso alla giornata che è passata, e spero di vedere ancora Dandan prima di partire. In effetti, ho già intenzione di invitarla a cena in un ristorante italiano il giorno successivo. In hotel, i miei colleghi sono già andati a letto, e io li imito ben presto, sfiancato dalla giornata.


E’ la mattina successiva che li incontro nella hall, con la valigia in mano.

“Fate già check out?” chiedo stupito.

“Naturalmente!” è la tipicissima risposta che ricevo “Domani mattina visitiamo clienti a Xi’an. Non fai check out anche tu? Dovresti partire stasera! Ho già avvertito che lasci la camera e stavo per prenotarti quella nuova”

Panico. Pensieri veloci e turbolenti. Risoluzione stranamente rapida e decisa.

“Prenderò il primo volo domani mattina, tanto voi in treno prima delle 10 non arrivate.”

Chiedo alla receptionist di estendere la mia camera per una notte, e con una punta di strafottenza, che con i cinesi funziona sempre se si vogliono evitare discussioni sfinenti, chiudo l’argomento,

Lo stesso giorno, alle sei di pomeriggio, i miei colleghi salgono in treno e, finalmente solo, invio un SMS.

“Mi fermo una notte in più. Ti va di venire a cena con me, stasera?”

La risposta è inaspettatamente rapida: “Certo, molto volentieri”

La cena è piacevole e romantica. Facciamo una lunga passeggiata fino al mio albergo, che non è molto distante da casa di lei, e la invito un attimo in camera, perché mi sono rimasti dei prodotti che non porterei a Xi’an, e voglio lasciarli a lei. Accetta la busta e, sulla porta, ci congediamo.

La bacio sulle guance con dolcezza calcolata, poi per un secondo ci troviamo a fissarci negli occhi, sull’orlo di un precipizio. Non sappiamo se ci vedremo ancora, e se ci vedremo non sarà certo prima di molti lunghi mesi. So che Dandan non è il tipo di ragazza da one-night stand. Se la baciassi probabilmente non si tirerebbe indietro, ma a che servirebbe, se non far la figura del playboy o al limite farla soffrire dopo la mia partenza? Gli stessi pensieri ci passano nella mente per la lunghezza di un sospiro trattenuto. Poi lei fa un passo indietro, visibilmente imbarazzata.

“Allora, arrivederci”

“Arrivederci” sorrido.

La vedo andarsene, e chiudo la porta. Forse è meglio che sia andata così. Anzi, è sicuramente meglio. Eppure, qualcosa dentro me mi dice che dovrei inseguirla e baciarla prima di perderla per sempre. Mi lascio cadere sul letto, in preda a emozioni che non provavo da molto tempo, e non so che in quel momento lei, salendo sull’ascensore e schiacciando il tasto del piano terra, prova le stesse cose.

2007-01-14

I sichuanesi

Urge una parentesi socio-culturale per capire con chi ho a che fare. Essere sichuanesi non è semplicemente come essere cinesi. Così come essere napoletani non è lo stesso che essere generici italiani, o essere texani non è lo stesso che essere americani.

I sichuanesi sono diversi, anche fisicamente. In Cina del Nord la gente è alta e con i tratti forti. In Cina dell’Est sono esili come fuscelli. In Cina del Sud sono bassi, tarchiati e scuri. I sichuanesi sono bassi, con i tratti dolci e la pelle chiara. La pelle dei sichuanesi, soprattutto quella delle sichuanesi, è famosa, e in proposito ognuno ha una teoria: c’è chi dice che l’umidità e la nebbia la proteggano dal sole rendendola soffice e bianca; cìè chi dice che sia il loro cibo piccantissimo che fa sudare e purifica i pori; c’è chi dice che siano una razza a parte. Tutti concordano sul fatto che le ragazze del Sichuan siano le più belle della Cina.

Quello che i cinesi non dicono, ma che salta immediatamente agli occhi, è che in Sichuan le donne hanno le tette. Non sottovalutate la cosa: in Asia è una fortuna oltremodo rara. I cinesi dicono feijichang (飞机场), “aeroporto”; noi diciamo “tavola da stiro”; entrambi sono efficaci nel descrivere la media delle donne asiatiche. Il Sichuan sfugge a questa legge, e di tanto in tanto anche alla legge di graività. Ma passiamo alle differenze culturali, che sono ancora più profonde.

I sichuanesi sono orgogliosi. Non arroganti come gli shanghainesi, e nemmeno sciovinisti come i pechinesi. Non è un’orgoglio da cittadini verso i contadini, è un’orgoglio regionale che nasce da una tradizione storica antica quanto la Cina, e che si trasmette con un genuino e spudorato entusiasmo verso tutto quello che viene dal Sichuan.

Parlate di Deng Xiaoping, vi diranno con orgoglio che era sichuanese. Parlate di un qualunque argomento storico: vi citeranno la lista di tutte le persone importanti che venivano dal Sichuan. Parlate di cibo: vi diranno che il migliore è quello sichuanese, così meravigliosamente piccante. Di turismo: le più famose bellezze della Cina sono tutte in Sichuan, mai sentito parlare del Panda, del Monte Emei, del Tibet (un terzo dell’altopiano tibetano è parte del Sichuan, mentre il resto è diviso tra le province di Qinghai e Xizang)?

Non solo: parlando con i sichuanesi, sarete sorpresi nello scoprire solo ora che il Sichuan è la provincia con la storia più antica e gloriosa della Cina, che i sichuanesi sono la gente più ospitale e simpatica, oltre che in media più furba e di bell’aspetto. Praticamente tutti i grandi poeti, i maestri di kung fu, gli uomini politici importanti, gli eroi e gli immortali delle leggende sono tutti venuti dal Sichuan. La lingua sichuanese è la più dolce ed elegante della Cina, e forse anche del Mondo intero.

Il guaio è che mentre ve lo dicono, ci credono davvero, e qualunque cosa diciate non varrà a far cambiare loro idea.

“E’ la prima volta che sento una simile affermazione, anzi tutte le persone con cui ho parlato prima mi hanno detto il contrario” – “Impossibile, avrai capito male tu, oppure i tuoi interlocutori erano in mala fede”

“Questo libro di storia non dice così” – “Ci sarà un’errore di stampa”

“La mia guida turistica dice un’altra cosa” – “Sarà stata scritta da uno che non è mai stato in Sichuan, guarda, non è nemmeno cinese!”

Discuterci è una battaglia persa in partenza.

E’ tuttavia un fatto che una parte delle qualità decantate dai sichuanesi sulla loro patria sia vera. Il Sichuan ha una storia antica e gloriosa, è stata patria di importantissimi letterati e personaggi storici, ha una cucina famosa e apprezzata in tutta la Cina e vanta a ragione numerose attrazioni che lo rendono meta di molti viaggiatori. La stessa lingua sichuanese, che è dotata di un tono in più del cinese mandarino e risulta incomprensibile a chiunque non sia nato qui, è una lingua famosa nella produzione letteraria nazionale.

Quel che i sichuanesi tacciono, o negano anche di fronte alla morte, sono i difetti della loro patria, ovvero che il Sichuan è una delle città più mafiose della Cina, un luogo dove le guanxi decidono tutto e il soldi è ancora un mezzo per farsi belli e non un fine a sé stesso. Che verso chi è straniero, e anche con chi non è sichuanese, i locali sanno essere incredibilmente falsi e infidi, persino paragonati agli altri cinesi. Infine, che uno dei motivi per cui Chengdu è una delle prime città cinesi come qualità della vita è che i suoi abitanti sono i più pigri della Cina: a qualunque ora li vedrete seduti in riva al fiume a prendere il tè, in eleganti sale in stile tradizionale come su tavolini da campeggio. La pausa del tè è una tradizione cui viene tributato un rispetto quasi religioso, e può essere invocata in qualunque momento (eccetto che a pranzo e a cena) e per un numero infinito di volte al giorno.

Un mio cliente, che viene dallo Henan e ammette che, pur essendo cinese, ha grossi problemi a fare affari con i sichuanesi dato che tutto funziona a guanxi, descrive in modo efficace la regione in cui ci troviamo:

“I went to Shanghai, and I saw skyscrapers and world-leading companies, and lots of people with lots of money,. I went to Beijing, and I saw the history of a capital and the palaces of the Government and the Party, and there too lots of people with lots of money. Now I am in Chengdu, and I only see temples, trees and tea-houses… and still lots of people with lots of money. But I really don’t understand where the money comes from”

Questo è lo stile di vita sichuanese. Stare seduti a un tavolo a bere tè, coltivare buone amicizie, avere pasti abbondanti e regolari, fare attività fisica, dedicarsi alle arti magari. Lavorare sì, quel tanto che basta a mantenersi: il Sichuan è una regione fertile e ricca, da secoli i suoi abitanti hanno semplicemente colto i frutti della terra. In tutta la sua Storia, il Sichuan non è mai stato capitale, e non mi chiedo neanche il perché. Troppa fatica la responsabilità del potere.

Arrivando in questa terra mi rendo conto di essere arrivato nel cuore della cultura cinese, in un luogo dove l’influenza straniera non è arrivata mai. Pechino è stata conquistata da Mongoli e Manciù, il Nordest sente la vicinanza di Russia, Corea e Giappone, il Nordovest è musulmano e la Via della Seta l’ha riempito di tradizione centro-asiatiche, Shanghai e la costa sono stati terra di colonizzazione occidentale. Qui no, nel centro della Cina non ci sono state influenze esterne.

Tutte le persone che ho attorno sono genuinamente cinesi come non li ho mai incontrati, e anche la ragazza che ho davanti, nonostante abbia studiato in Inghilterra, è cresciuta in questa cultura.

2007-01-13

Viaggio in Occidente

E’ la metà di maggio quando mi preparo a compiere uno dei grandi viaggi di perlustrazione del mercato per la mia azienda, e questa volta la meta è la Cina Occidentale, quell’enorme estensione di Asia che è stato oggetto della mia tesi di laurea. Francamente non avevo mai pensato che ci sarei andato, e invece ora eccomi qui, in partenza con un trolley strapieno di completi eleganti per un periodo di due settimane che mi porterà a Wuhan, quindi a Chongqing, Chengdu e Xi’an. C’è un misto di paura e curiosità che mi attanaglia, o forse è semplicemente preveggenza dell’incontro che sto per fare, che cambierà la mia vita.

E’ un venerdì pomeriggio, e sono nel ristorante dell’Harbour Plaza di Chongqing, davanti a me lo chef francese, un tizio che a tempo perso si occupa di fare la spia per l’autorità europea dei marchi denunciando i falsari. Sì, perché qui in Sichuan falsificano tutto, se possono. Tipo che a confronto i Pechinesi sono i difensori mondiali del copyright. Lo chef è eccezionalmente arrogante, sarà che è francese, sarà che è chef, sarà che di cognome fa Dieu che non spinge ad essere umili. Mi chiede che penso di fare per il fine settimana, gli rispondo che pensavo di stare qui a Chongqing, magari provare la vita notturna, vista la quantità impossibile di bellezze che si incrociano per strada. La sua risposta è categorica, un po’ come tutte le sue sentenze:

“Ho vissuto tanti anni a Chengdu: mia moglie è di Chengdu. Vai lì: la città è bella, il clima è migliore, il cibo è più saporito e le ragazze sono più dolci e belle”.

Accetto con umiltà il consiglio di un veterano, e il giorno dopo salgo la scaletta di un piccolo velivolo che, di lì a un’ora, mi porterà nella capitale del Sichuan. Dal taxi la città sembra senz’altro carina: verde, relativamente pulita e senza grossi grattacieli; qua e là spunta qualche tempio o pagoda. E’ quasi il tramonto quando arrivo in albergo, e solo allora mi ricordo di una cosa fondamentale. Tingting.

Tingting, la mia amica di Shanghai che viene da Chengdu. Le telefono: “Ciao Tingting, sono a Chengdu! Non è che conosci qualcuno che mi possa portare in giro a vedere qualcosa? Che so: ristoranti, bar, templi… va bene qualunque cosa, ho la domenica libera”.

Tingting si prende una mezz’oretta per organizzarsi e poi mi richiama, passandomi un numero di telefono, quello di una sua cara amica, compagna di liceo, e un nome. Chiamo il numero, voce di donna che parla un buon inglese:

“I am sorry, I hadn’t time to prepare, I have a dinner with some colleagues tonight. But we may meet later, so I can show you a around a little bit”.

“Non sono fortunato” penso. Ceno solo al ristorante dell’Holiday Inn, e poi mi siedo in attesa su una delle poltrone della hall. Davanti a me passa una serie di strani personaggi in abiti di dubbio gusto, invitati a un’esclusivissima festa organizzata da Vogue China. “Non sono fortunato” penso ancora, quando quindici minuti dopo l’appuntamento il mio contatto non si è ancora presentato, e io comincio a sbadigliare.

E poi, entra una ragazza. Arriva al centro della hall, si guarda attorno, estrae un cellulare. E il mio squilla.

E’ così che faccio la conoscenza di Dandan.

2007-01-06

Fiaba Moderna Pechinese

Irene viene da Perugia, come tradisce la sua inconfondibile calata. Da quando è venuta a Pechino, un anno prima, ha cambiato quattro appartamenti, ai quattro angoli di Pechino. L’ultimo si trova nei pressi di Dongzhimen, vicino alla stazione dei pullman che vanno verso Shunyi, perché è lì che finalmente ha trovato lavoro, un lavoro da manager di un’enoteca, il Palette Vino.

Il locale sta al Pinnacle Plaza, il centro della Zona di Sviluppo di Tianzhu dove negli ultimi anni stanno crescendo compounds su compounds di ville all’americana, con due piani, terrazzo, taverna, giardino per il barbecue e chi più ne ha più ne metta. Entro i muri del compound sembra di stare in America – prati tagliati perfettamente, gente sorridente, guardie ovunque. Fuori, la campagna Pechinese buia e polverosa.

A Tianzhu ci sono famiglie con i soldi, ed ecco spuntare supermercati, ristoranti, bar. Irene ne gestisce uno, uno dei più carini a dir la verità. E’ veramente rilassante passarci un pomeriggio a godersi il sole nel patio, o una sera con un bel calice di vino rosso italiano in mano.

Irene è una delle persone che mi sono rimaste più vicine a Pechino, e nonostante sia superimpegnata, lavorando la sera, la sento tutte le volte che sono in città. Una di queste volte, per l’appunto, mi invita al locale per un wine tasting. Ci vado direttamente dal lavoro, ancora in giacca a cravatta.

Mi accoglie Irene tutta elegante e mi presenta i suoi colleghi – il titolare, John, e il giovane Stephan. John è un tipo peculiare – testa completamente rasata, vestiti eleganti, modi sofisticati, ottimo inglese, e occhi sottili sottili da satiro; con il suo naso quasi a punta e il sorriso largo fa venire in mente i dipinti delle orge di Bacco, e il fatto che abbia un’azienda di distribuzione di vini non fa che rafforzare l’immagine. Non pare nemmeno cinese, né dai modi né dai tratti, ma quest’ultima cosa si spiega col fatto che suo nonno era tibetano. Stephan è rosso, tarchiato e con gli occhialini tondi, marcatissimo accento tedesco: la sua famiglia ha una cantina da qualche secolo, lui promuove il suo vino in Cina e collabora con John. Con tono puntuale e preciso illustra le proprietà di una serie di Merlot a una piccola folla di curiosi, che include me, Irene e altri due suoi amici, una ragazza tedesca dai capelli rossissimi e Jason. Jason è un altro personaggio, un cinese del Tenessee. Il che vuol dire pelle gialla, occhi a mandorla e fisico da quarterback. Cosa può fare uno come lui? Semplice: il manager del Top Bar in Sanlitun e l’organizzatore delle feste più malate in città. Si vanta di stare lavorando a uno schiuma party nel suo locale, e a una festa di Sanlitun, che coinvolga TUTTI i bar e si svolga in strada. “Sarebbe fantastico” dice, scuotendo la testa “ma il governo non ci darà mai l’autorizzazione”. Me la immagino Sanlitun all’alba, un campo di battaglia coperto da bicchieri rotti, cicche di sigarette, inglesi ubriachi e papponi che ancora cercano clienti.

Al termine del wine tasting, perlatro molto interessante, noi quattro ci si sposta nel patio, sui comodi divani attorno al tavolino di legno, per ammazzare ciò che rimane delle bottiglie non finite. Quando salta fuori l’argomento taxi, allora Jason tira fuori il meglio di sé, perché la sua vera vocazione è quella del cantastorie:

“Una sera ero ad un party” racconta “ed avevo bevuto un sacco. Così vado al cesso, e mi accorgo nel corridoio cè una porta aperta che dà sul cortile sul retro. Nel cortile c’è un taxi. Luci accese, motore acceso, nessuno a bordo. Incuriosito, mi avvicino, e mi accorgo che le chiavi sono ancora dentro. Così, dopo essermi guardato attorno, mi siedo al posto di guida, chiudo la portiera, ingrano la prima e parto”

E’ qui che si riconosce la stoffa dell’eroe, nel coraggio di esaudire il sogno di ognuno di noi, ovvero stare dall’altra parte dello sgabbiozzo della Xiali, mangiarsi le parole, ringhiare, sputare, grattar la marcia, insultare gli altri autisti, lamentarsi un po’ di tutto e chiamare tutto ciò lavoro. Chi non pagherebbe un mese di stipendio di un tassista per poterlo fare almeno un’ora?

“Dove vado adesso? Non lo so, imbocco il Secondo Anello Nord, e lo percorro. Le luci di Pechino mi passano a destra e sinistra. Ascolto il rombo del motore. Ci sono poche macchine attorno a me, la strada è mia.

“Dopo un po’ però mi stufo di guidare lungo il Secondo Anello. Cosa posso fare? Ho un taxi… e laggiù vedo una ragazza a bordo strada che agita la mano. Accosto, la faccio salire.

“‘Qu naaar?’”

Ed è anche da questo che l’eroe viene fuori. Non gli basta essere alla guida di un taxi, vuole andare oltre e caricar passeggeri. E siccome ha la faccia cinese, riesce credibile, il bastardo.

“Per fortuna avevo una vaga idea del posto in cui lei voleva andare. Tiro giù il fanalino del tassametro e parto. Raggiungo il luogo dopo qualche minuto. La ragazza scende, mi allunga i soldi della corsa. Tiro su il fanale del tassametro e metto i soldi in tasca, con soddisfazione. Li ho conservati, quei soldi, ce li ho ancora.

“Comincia ad essere tardi, e ho voglia di tornare alla festa. Così inverto a U, torno al locale, e sulla strada vedo un tizio terrorizzato che tenta di fermare tutte le macchine che passano. Dev’essere il tassista. Facendo finta di nulla, mi immetto nel viale del palazzo ed arrivo al cortile sul retro. Scendo dalla macchina, lascio le chiavi dentro e il motore acceso. E torno alla festa”

Non lo so se questa storia è vera, ma anche se non lo è, è troppo bella per non essere raccontata. E’ una fiaba moderna, un sogno che diventa realtà.

Con diversi bicchieri di Merlot in corpo e la cravatta slacciata, saluto tutti e mi dirigo verso il mio hotel. Il taxi corre lungo la Jingshun Lu, le luci dei lampioni che corrono veloci su di noi. Chiudo gli occhi, e cullato dal vino sogno anch’io di essere al volante di una Xiali, e correre lungo il Secondo Anello Nord.