2008-04-05

Zhongguoren

Il che ci porta a una domanda da un miliardo e trecento milioni di dollari e più, ovvero: “Che cosa definisce l’identità cinese?”. O anche, “Chi si può chiamare cinese, e chi no?”. Sul punto esiste una grossa confusione, non solo tra gli stranieri, ma anche tra i cinesi stessi. E’ un domandone non facile nemmeno per cinesi di cultura. Dopo aver parlato con alcuni di loro ed essermi letto un po’ di letteratura specifica, io mi sono fatto un’idea.

Nella definizione di una nazione esistono fondamentalmente tre scuole di pensiero. La scuola razziale è seguita dalle nazioni omogenee, come la Germania, il Giappone o la Tailandia: si è tailandesi se si è nati da genitori tailandesi, giapponesi se nati da giapponesi, e la cosa è facilmente constatabile dai tratti somatici; poi c’è la scuola legale, utilizzata dagli imperi, come gli Stati Uniti: americano è chi, indipendentemente da razza e colore, ha passaporto americano e giura fedeltà alla bandiera; e poi c’è la scuola culturale, tipica delle civiltà più antiche, come Italia o Francia. Italiani e francesi sono tali in quanto parlano una lingua propria, condividono tradizioni, per lo più legate alla vita quotidiana, e riconoscono valori fondamentali.

A quale di queste categorie appartiene la Cina? Esistono sostenitori di tutte e tre le scuole, a volte in conflitto tra loro e a volte in concordia secondo le necessità. Tra i cinesi della Repubblica Popolare, quando si parla dei cinesi di China Town all’estero si seguono la scuola razziale o culturale (“i cinesi di Milano sono cinesi e la Repubblica Popolare tutela i loro diritti in quanto comunità cinese”), invece quando si parla di minoranze etniche in Cina si segue la scuola legale (“i tibetani e gli uighuri, anche se non parlano cinese e appartengono a culture diverse, sono cittadini cinesi e quindi soggetti alla Repubblica Popolare”). Questo splendido esercizio di double-think, come direbbe Orwell, è stato ben inculcato dalla propaganda di Partito nella mente di tutti quelli cresciuti in Cina, tanto che le risposte, se chiedete, sono sempre le stesse, e rafforzate dalla sciocca superstizione per cui qualunque popolo che sia stato in passato soggetto al Celeste Impero sia cinese e quindi suddito legittimo della “madrepatria”.

Ma cerchiamo di essere obiettivi e raggiungere un punto fermo. La scuola legale è la meno solida: la Cina è la Cina, ed esiste un concetto di unità inculcato nella civiltà cinese dai tempi di Qin Shihuang primo imperatore. Nel corso della storia, innumerevoli volte, la Cina è stata divisa politicamente ma il legame della civiltà ha sempre permesso una riunificazione. Guardate Hongkong e Macao, e sappiate che anche Taiwan è “Cina” e tornerà alla madrepatria. A a seguirla sarà Singapore. Passaporto o non passaporto, qualunque cinese vi dirà che la sua identità nazionale non dipende da un documento.

La scuola razziale è popolare tra gli ignoranti, e soprattutto tra molti occidentali, secondo i quali qualunque gruppo etnico non riconducibile agli han non è cinese e dovrebbe secedere dalla Repubblica Popolare e fondare una sua democrazia indipendente; ma questa scuola è comuna anche tra i cinesi d’oltremare. Pur essendo ben contenti di arricchirsi in Paesi ad alto reddito e magari pure democratici, costoro fanno comunque riferimento a “Mamma Cina” che tutela i loro interessi quando vengono minacciati da gruppi razzisti. Ma se chiedete a un cinese nato e cresciuto in Cina cosa ne pensa dei cinesi d’oltremare, ecco che spuntano i nomignoli: huaqiao (华侨) è quello più cortese, significa appunto “emigrato dalla Cina”, e si pronuncia con quel sorriso strano con cui si pronuncia laowai, oppure stortando la bocca, come altre volte si parla di un laowai. Se no c’è appunto l’appellativo xiangjiao (香蕉), banana, giallo fuori e bianco dentro o tanti altri. E’ evidente che i cinesi considerano gli emigranti come “adulterati” dalle culture barbare, gente che ragiona da straniero, e che come gli stranieri non riesce a comprendere gli altri cinesi ed entrare in una relazione armoniosa con loro.

A parte ciò, che da solo basterebbe a sfatare la superstizone della scuola razziale, va notato che importantissimi personaggi storici cinesi non erano han: a cominciare dalla dinastia Tang (misti turchi shatuo), le cinque dinastie (turchi shatuo), i Liao e i Jin (mancesi), gli Yuan (mongoli) e di nuovo i Qing (mancesi). Chiedete a un cinese e mai vi dirà che si trattava di dominazioni straniere. Qianlong, l’imperatore che rimodellò Pechino secondo la sua concezione del potere nel 18° secolo, e che ha lasciato la sua impronta sulla Città Proibita, sul Tempo del Cielo, sul Tempio dei Lama, sulle Torri della Campana e del Tamburo, e su qualunque monumento che esiste oggi nella cerchia delle vecchie mura, era di etnia manciù, eppure è considerato uno dei più grandi imperatori cinesi. Hong Xiuquan, leader politico e religioso dei ribelli taiping, che conquistò mezzo impero, era hakka. Sun Zhongshan (Sun Yat-sen), primo presidente della Repubblica di Cina, era anche lui hakka. Lao She, scrittore e commediografo, uno dei massimi intellettuali del XX° secolo in Cina, era manciù. Secondo le fonti del governo, al’inizio del XXI° secolo i cinesi sono per il 94% di etnia han. Il 6%, ovvero circa 78 milioni di persone, appartegono ad altre 55 minoranze etniche, ma sono comunque cinesi.

Ed ecco quindi che rimane una sola scuola davanti a noi, quella culturale. Gli han sono cinesi, sono la base della civiltà cinese, ma cinesi sono anche tutti quei popoli che hanno accettato la cultura cinese, a cominciare dai manciù, ancora numerosissimi a Pechino; gli hui, i musulmani del nordovest che discenderebbero dai mercanti persiani della Via della Seta; gli hakka, i montanari del Sud della Cina in gran parte convertiti al Cristianesimo. E via così. Essere cinese significa essere un membro di una civiltà, e infuso di una cultura millenaria e unica. Cinesi non si nasce, si diventa.

E quindi, nell’aspetto pratico, da cosa si distingue un cinese da un non cinese? La lingua è il primo e il più ovvio degli elementi: non che serva saper scrivere, perché cinesi analfabeti ce ne sono tanti, ma certamente occorre parlare mandarino o un altro dialetto cinese. Occorre comprendere le basi di un comportamento sociale accettabile e la gestione delle guanxi (le relazioni), secondo i principi confuciani: mostrare rispetto ai superiori, benevolenza agli inferiori, avere mianzi (la faccia), dare mianzi: poi non è che poi ogni cinese segua queste regole, ma certamente ogni cinese è in grado di distinguere chi le segue e chi no, categorizzando un comportamento sulla base dei fondamenti confuciani, e distinguendo con disinvoltura la natura delle guanxi che dovrebbero intercorrere tra le persone. Capire in che situazione è cortese ringraziare, in quale è bene fare regali e offrire una cena, e così via. Non è tutto, per essere cinese bisogna padroneggiare la cultura del cibo, che non significa saper cucinare (pochi cittadini, purtroppo, sanno cucinare cose più complicate di un brodo), ma distinguere i cinque gusti fondamentali (xian, tian, suan, la, ma), saper distinguere tra un jiaozi e uno xiaomai, tra un baozi e un mantou. Insomma, capire cosa c’è in un piatto senza una guida turistica davanti, cosa ovvia per chi nasce in Cina ma non facile certamente per uno straniero. C’è poi la concezione cinese del corpo e della medicina: in Cina la gente non prende le aspirine, prende le yinqiaopian; non prende anestetici (se non in casi particolari), si fa l’agopuntura e toglie la sensibilità a una parte del corpo; non si prende una serie infinita di leggeri disturbi come malditesta, cervicale, brufoli, irritazioni: i cinesi prendono lo shanghuo, di cui parleremo più diffusamente in un post futuro; e per ogni possibile alimento edibile da esseri umani sa citare delle supposte proprietà terapeutiche, dal curare lo shanghuo al mantenere la pelle liscia e morbida al rafforzare le capacità amatorie. Insomma, se sei cinese la tua concezione del corpo, delle sue dinamiche e dei modi per manterelo sano è diversa dal resto del mondo.

C’è un ultima parte della cultura che poi è meno ovvia, ma altrettanto importante che le altre: la ritualità e il calendario. Ci sono ancora tanti cinesi, ma tantissimi, che ogni mattina consultano il calendario astrologico per vedere se quello è un giorno buono o cattivo per fare qualcosa, e su questa base pianificano decisioni finanziarie, traslochi, incontri, celebrazioni e persino parti clinici, ma grazie al Comunismo questa pratica non è più vissuta con forza vincolante come una volta, almeno dai giovani e dai vecchi che hanno fatto la Rivoluzione. Sui giorni qualunque la gente non impazzisce più come una volta: ma sulle feste non transige nessuno. I cinesi santificano le feste: che sia il Chunjie, piuttosto che la Festa delle Lanterne o quella delle Barche-drago o della Luna o anche solo del Lavoro, esiste una ritualità ben precisa che va rispettata, e guai a chi se ne ride, viene additato come incivile. Non visitare la famiglia nel Chunjie, o mangiare gli zongzi per la festa delle Barche-drago, o visitare i morti nel loro giorno è vissuto come un crimine morale, con una forza che stupisce gli stranieri. Chiaro che uno può avere scuse più o meno serie, ma la decisione di semplicemente non seguire la tradizione per partito preso è inconcepibile per un cinese. Ricordatevene bene la prossima volta che vi fate beffe delle mooncake e dei tangyuan, e sappiate che i cinesi annuiscono, sorridono, ma nel loro cuore vi stano etichettando come barbari e incivili senza speranza.

Questo, in breve, significa essere cinese. Sarò diventato cinese anch’io? In parte certamente sì, sono in grado di comunicare in questa difficilissima e stranissima lingua, mangio ormai qualunque piatto ben cosciente di quello che contiene, mi curo le irritazioni mangiando cetrioli e i brufoli bevendo brodo di zampe di maiale, e accetto con pazienza la ritualità di Dandan nel celebrare le decine di feste cinesi e rispettarne l’etichetta. Ma lo farei se non vivessi con lei, se non abitassi in questo Paese? “When in Rome, do like the Romans” dicono gli anglosassoni, e la loro ragione ce l’hanno.

Io vivo in Cina, e ormai non ho problemi a “fare” il cinese. Ammetto che per arrivarci mi ci è voluto un bel po’, e ancora tante volte vengo colto in fallo con un dialogo complesso, con una festa mai sentita prima o una proprietà medica di un comunissimo cibo, ma i cinesi son pazienti, o almeno “fanno” i pazienti per gentilezza. Mi trattan da cinese quando è cortese farlo, e chi lo sa chi davvero mi considera un barbaro sinizzato e chi mi sorride e, in cuor suo, mi dà della scimmia depilata? E chi lo sa se, tutta questa fatica per essere più cinese, la faccio per far contenti loro o per imparar qualcosa io? Sia come sia, mi sforzo di capire e di fare secondo ciò che imparo, non troppo interessato al perché, ma al come. C’è chi dice che il viaggio sia più importante della meta, e forse è proprio in questa scelta – quella di fare per capire e non pretendere di capire prima ancora di cominciare a fare – che, se non di pensare alla cinese, dimostro a me stesso d’essere ormai più vicino a Laozi che ad Aristotele, d’esser più asiatico che europeo, talvolta. Quello che è certo, e quello che in fondo conta per me, è di non esser più la persona che ero prima di venire qui, d’esser cresciuto, d’aver imparato, e d’essere diventato un po’ migliore di quello che sarei stato se non fossi mai venuto ad abitare in questa città, Pechino.

9 commenti:

LaBizzara ha detto...

Leggo sempre con piacere il tuo diario ed ero un poco preoccupato perchè era fermo da diverso tempo, ed ora di colpo due nuove pagine, spero che in una delle prossime ti vada di scrivere ancora sulla tua attività di guardiano della vecchia Pechino,
saluti,

Valerio

Massaccesi Daniele ha detto...

Gran bel post. A scervellarsi su "cosa o chi sia cinese" ho speso anche troppo tempo e la risposta non l'ho certo trovata; dubito anche che ce ne sia una. Chiedendo ai cinesi, va per la maggior la "via" culturale, ovvero è cinese che di cultura cinese, ovvero nato e cresciuto in Cina o da genitori cinesi, che parli in primis il cinese. Ma le risposte che senti sono tante e spesso diverse. Forse è malposta la domanda: dovremmo forse chiedere "ti senti cinese?". Siamo nel 2008, più che "essere" ormai si tratta di "sentirsi". Se mi chiedono se sono italiano, io rispondo con Gaber "Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono". Vivo in Cina da molto tempo e parlo discretamente cinese, non mi sento cinese ma mi sento sempre meno italiano. Di cultura crstiano giudaica e di ispirazione illuminista e antifascista. Tendo all'internazionalismo e al rifiuto di stupidi nazionalismi e patriottismi. La bandiera italiana la lascio sventolare agli ultrà nello stadio, non sono attaccato a quella bandiera ma la rispetto perchè frutto del sacrificio di tante, troppe persone. Così come la maggior parte delle bandiere nel mondo. Mi sento più "simile" ad un turco o ad un tunisino rispetto che a uno svedese o un americano. La speranza è che, per i cinesi e per tutti gli altri, si tenda sempre più ad una visione globale e internazionalista, aperta, colorata, cosciente e rispettosa, oltre frontiere e culture... sono umano prima che marchigiano, italiano, cinese, asiatico, cattolico, confuciano. E penso che chi, in nome di bandiere o religioni, ammazzi un suo simile perda il suo diritto a considerarsi "umano".

Ti sei perso una gran bella festa ierisera, molto "movimentata" :)
Un abbraccio

Daniele

Wild Child ha detto...

Per Valerio:
mi fa piacere che il mio blog e soprattutto la lunghezza di certi post non ti annoi ma piuttosto ti stimoli! Non scriverò a breve del CHP e degli hutong, ma certamente lo farò ancora, percHé l'argomento è lungi dall'essere esaurito, e devo dire chea volte le porcherie che ora si fanno a tutela del centro storico sono peggio delle demolizioni!

Per Daniele:
"sentirsi" presuppone opinione, e purtroppo troppa poca gente al mondo, e soprattutto in Cina, ne ha una propria. Per il resto sono con te, viva l'internazionalismo e l'umanesimo, abbasso il nazionalismo e la paura del diverso :) mi spiace per la festa, sarà per la prossima volta... mai più Nanjie, lo giuro!

Unknown ha detto...

io sono un attimo più scettico rispetto a voi. possiamo "sentirci" cinesi, ma mai potremo esserlo davvero. i nostri amici, i nostri conoscenti, le fidanzate potranno considerarci meno laowai di quanto dimostri il nostro passaporto, ma la nostra faccia ricorda ogni giorno a chi incontriamo per strada che siamo stranieri. ogni volta bisogna ricominciare con italia, bel calcio, scarpe di pelle, da quanto tempo sei qui, mangi cibo cinese ecc ecc...

personalmente ritengo che essere cinesi voglia dire sì sentirsi parte di una tradizione culturale partita dalle ossa oracolari Shang (e i vari festini alcolici annessi), ma anche essere riconosciuti da essa. e particolare non da poco, avere genitori cinesi! può sembrare una banalità, ma credo che a volte non sia la faccia da occidentale a frenare l'integrazione, ma la mancanza di una rete familiare alle spalle. Da soli si può arrivare fino a un certo punto, poi la cultura cinese "richiede" dei riferimenti familiari o di network che possono essere costruiti solo nei decenni. Ovvio, poi per andare a prendere una birra e fare due chiacchere non serve tutto questo, ma non è che ubriacarsi con i cinesi si diventi cinesi (altrimenti a questo punto ci sarebbe la mia faccia scolpita al mausoleo di mao :) )

saluti da tianjin, f.

Wild Child ha detto...

Ciao Fabrizio,

ho discusso di questo post con amici cinesi, anche stretti, ed effettivamente c'è chi s'è messo a ridere e ha detto "Ma tu sei straniero, non puoi essere cinese!". L'idea della rete familiare alle spalle è interessante, ma gli orfani esistono comunque nche in Cina, e non sono considerati stranieri o "intoccabili".

La mia impressione è che in Cina convivano due atteggiamenti atavici, uno internazionale, "Cina come impero multietnico" e sviluppato nei periodi Tang, Yuan e in generale quando al potere non c'erano gli Han; e uno di totale rifiuto della contaminazione, la scuola Ming, la scuola Boxer, la scuola Loto Bianco - per cui cinese è Han e chi è nato e cresciuto tra loro ed è loro suddito.

La Cina oscilla tra questi due atteggiamenti in modo ciclico, c'è l'espansione e poi la contrazione. Però nell'inconscio di molti cinesi, soprattutto nelle aree più Han, c'è spesso il pregiudizio del cinese come Han, anche se coscientemente c'è della buona volontà verso il diverso.

Dev'essere qualcosa di simile a quanto accade per molti di noi italiani, magari anche mentalmente aperti, ma che a causa della nostra storia etichettiamo uomini di facili costumi come eroi e donne con gli stessi costumi come "troie". Magari non vorremmo, se ci pensiamo l'idea alla base di questa distinzione ci disgusta, ma almeno una volta nella vita ne abbiamo fatti di commenti così. Gente di altri Paesi questi pensieri non li fa, o comunque ne fa di diversi. Forse anche i cinesi soffrono di questi pregiudizi collettivi, di questi atteggiamenti generati dal condizionamento sociale, e uno di questi riguarda proprio il razzismo.

Per fortuna il Partito questo pregiudizio non lo avalla per nulla, e si spera che conoscendo il mondo tanti cinesi imparino a pensare da soli e non a farsi condizionare dai pregiudizi della loro Storia.

Unknown ha detto...

per l'idea che me ne sono fatto io, anche un xinjiangnese è cinese, ma un poco meno di un vero Han. e del resto le minoranze si chiamano così in via di una maggioranza che le etichetta tali.

il punto è che neanche dashan è cinese davvero, anche se parla meglio di un professore universitario (e infatti il passaporto canadese se lo tiene ben stretto).

per quanto riguarda gli orfani, non condivido la tua obiezione. anche se i genitori sono dipartiti, sono pur sempre esistiti, e il figlio è sempre frutto loro e della cultura che li sorregge.

sarà conclusione da poco, ma per essere cinese ed essere considerato come tale, secondo me bisogna essere almeno asiatici e aver passato un buon numero di anni in cina, meglio ancora se l'infanzia. il xiangjiao cresciuto all'estero può sembrare cinese, ma se non si "impegna" per aderire costruttivamente alla cultura cinese, lascia sempre uno iato di incomprensione se messo alla prova.

la soluzione personale mia, visto che ci vivo in cina, era all'inizio considerare i cinesi come mondo a se, e rapportarmi a loro senza pregiudizi. Con gli anni, sto maturando invece un approccio più umanitario: vedo prima la "persona", l'essere umano, e poi il fatto che sia cinese. Che poi anche io stia cambiando a furia di stare qui, non c'è dubbio, ma non credo che mi sentirò mai cinese. Al massimo, ho sviluppato un'altra personalità quando parlo la loro lingua.

finisco qui altrimenti ci si allunga troppo. piuttosto, perché non ci si becca per una birra quando passo per pechino e si continua il discorso? saluti f.

Wild Child ha detto...

La birra mi suona bene. Se anche il buon Daniele si vuole unire, è il benvenuto.

Mi lasci la tua e-mail, che ti mando i miei contatti?

f. ha detto...

brizio2001 (chiocciola) [gmail] (dot) com

io sono di stanza a tianjin, ma qualche weekend a pechino lo si fa. ci sentiamo cmq, ciao

f.

Unknown ha detto...

sullo xinjianese cinese ho dei dubbi. il mitico uguiro sottocasa, si offende se gli parli in cinese. o arabo o inglese. e da arabo si comporta. dato che poi l'inglese non lo sa, per gli ordini ricorriamo sempre ad un po' di cinese, per cui interviene la mia sinologa di fiducia.
la figata (ma ridicola) è che lui non la guarda, e non scrive nulla finchè io non confermo gli ordini. spettacolo!