2008-04-22

Né italiani né cinesi

Stare a Pechino da studente e single è una gran ficata, perché c’è sempre una buona occasione di far festa con gente nuova di ogni razza e colore, ma quando si cresce, me ne rendo conto, le cose cambiano. Chi lavora è pù stressato e non ce la fa ad andare a ballare in posti luridi, bevendo porcherie da 5 kuai e tirando le sette del mattino, ma preferisce rilassarsi in posti meno caotici e, necessariamente, meno adatti alla socializzazione; e del resto chi è in coppia ma ha un partner lontano è escluso sia dalle uscite con altre coppie sia dai gruppi in tempesta ormonale che in media escono con l’unico scopo di trovare compagni/compagne per la notte. Non è facile incontrare gente con cui passare il tempo libero, e ad aggravare la mia situazione c’è il fatto che non sono sportivo, e quindi non prendo nemmeno in considerazione la possibiltà di giocare a calcetto o andare in palestra, e che non sono un uomo in carriera, e quindi non ci sto dentro ad uscire con gente del mio ramo che parla solo di business in bar pettinatissimi e ristoranti fighetti. Non c’è quindi da stupirsi se, in questo periodo, non trovo granché da fare e, se le sere infrasettimanali le passo a chiattare online con Dandan, nel weekend la mia solitudine mi crolla addosso durissima e trascorro intere giornate attaccato al computer o a leggere libri.

Incontro quella che chiameremo Viola a una di quelle tristissime cene di italiani in cui in media accorrono 30 o più persone di tutte le fasce sociali e d’età, in un ristorante cinese dove si ordina sempre troppo o troppo poco, e in generale si beve, si fa rumore e ci si annoia. Lo scopo di tali cene è, per gli sfigati che non conoscono nessuno, conoscere altri italiani per sentirsi meno soli e, per le persone normali, vedere gli amici sfigati tutti assieme e, per altri sei mesi, non dover sentirsi in colpa se gli si dà buca agli inviti per uscire. In quel caso, io appartengo alla prima categoria, ma Viola è una di quelli che veramente apprezzano queste occasioni di socializzazione.

Arrivata insieme al fidanzato cinese che non parla alcuna lingua straniera, Viola è chiaramente sinologa e lavora per Radio Cina Internazionale. Tutta vestita in nero da vera intellettualoide, manca dell’aria distaccata del personaggio-tipo e al contrario denota un entusiasmo propromente e genuino per moltissime cose, e in primis per la vita in questo Paese. Chiacchierando, scopriamo di avere molte opinioni in comune, e a fine cena ci si scambiano il numero e il contatto di Messenger.

Nelle settimane che seguono ci sentiamo poco, incontrandoci forse solo per altre uscite di gruppo tra italiani, fino a che un giorno, io scazzato perché sono solo a Pechino con la fidanzata lontana e i pochi amici che giocano a calcetto o sono impegnati per lavoro, lei scazzata perché si è mollata col tipo e questo evento ha innescato una serie di ripensamenti anche sulla sua vita professionale, decidiamo di vederci e passare il sabato pomeriggio insieme. Dove? Due italiani innamorati della Cina non possono andare a Sanlitun, troppo commerciale e viziosa, troppo corrotta dai laowai, anzi tanto vale mettere una grossa croce su tutto Chaoyang. Si va ai laghi, ma non a Qianhai o Houhai, anche quelli troppo commerciali, troppo pieni di bar cinesi che vorrebbero essere stranieri ma non possono. Noi si va a Xihai, quella parte di Shichahai dove i bar pieni di neon e con la musica a palla non sono ancora arrivati. Passeggiamo lungo le sponde tranquille del lago, con gente che pesca e altra che va in bici, e ci piazziamo in uno dei pochi posti disponibili. Il menù è effettivamente scoraggiante, è ovvio che vorrebbero offrire cose occidentali ma non hanno idea di come fare... i menù di questi posti sono tutti uguali: il caffé espresso o “coffee espreso” o “epresso cafe (single or double)”, di solito sui 20 RMB, è un beverone orribile e amarissimo da evitare, che apre una lista che include cappuccino, blue mountain coffee, milk shake, e una serie di porcherie impossibili copiate male da Starbucks, e comunque tutte con quel gusto dolce chimico tipico delle bevande cinesi. I tè non sono meglio, di solito ci sono diversi té cinesi di scarsa qualità, il milk tea taiwanese con le palline gommose dentro (freddo e caldo), magari al gusto di mandorla chimico, e poi l’intramontabile té Lipton giallo in bustina. Io e Viola ci guardiamo, guardiamo l’orologio e constatiamo che sono le 3 e mezza, ci riguardiamo e ordiniamo due Bacardi Breezer. E così ci alcolizziamo già dal primo pomeriggio, non avendo altre alternative accettabili; ma almeno ci sentiamo in Cina, e cominciamo a chiacchierare della vita, dei nostri dubbi, del che cazzo ci facciamo in questo Paese, di che palle a volte i cinesi che non capiscono gli occidentali, e che palle gli occidentali che non capiscono i cinesi e vengono qui solo per la carriera, e via così.

Usciamo dal baretto dopo una lunga chiacchierata e, consci delle nostre origini, ci avviamo verso la Baie des Anges, un’enoteca (ahimé) francese ma decisamente meritevole, nascosta in un hutong di Houhai, e qui avanti a tazzare con del rosso di Provenza, e via ai discorsi filosofici che solo la gente che è nata in Europa e ha vissuto in Cina e parla cinese può capire. Saranno le sette quando emergiamo dall’enoteca e, affamati, ci infiliamo nella porta di fianco, da Hutong Pizza, dove saziamo la nostra fame alcolica con una margherita. E avanti con i nostri discorsi, come ti integri, come non ti integri, come mantieni il cinese, come lo migliori, ma vero che certa gente del Sud della Cina non la capiscono neanche i loro connazionali quando parla; ma quanto mi fa schifo la vita da espatriato, giacca e cravatta e ristorante europeo ogni giorno, per lamentarsi di quanto è dura la vita in Cina. Siamo sulla stessa linea d’onda io e lei, ci capiamo, abbiamo in fondo esperienze simili, tutti e due italiani scappati dal nostro paese e ora cittadini pechinesi in cerca di una strada tra Occidente e Oriente, per non essere né italiani né cinesi, ma semplicemente qualcosa di diverso, forse nuovo, certamente più libero e fantasioso.

Dopo cena finiamo al Vineyard Café, in un hutong alle spalle del Tempio di Confucio, dove un nostro amico italiano canta e due francesi suonano blues con la chitarra. Ci uniamo a un gruppone di cinesi e italiani e ordiniamo un’altra boccia di vino bianco, perché fa caldo. Rimaniamo fino a tardi ad ascoltare la musica, e poi ciascuno a casa sua. Ci salutiamo in modo diverso dalle altre volte, io e Viola, perché la nostra amicizia in fondo è cominciata oggi, con la reciproca scoperta e condivisione delle proprie esperienze. Un pomeriggio diverso dal solito, in cui almeno io mi sono sentito meno solo in questo posto dove, quotidianamente, lotto per essere me stesso e non un membro di un gruppo o di una civiltà che vuole imporre regole proprie. Per fortuna, oggi ne ho la conferma, non sono l’unico.

1 commento:

Anonimo ha detto...

un post molto bello, provoca sensazioni...ma nn saprei descriverle...forse perchè conosciute e sconosciute in parte allo stesso tempo.