2008-02-18

Hong Kong

Chi vive in Cina ed è straniero prima o poi da Hongkong ci passa, se non per lavoro o per turismo, almeno per un visto, perché ad Hongkong, fino al 2007, si può fare un visto business di 6 mesi in meno di 4 ore, senza necessità di alcun documento se non il passaporto. Comodo, no?

A Hongkong c’ero già passato tempo fa, appunto per fare il visto, ma ci ritorno per incontrare uno che smercia carne importata da Australia e Stati Uniti ai ristoranti e supermercati dell’ex colonia, ma sottobanco contrabbanda prosciutti italiani verso la Repubblica Popolare. Il tizio in questione, general manager di un’azienda ben avviata, meno di trent’anni, etnia filippina, ex modello, elegantissimo e gentile, mi spiega che a notte fonda si carica il prosciutto nel porto su un container che, prima dell’alba, arriva su una spiaggia da qualche parte in Cina continentale, dove l’aspetta un camion per trasportare il Parma e il San Daniele in tutto il resto del Paese. Se va bene, la guardia costiera non ti ferma. Se va male, l’equipaggio si dà alla fuga e il carico è perso, però esiste anche l’assicurazione, per cui se paghi un tot di più ti rimborsano la perdita. E’ un business avviato da anni e anni e che fa volumi impressionanti. Perché se sono illegali i prosciutti ma nessuno controlla, io nel contaner ci posso mettere anche a cocaina, gli AK47 e i rifiuti nucleari. Di norma però quello che ogni notte viene contrabbandato da Hongkong alla Repubblica Popolare sono altre merci, praticamente tutto quello che la Cina importa già da sé ma che tassa, da Hongkong arriva esentasse, spiaggiata all’alba da qualche parte nel Guangdong. Se vi capita di mangiare prosciutto in un ristorante in Cina, con il 99% delle probabilità ha fatto questa strada. Nel’1% delle probabilità è arrivato tramite canali diplomatici, per manifestazioni regolari o perché un impiegato ha prestato il tesserino diplomatico a un amico in cambio di soldi o favori. Ma ci sono centinaia di altri casi di merci non importabili o eccessivamente tassate, che vengono traghettate. Poi, è ovvio che la polizia da entrambe le sponde sa tutto, ma a Hongkong è sul libro paga della mafia, e nella Repubblica Popolare anche, o in alternativa gestisce direttamente da sé il contrabbando.

Ma sto divagando: Hongkong. La prima cosa che si nota è che la gente parla inglese. Va bene gli occidentali, va bene gli indiani, capisco anche i filippini, ma che i mendicanti e i venditori ambulanti di sigarette cinesi mi chiamino con “excuse me, Sir” invece che “Aloooò?” mi fa veramente strano. La seconda cosa che si nota è che manca spazio: le stranze sono strette, i soffitti sono bassi, i grattacieli sono tutti altri almeno 30 piani, e costruiti uno accanto all’altro, addirittura molti collegati. Dalla finestra del mio hotel in Canton Road vedo un cortile stretto stretto all’ombra di palazzi altissimi su quattro lati, e al centro cosa stanno costruendo? Un altro palazzo, ovviamente! La terra è scavata per decine di metri, ed è possibile spostarsi per tutta Hongkong senza vedere la luce del sole. La maggior parte della gente, che vedi nelle bottegucce a vendere qualunque cosa a qualunque prezzo, probabilmente la luce non la vede se non nei week-end. Mi fanno pena, sembra che abbiano tutti la febbre, questi strani cinesi scuri, bassi, brutticchi, questi figli della Cina adottati dal capitalismo da paradiso fiscale, e scampati al Partito Comunista. I cinesi del continente li chiamano “banane”, perché dicono che sono gialli fuori e bianchi dentro.


La terza cosa che si nota è che non puzza. Uno col tempo si abitua alla Cina, o all’Asia se volete: da nessun’altra parte nel mondo c’è questo odore. Ogni posto ha il suo, in Asia: a Madras è quello del curry, a Shanghai quello dell’olio fritto o del tofu puzzolente, a Pechino è l’aglio e l’aceto, e così via. A Hongkong no, è come stare in Europa, l’aria odora di aria, al massimo di porto se uno è vicino all’acqua, ma nemmeno tanto. L’unica cosa che puzza siete voi, perché arrivate dall’Asia, e vi vergognate, perché ieri stavate facendo i colonialisti, magari tirando fuori tre banconote da 100 kuai per comprare la ricarica del telefono, o addirittura vi facevate trasportare in risciò, con questo senso di superiorità rispetto alla gente locale, e qui i campagnoli puzzoni siete voi, non tanto per colpa vostra, ma è che se vivete in Asia non c’è doccia che tenga, l’odore vi si riappiccica addosso in dieci minuti, a voi, ai vostri vestiti, e a tutte le vostre proprietà, dal computer all’accendino. Annusate tutto a Hongkong, dopo una doccia, e vi rendete conto di quanto la vostra vita puzzi. Non è una bella sensazione.

Hongkong mi mette ansia, è una città ansiogena. La gente vive a Hongkong per fare soldi, tutti hanno in mente solo quello, tutti sono stressatissimi. Allo stesso tempo, siccome hanno vissuto sotto i britannici, hanno delle regole ferree, di cui la peggiore è il divieto di fumare. Non si può fumare nei locali pubblici; si può fumare per strada ma solo in alcune zone, e vi sfido tra l’altro a fumare in una strada gremita di gente che vi spintona perché ha fretta. Non si possono buttare però le cicche per terra, bisogna trovare un posacenere pubblico. Solo che ce ne sono pochi, quindi mi capita di stare fumando, e improvvisamente la strada finisce, ovvero si immette in un tunnel sotterraneo perché sul marciapiede hanno costruito un grattacielo. Non posso entrare con la sigaretta nel tunnel, ma non la posso buttare perché non c’è un posacenere. Nel frattempo la gente mi spiantona. Che fare? La spengo sulla suola della scarpa, entro nel tunnel e la tengo in mano per venti minuti, fino a quando mi stufo e, mentre nessuno guarda, la butto in un angolo. Eccheccazzo. Il traffico è delirante. Le strade diritte non esistono, sono curve continue e trecentossessanta gradi: destra, sinistra, in su, in giù, scale a chiocciola a profusione, ponti, sottopassi, entrate del metrò. Ovunque c’è gente, ovunque c’è qualcosa in vendita. Immaginate che so, la Rinascente sotto Natale, però con trenta piani, diversi milioni di abitanti e mezzi pubblici e taxi per spostarsi. Però è sempre la Rinascente sotto Natale. Devo fare il visto, bene: serve una foto, chiedo di farla, ma non me la possono fare, devo andare dal fotografo. Dove? Mi danno indicazioni, giro mezz’ora per un aeroporto costruito sulla laguna (che non c’era spazio) e pieno, tanto per cambiare, di gente e negozi, ma del fotografo nessuna traccia. Ci sono venti agenzie di visti che parlano quindici lingue diverse, ma per la foto serve il fotografo che è uno solo e nascostissimo. Ma perché non vi portate la polaroid come fanno in continente? O una normalissima macchina digitale con stampante? No, qui la burocrazia l’hanno fatta gli inglesi. Totale, non riesco nemmeno a fare il visto.


Quando ritorno a Pechino, e mi trovo davanti la faccia grigia della guardia che mi squadra e confronta il mio viso con la foto sul passaporto, sorrido. Nella grande sale grigia, in cui l’unico colore è l’affresco della Grande Muraglia, non mi sento spintonato. Son contento d’essere tornano nella Repubblica Popolare, la prossima volta, anche se serviranno due settimane, il visto me lo faccio qui. Ah, che pace Pechino.


2008-02-16

Mp3

Oramai il mercato dell’elettronica offre i suoi prodotti a prezzi talmente bassi che tutti ne usufruiscono, è la rivoluzione dei prodotti elettronici che raggiungono le masse ed entrano a far parte della vita quotidiana. I cinesi, poi, vanno matti per tutte le cose che luccicano e fanno casino, e quindi anche se guadagnano 1000 kuai al mese si sentono in dovere di esibire un cellulare con suonerie tamarrissime e un lettore Mp3 dal display che manda facilmente in crisi epilettica i soggetti a rischio, e ogni tanto anche quelli non a rischio. Se poi hanno qualche soldino in più da spendere, ecco che arrivano il lettore DVD e il computer con tutti gli accessori più impossibili (tipo coprischermo puccettoso con orecchie da topo in acrilico iperinfiammabile, o massaggiatore USB di Winnie Pooh). Lo stereo no, e grazie al cielo perché costruire degli impianti in dimensione cinese per passare la musica che si ascolta qui sarebbe veramente un crimine.

L’accessorio elettronico più di massa è il lettore Mp3: tutti sembrano averlo, manco si trovasse ormai nelle patatine. Un lettore può andare dai 3999 kuai dell’iPod più figo del mondo ai 150 kuai della chiavetta USB con auricolari che contiene una trentina di canzoni. Gli utilizzatori principali sono gli adolescenti e gli impiegati che passano del gran tempo sui mezzi pubblici. Anche qui la psicologia di gruppo, dopo un anno e mezzo che vivo in Cina, ha la meglio e, siccome avevo portato i miei a fare spese, ho deciso tragicamente di comprare qualcosa anche per me.

Il mostro assassino è nero e coperto completamente di plastica trasparente, che non rimuovo prevedendo già che potrei aver bisogno di portarlo indietro. Sembra figo, lo pago anche una cifra ragguardevole, 300 kuai. Sulla scatola c’è scritto “Mp4 Player”: evvai, che così mi scarico la mia musica da iTunes che è quasi tutta in formato .mp4. Il brand del mostro assassino è la prestigiosissima Qzert, o nome affine, curiosamente stampato solo sulla scatola e non sul lettore, che invece dichiara essere “Mp3 Mp4 Player” sul retro. Per fortuna riporta anche i marchi di garanzia FC e CE, per dire che è conforme a tutte le leggi sulla qualità e la sicurezza americane ed europee.

I problemi iniziato subito. Appena a casa, mi accorgo che non legge gli Mp4: ci perdo ore, ma niente, solo Mp3 e filmini veramente utili in formato .wmv, che è veramente una merda. Torno al negozio, la venditrice ovviamente mente spudoratamente.

“Questo lettore Mp4 non legge gli Mp4” mi lamento.

“Sì che li legge” dice impassibile la 17enne che sta al banco.

“No, provalo… vedrai che non li legge”

“Non abbiamo un computer, comunque li legge”

“Provalo, Cristo, non c’è verso!” insisto “Legge solo .mp3, ho provato .mp4, .m4a e .m4v, non li riconosce proprio”

La ragazzina prende il mio lettore e avvia il filmino contenuto in esso, ovvero una tipa sconosciuta vestita da Madonna che canta “Like a Virgin” per circa 7 secondi, prima di essere interrotta bruscamente per mancanza di spazio nel disco.

“I film si vedono, quindi legge gli Mp4, se tu che non lo sai usare”

La guardo triste, non riesco a credere al passaggio logico che ha appena effettuato.

“Guarda” mi dice “sei il primo che torna a lamentarsi: te lo cambio, vai a casa e lo provi ancora”

“Va bene” mi dichiaro sconfitto in questa battaglia “ma se non funziona, torno”. Non hai ancora vinto la guerra.

Torno a casa e provo ancora: questo lettore Mp4 contiene foto, calcolatrice, convertitori vari, agenda, il tetris, e altre mille funzioni inutili ma vigliacco se è in grado di leggere un file .mp4. Mi rassegno: scarico un programma che converte .mp4 in .mp3, e dopo altre ore di smanettamento carico i miei file sul lettore. L’audio è anche buono, se non fosse che la carica impiega due ore ad essere completa, e si esaurisce totalmente in meno di un’ora, la metà del tempo di carica. Resto basito nello scoprire che nel 2007 esistono ancora apparecchi così inefficienti dal punto di vista energetico.

Ma tant’è, ormai me lo tengo.

Passa una settimana di uso molto raro, più che altro perché appena lo accendo quello si scarica e rimane inutile, e poi devo stare due ore in casa a caricarlo. Poi gli auricolari si rompono: ma non è che gracchiano, è che il filo si stacca dall’auricolare, così all’improvviso, casca e mi lascia il pezzettino di plastica muto nelle orecchie. Decido quindi di utilizzare le cuffie del cellulare, le uniche compatibili con lo standard ridicolmente sottile della presa. La cuffia del Nokia ovviamente non è stereo, quindi addio qualità del suono. Ma il bello deve ancora venire: il mostro assassino non si chiama così per nulla.

Notte, calduccio. Mi accoccolo tra le coperte, mentre il mostro è in carica per le sue due ore di alimentazione. Rumore di corto circuito. Odore di fumo. Mi stavo quasi addormentando, e per fortuna mi sveglio. Accendo la luce: il caricabatteria sta andando a fuoco. Altro che FC e CE, ma andate a fare in culo! Stacco il trasformatore dalla presa e lo metto nel lavandino con un filo d’acqua, giusto per evitare combustioni future.

Il giorno dopo sono ancora dalla venditrice.

“Effettivamente ho provato questo lettore. Non legge gli .mp4, che per la cronaca non sono film, ma file audio e video di un formato riconosciuto internazionalmente. Perché vendete lettori Mp4 che non leggono i fottuti mp4?!? Tra le altre cose, le cuffie sono sputtanate e il trasformatore è andato a fuoco, che a momenti ci rimango anche io”

La tipa 17enne mi guarda:

“Caro signore, oramai è passata una settimana dall’acquisto. Se si sono verificati dei problemi, non ci riteniamo responsabili. Infatti, abbiamo già sostituito una volta il suo lettore”

Non prendo bene la risposta.

“Cambiami il caricatore, va’ ”

“Le ho già spiegato che… “

“Ho detto cambiamelo”

“Ma… “

La guardo. Capisce. Lentamente, senza perdere il contatto visivo con me, si china a prendere un nuovo caricatore e lo mette sul tavolo. Ha paura, lo so.

“Prendi il caricatore e vattene” dice.

Getto il cadavere del precedente trasformatore sul bancone, a scorno del negozio intero, e prendo quello nuovo, fortunatamente di una marca differente. Che fino ad oggi non è ancora esploso, però ora col cazzo che lo metto sotto carica se non posso controllarlo a vista.

La mia sfortuna con i lettori Mp3 è controbilanciata dalle vicende di Dandan. Che come tutti i cinesi si è comprata un lettore, e siccome è cinese non è stata fottuta allegramente dal venditore, ma ha pagato un giusto prezzo per un dignitosissimo apparecchio. Sennonché, qualche mese dopo, degli amici le hanno fatto un regalo: un altro lettore Mp3.

“Era proprio quello che desideravo… “ dice lei col sorriso tirato.

Non immagina che qualche mese dopo la sua banca deciderà di premiare gli impiegati migliori con un dono. Un meraviglioso iPod. E siamo a tre.

L’anno seguente la vicenda si ripete. Tempo di bonus, regalo aziendale. Un lettore Mp3. E cosa si può volere di più dalla vita? Una cena con i clienti? Che contenti della loro relazione con la banca decidono di fare un dono a tutti gli impiegati coinvolti nel loro progetto?

E cosa gli vogliamo regalare a questi bravi ragazzi? Sì, lo sapete ormai, rispondetevi da soli.

Cinque lettori Mp3, di cui due iPod Nano originali sono di gran lunga troppi. Ed è così che per la legge del karma Dandan regala il suo iPod doppio a me. Che, felice come una Pasqua, posso scagliare dalla finestra il mio Mp4 Player marca cinese generata digitando a caso sulla tastiera, con tanto di auricolari sminchiati e caricabatteria conforme alle norme di sicurezza afghane, e in più cancellare dall’HD un in utilissimo programma che converte .mp4 in .mp3.

Ieri sera ho provato l’iPod. Si è caricato la batteria da solo, in pochi minuti, connettendosi al computer. Ha scaricato da solo tutta la musica in un attimo. Usa le stesse playlist del computer. Ed è una gran figata, e non è nemmeno coperto di plastica ovunque. Viva la Apple. E’ proprio un altro mondo.

2008-02-15

Cristiani in Cina

L’incontro con la donnina dell’ascensore, con la foto del papa Ratzinger, mi ha in qualche modo colpito, e così mi sono messo a indagare sulla presenza cristiana in Cina. Ne son venute fuori, di cose, e non avete idea in Italia di quanto siete disinformati sull’argomento (non solo male informati, badate bene, intendo proprio attivamente disinformati dalla vostra propaganda vaticana).

Ma andiamo con ordine: quand’è che il Cristianesimo è arrivato in Cina? Qualcuno dice tramite San Tommaso Apostolo, che avendo già convertito l’India, avrebbe fatto un viaggetto nella Cina degli Han, per poi tornare indietro e farsi seppellire vicino Madras. Poco probabile. Altri dicono che sia stato San Bartolomeo Apostolo, che tra l’Armenia e Lipari fece una deviazione, la prese larga, probabilmente sbagliò strada (credibile, vista la segnaletica del tempo) e finì per passare da Celeste Impero. Vabbé.

Fonti storiche più serie dicono che i primi cristiani in Cina ci arrivarono tramite la Via della Seta verso il IV sec., e poi aderirono alla tradizione nestoriana, ma di strada non ne fecero mai molta, rimasero per lo più confinati alle regioni del Nordovest e consiedrati anche un po’ barbari a causa della loro origine non-Han. Più tardi arrivarono i Cattolici, tramite varie missioni papali che cercavano il Prete Gianni e trovarono invece il Gran Khan mongolo, che per loro aveva una certa simpatia in quanto non-Han. Quasi per certo, sotto i mongoli, a Yangzhou e in altre aree c’erano nicchie di mercanti veneziani, genovesi e d’altre repubbliche marinare, con famiglie al seguito, e senz’altro preti, chiese e cimiteri.

Quando i Ming salirono al potere però furon dolori, e cominciò la “pulizia culturale” contro l’influenza straniera, che spazzò via, oltre ai mongoli, anche tutte le sette, le religioni e le minoranze considerate “non abbastanza cinesi”. E qui i cristiani diventarono fuorilegge: ma si sa, le persecuzioni d’ogni tempo han fatto solo la fortuna dei cristiani; mentre i Nestoriani praticamente scomparvero, con l’aiuto di tanti missionari i cattolici prosperarono e riuscirono anche, dopo qualche generazione, a farsi dichiarare legali. In questo periodo arrivarono anche i protestanti, che volevano la loro fetta di anime cinesi, con un bel po’ di aiuto finanziario da parte dei Paesi del Nordeuropa e degli Stati Uniti.

All’inizio fu dura, ma batti che ti ribatti arrivò il momento dei cristiani, quando la dinastia Ming fu soppiantata dai Manciù, ben più tolleranti e, con la decadenza dell’Impero, l’indebolimento dell’autorità imperiale e la piaga dell’oppio, si sentì il bisogno di spiritualità e ci fu un’esplosione di conversioni. Qualcuno andò anche troppo in là, come un signore chiamato Hong Xiuquan nel 1837, in seguito a una forte febbre che gli diede delle visioni, si proclamò figlio di Dio e fratello minore di Cesù Cristo e dichiarò di aver ricevuto la missione di purificare la Cina dall’idolatria. Nel 1851 dichiarò il Regno del Padre in Terra (Taiping Tianguo, 太平天国), con alcune decine di migliaia dei fedeli schiacciò un battaglione imperiale e comnciò a conquistare la Cina, imponendo leggi draconiane contro tutti i comportamenti viziosi, quali prostituzione, gioco d’azzardo, alcool, tabacco, oppio, schiavismo, poligamia, ecc. Nulla lo fermò fino al 1864 quando, ormai padrone di mezza Cina, fu avvelenato dai suoi seguaci durante l’assedio di Nanchino. Giorni dopo l’esercito imperiale, alleato a un plotone internazionale, entrò in città e cominciò la mattanza di tutti quelli che erano suoi seguaci.

Da allora in poi in Cina il Cristianesimo e i missionari non furono ben visti, nonostante tutti i sopravvissuti avessero avuto cura di dichiarare Hong Xiuquan eretico. I preti cristiani vennero assimilati a qualli buddhisti, ovvero, nell’immaginario comune cinese, dei “predica bene e razzola male”, dei bacchettoni repressi che di notte si ubriacano, violentano vergini e toccano i bambini. Qualche volta ci scappò il morto, ma mai tanti quanti nel 1899, quando la rivolta dei “Pugni della Giustizia e della Concordia” (Yihequan, 义和拳), anche detti Boxer, che inspirati dal grande Buddha del futuro decisero di spazzare via tutti i preti e i loro fedeli, sia stranieri che cinesi, dalla Cina. I Boxer vennero sconfitti, ma non prima di aver sterminato tanti ma tanti cristiani.

Le acque si calmarono quando qualche anno dopo venne fondata la Repubblica di Cina, e il Presidente eletto e principale promotore della democrazia, il Dott. Sun Zhongshan (anche detto Sun Yat-sen perché era cantonese) guarda un po’ aveva studiato in Europa ed era un convertito protestante. Ma quelle stesse acque si misero molto male qualche anno dopo, quando al potere ci andò invece il Sig. Mao Zedong, la cui posizione religiosa era molto vicina a quella di Karl Marx. Tanto vicina che nel 1949 espluse i missionari e nel 1966 fece chiudere tutte le chiese e mandò i preti a imparare dai contadini, e solo dal 1979 i luoghi di culto vennero di nuovo, lentamente, aperti. Solo che, per evitare che sorgesse un ennesimo capo religioso che voleva ribaltare il Paese in nome di qualche ideale, tutti i vescovi (come del resto gli abati buddhisti, i maestri taoisti e gli imam islamici) dovevano essere nominati dal Partito Comunista.

I protestanti non protestarono, gli ortodossi avevano poco da lamentarsi, che in Russia si stava peggio, ma i cattolici alzarono la voce. Questa cosa dei vescovi nominati dal potere politico laico non si vedeva dai tempi di Ottone di Baviera e i suoi parenti del Sacro Romano Impero. Quindi i cattolici si divisero in due – quelli che accettavano i vescovi di Pechino, ovvero l’Associazione Cattolica Patriottica Cinese, e quelli che invece volevano gli anti-vescovi di Roma, promossi da preti-spia infiltrati a evangelizzare le masse cinesi, i ribelli Cattolici Romani che si riuniscono in chiese segrete sottoterra o in case private.

Ad oggi è difficile stimare quanti cristiani ci siano in Cina: il governo dice 4 milioni di Cattolici (Tianzhu Jiao, 天主教) e 10 milioni di Protestanti (Jidu Jiao, 基督教). Qualcuno più obiettivo dice semplicemente 54 milioni in totale, 39 milioni i Protestanti e 14 milioni i Cattolici, più un generico milione di ortodossi e altri gruppi più o meno eretici. Mica pochi, anche se su una popolazione di 1,3 miliardi. Si può certo affermare che il Cristianesimo ormai appartiene alla cultura cinese: furono i cristiani a fondare in Cina i primi ospedali, a formare i primi infermieri, ad aprire le prime scuole moderne, ad abolire la fasciatura dei piedi, la schiavitù dei servi, nonché a lanciare l’idea del lavoro volontario a scopi di carità e la distribuzione di cibo ai poveri. Furono strenui oppositori del traffico dell’oppio e molto fecero per curare coloro che ne erano dipendenti. Esiste ormai una meravigliosa arte religiosa – un’amica ha un negozio che vende intagli in legno, con scene di natività cinesi, e persino un’arca di Noè fatta a giunca e trasportata da un drago.

Una storia locale antica, un bel contributo a una civiltà così importante, non ammettono in alcun modo certi giudizi per cui il Cristianesimo sarebbe una “religione straniera”. Discutibile invece la diatriba tra Roma e Pechino sull’elezione dei vescovi – entrambe le parti hanno le loro buone ragioni, quindi confido che un giorno si metteranno d’accordo. Grazie al Cielo sia il Vaticano che la Cina sono abbastanza antichi da comprendere perfettamente che i cambiamenti, per essere efficaci, richiedono tempo e cura, e nessuno dei due ha fretta di portare a casa un risultato di facciata.

L’altro giorno ero in ascensore e c’era la donnina ribelle Cattolica Romana che mi guardava. Le ho sorriso, e lei dal libretto delle preghiere ha tirato fuori un’immaginetta di Gesù Cristo, con una preghiera scritta in cinese. Mi ha fatto tenerezza, l’ho ringraziata e l’ho vista felice. Chi l’avrebbe mai detto che, per riconciliarmi con quella fede che tanto ho odiato da adolescente, avrei dovuto venire in un Paese ufficialmente ateo e comunista? Forse il mio odio non è mai stato contro la religione, ma contro il potere e la sua sfacciata propaganda beghina. O forse è solo il mio amore per gli anacronismi che mi fa provare simpatia verso questi rivoluzionari seguaci del Papa. Certo è, che la Cina è un Paese ben strano e diverso dall’Italia!

2008-02-11

Distanza

E’ il pomeriggio del 3 gennaio 2007, e mi sveglio con una bella luce luminosa che filtra dalla tenda. Tra le mie braccia dorme la mia Dandan. C’è silenzio. Nella camera di fianco non c’è nessuno, perché i miei genitori sono partiti stamattina per l’Italia, dopo tre settimane di permanenza in Cina dove ho dovuto seguirli ad ogni passo per superare la barriera linguistica e culturale di questo Paese. Questa sera, anche il mio Amore partirà per tornare a casa, e non la vedrò per più di un mese.

E’ allora che la tensione mi cala e improvvisamente mi rendo conto del vuoto che mi aspetta da lì a poche ore. Non ho avuto molto tempo di pensare a me stesso in queste settimane, di fermarmi e ragionare su tante cose, ma ora mi rendo conto che, con la partenza di tutti quanti, mi casca addosso una fottutissima emotività a lungo repressa. Il silenzio della casa mi disorienta, il pensiero dell’abbraccio ai miei, all’aeroporto, e delle regolari lacrime di mia madre mi ferisce. Mi rendo conto improvvisamente che, per quanto sia felice a Pechino, i miei genitori stanno a Milano, Dandan a Chengdu, e tanti buoni amici sparsi per il mondo, un po’ ovunque tranne che qui.

Un momento di panico, causato dalla domanda – che ci faccio io, poi, qui? – lascia per fortuna traccia alla serenità. La risposta la so: qua sono quello che voglio essere. Anche se adesso sono solo, non ho paura, né voglio scappare verso il conforto di qualcuno. In questo luogo sono felice, un bel po’ più di quanto lo ero a Milano o a Shanghai, sono felice di quello che ho fatto e quello che sto facendo. Soddisfatto di dove sono arrivato e di dove sto andando. Lavoro dignitosamente, mi mantengo da solo, ho una casa mia e una vita mia. Sono padrone di me stesso, libero nel corpo e nella mente, senza vergognosi compromessi dettati da una supposta necessità, da bisogni emotivi o da improbabili doveri morali.

E anche se fa male veder partire tutti, sapere che le persone a cui vuoi bene son lontane, è proprio perché vuoi loro bene, perché hai rispetto per loro e per te stesso, che decidi di non seguire i loro consigli, e stare dove stai. Perché qui sei libero, come il vento che spira l’inverno dal Nord.

2008-02-03

Viscidume laowai

Per ogni stereotipo c’è una base di verità. Non è un caso che in Cina i laowai siano considerati viziosi e viscidi: molti stranieri si danno ben da fare per perpetuare i preconcetti dei cinesi, e non parlo solo dei cinquantenni che vanno al Maggie’s, ma dei giovincelli, che poi sono quelli più schifosi.

E’ appunto con uno di questi personaggi che mi scontro la notte di Capodanno al China Doll. Dandan non vuole ballare, è stanca, ma la musica è bella ed è Capodanno – diamine, Amore, datti una mossa. E’ così che, mentre siamo sulla pista da ballo, ci si avvicina la creatura.

La creatura è un francese – e quindi cominciamo subito malissimo. Avrà più o meno la mia età, ma tutto l’alcol che ha in corpo gli ha buttato addosso una decina d’anni: pupille offuscate, sudato fradicio, camicia aperta a rivelare un petto magro e glabro, capelli piuttosto lunghi e ricci, anche quelli fradici di sudore. Fa fatica a stare diritto, eppure ci si avvicina. Guarda Dandan, io guardo lui e sorrido di divertimento, ma nemmeno mi nota. Le prende la mano. Dandan mi guarda stupita, gli sorride e gli dice qualcosa. Il francese sembra confuso, poi le prende l’altra mano, e gliela bacia sornione, ciondolando per cercare di stare in piedi. Forse sta cercando di ballare. Io continuo a sorridere, ma il mio sorriso sta cambiando dal divertito allo scocciato, solo che non voglio fare l’uomo geloso e aspetto che sia Dandan a scaraventarlo lontano. Lei mi guarda interrogativa, ma non reagisce. Il francese cerca di ballare con lei, ciondola, si inchina, le bacia ancora la mano. Comincio ad allarmarmi quando lui le alza le mani e avvicina pericolosamente il suo viso a quello di lei. Fulmino Dandan con lo sguardo, lei continua a guardarmi indecisa, enigmatica. Ma che le passa per la mente, perché non gli tira un ceffone? Continuo a guardare il francese, sorridendo sempre più tirato come a dire “Ma mi vedi, sono il suo ragazzo!”. Non credo che si renda conto che sono lì, o semplicemente è francese e quindi esperto nel trattare le persone come merda.

Allunga le mani verso la vita di Dandan attraendola a sé. Il mio braccio si frappone, e la prendo tra le mie braccia. Gentilmente ma con fermezza, sposto il francese di un passo indietro. Sorride con faccia stronza, si inchina, e retrocede.

“Perché ci hai messo tanto a interromperlo?” mi chiede lei.

“Aspettavo che lo facessi tu da sola. Ma che ti salta in mente di sorridergli e lasciarti tenere la mano?” chiedo io.

“Non è un tuo amico?”

“NO!”

“Ma gli sorridevi! Io ti guardavo, tu non facevi nulla, ho pensato che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi” protesta.

“Ma non lo vedi che è francese?!?” protesto io.

“Francese? Io gli ho detto ‘Ciao, come stai?’. Ecco perché ha fatto quella faccia strana. Ero convinta che fosse italiano. Ero veramente in imbarazzo”

“La prossima volta che qualcuno ti mette in imbarazzo in questo modo, anche se è mio amico, sei autorizzata a tirargli un pugno” dico.

L’incomprensione è stata quasi fatale, ma tutto è bene quel che finisce bene. Dandan è salva tra le mie braccia e si stringe a me. Ci baciamo, ridendo.

Più in là, il francese si è completamente slacciato la camicia e cerca di abbracciare un’altra ragazza cinese. Questa lo spinge via, facendolo cascare contro la parete, e se ne va infastidita insieme alla sua amica. Il francese sembra offeso, si rialza a fatica, ma un minuto dopo balla come un tarantolato e ne ha già puntata un’altra.

Brutta gente, si trova in giro. Bisognerebbe smetterla di venire in Sanlitun. E pensare che una volta mi piaceva questa zona.

Neve

Nell’inverno asciutto della steppa le nevicate sono rare, speie quelle abbondanti, ma solitamente accade che, un paio di volte l’anno, Pechino sia imbiancata. E’ una Pechino speciale quella bianca – sembra ancora più lenta, più pigra, in alcuni luoghi antichi ancora più addormentata sotto il peso del suo passato, avviluppata in un silenzio solenne testimone di Storia.

Porto con i miei al Parco di Jingshan, sempre e comunque frequentato da innumerevoli pensionati, e insieme scaliamo la china, i vecchi scalini resi pericolosi dal ghiaccio, e i pini e i bambù imbiancati. Sulla sommità del monte, ci godiamo la vista di una città grigia e bianca, di parchi fatti di alberi spogli e laghi completamente ghacciati, in cui molte barche giacciono intrappolate, e su cui alcune persone, grosse come formiche, pattinano. I tetti ricurvi della Città Proibita sono bianchi e gialli e formano una simmetria piacevole, mentre in lontananza le forme di piazza Tian’anmen appena si intravendono nella nebbia che sta salendo.

Scendiamo per il sentiero tortuoso, passando un vecchio cancello d’epoca Yuan, quindi i palazzi di Di’anmen progettati da Liang Sicheng, e torniamo indietro al fossato della Città Proibita, oggi circondata di bianco. Il sole scende, la bruma si infittisce, e noi chiamiamo un taxi. Fuori dal finestrino scorrono scene di una fredda giornata di neve, così tranquilla, così affascinante, a Pechino.