Chi vive in Cina ed è straniero prima o poi da Hongkong ci passa, se non per lavoro o per turismo, almeno per un visto, perché ad Hongkong, fino al 2007, si può fare un visto business di 6 mesi in meno di 4 ore, senza necessità di alcun documento se non il passaporto. Comodo, no?
A Hongkong c’ero già passato tempo fa, appunto per fare il visto, ma ci ritorno per incontrare uno che smercia carne importata da Australia e Stati Uniti ai ristoranti e supermercati dell’ex colonia, ma sottobanco contrabbanda prosciutti italiani verso la Repubblica Popolare. Il tizio in questione, general manager di un’azienda ben avviata, meno di trent’anni, etnia filippina, ex modello, elegantissimo e gentile, mi spiega che a notte fonda si carica il prosciutto nel porto su un container che, prima dell’alba, arriva su una spiaggia da qualche parte in Cina continentale, dove l’aspetta un camion per trasportare il Parma e il San Daniele in tutto il resto del Paese. Se va bene, la guardia costiera non ti ferma. Se va male, l’equipaggio si dà alla fuga e il carico è perso, però esiste anche l’assicurazione, per cui se paghi un tot di più ti rimborsano la perdita. E’ un business avviato da anni e anni e che fa volumi impressionanti. Perché se sono illegali i prosciutti ma nessuno controlla, io nel contaner ci posso mettere anche a cocaina, gli AK47 e i rifiuti nucleari. Di norma però quello che ogni notte viene contrabbandato da Hongkong alla Repubblica Popolare sono altre merci, praticamente tutto quello che la Cina importa già da sé ma che tassa, da Hongkong arriva esentasse, spiaggiata all’alba da qualche parte nel Guangdong. Se vi capita di mangiare prosciutto in un ristorante in Cina, con il 99% delle probabilità ha fatto questa strada. Nel’1% delle probabilità è arrivato tramite canali diplomatici, per manifestazioni regolari o perché un impiegato ha prestato il tesserino diplomatico a un amico in cambio di soldi o favori. Ma ci sono centinaia di altri casi di merci non importabili o eccessivamente tassate, che vengono traghettate. Poi, è ovvio che la polizia da entrambe le sponde sa tutto, ma a Hongkong è sul libro paga della mafia, e nella Repubblica Popolare anche, o in alternativa gestisce direttamente da sé il contrabbando.
Ma sto divagando: Hongkong. La prima cosa che si nota è che la gente parla inglese. Va bene gli occidentali, va bene gli indiani, capisco anche i filippini, ma che i mendicanti e i venditori ambulanti di sigarette cinesi mi chiamino con “excuse me, Sir” invece che “Aloooò?” mi fa veramente strano. La seconda cosa che si nota è che manca spazio: le stranze sono strette, i soffitti sono bassi, i grattacieli sono tutti altri almeno 30 piani, e costruiti uno accanto all’altro, addirittura molti collegati. Dalla finestra del mio hotel in Canton Road vedo un cortile stretto stretto all’ombra di palazzi altissimi su quattro lati, e al centro cosa stanno costruendo? Un altro palazzo, ovviamente! La terra è scavata per decine di metri, ed è possibile spostarsi per tutta Hongkong senza vedere la luce del sole. La maggior parte della gente, che vedi nelle bottegucce a vendere qualunque cosa a qualunque prezzo, probabilmente la luce non la vede se non nei week-end. Mi fanno pena, sembra che abbiano tutti la febbre, questi strani cinesi scuri, bassi, brutticchi, questi figli della Cina adottati dal capitalismo da paradiso fiscale, e scampati al Partito Comunista. I cinesi del continente li chiamano “banane”, perché dicono che sono gialli fuori e bianchi dentro.
La terza cosa che si nota è che non puzza. Uno col tempo si abitua alla Cina, o all’Asia se volete: da nessun’altra parte nel mondo c’è questo odore. Ogni posto ha il suo, in Asia: a Madras è quello del curry, a Shanghai quello dell’olio fritto o del tofu puzzolente, a Pechino è l’aglio e l’aceto, e così via. A Hongkong no, è come stare in Europa, l’aria odora di aria, al massimo di porto se uno è vicino all’acqua, ma nemmeno tanto. L’unica cosa che puzza siete voi, perché arrivate dall’Asia, e vi vergognate, perché ieri stavate facendo i colonialisti, magari tirando fuori tre banconote da 100 kuai per comprare la ricarica del telefono, o addirittura vi facevate trasportare in risciò, con questo senso di superiorità rispetto alla gente locale, e qui i campagnoli puzzoni siete voi, non tanto per colpa vostra, ma è che se vivete in Asia non c’è doccia che tenga, l’odore vi si riappiccica addosso in dieci minuti, a voi, ai vostri vestiti, e a tutte le vostre proprietà, dal computer all’accendino. Annusate tutto a Hongkong, dopo una doccia, e vi rendete conto di quanto la vostra vita puzzi. Non è una bella sensazione.
Hongkong mi mette ansia, è una città ansiogena. La gente vive a Hongkong per fare soldi, tutti hanno in mente solo quello, tutti sono stressatissimi. Allo stesso tempo, siccome hanno vissuto sotto i britannici, hanno delle regole ferree, di cui la peggiore è il divieto di fumare. Non si può fumare nei locali pubblici; si può fumare per strada ma solo in alcune zone, e vi sfido tra l’altro a fumare in una strada gremita di gente che vi spintona perché ha fretta. Non si possono buttare però le cicche per terra, bisogna trovare un posacenere pubblico. Solo che ce ne sono pochi, quindi mi capita di stare fumando, e improvvisamente la strada finisce, ovvero si immette in un tunnel sotterraneo perché sul marciapiede hanno costruito un grattacielo. Non posso entrare con la sigaretta nel tunnel, ma non la posso buttare perché non c’è un posacenere. Nel frattempo la gente mi spiantona. Che fare? La spengo sulla suola della scarpa, entro nel tunnel e la tengo in mano per venti minuti, fino a quando mi stufo e, mentre nessuno guarda, la butto in un angolo. Eccheccazzo. Il traffico è delirante. Le strade diritte non esistono, sono curve continue e trecentossessanta gradi: destra, sinistra, in su, in giù, scale a chiocciola a profusione, ponti, sottopassi, entrate del metrò. Ovunque c’è gente, ovunque c’è qualcosa in vendita. Immaginate che so, la Rinascente sotto Natale, però con trenta piani, diversi milioni di abitanti e mezzi pubblici e taxi per spostarsi. Però è sempre la Rinascente sotto Natale. Devo fare il visto, bene: serve una foto, chiedo di farla, ma non me la possono fare, devo andare dal fotografo. Dove? Mi danno indicazioni, giro mezz’ora per un aeroporto costruito sulla laguna (che non c’era spazio) e pieno, tanto per cambiare, di gente e negozi, ma del fotografo nessuna traccia. Ci sono venti agenzie di visti che parlano quindici lingue diverse, ma per la foto serve il fotografo che è uno solo e nascostissimo. Ma perché non vi portate la polaroid come fanno in continente? O una normalissima macchina digitale con stampante? No, qui la burocrazia l’hanno fatta gli inglesi. Totale, non riesco nemmeno a fare il visto.
Quando ritorno a Pechino, e mi trovo davanti la faccia grigia della guardia che mi squadra e confronta il mio viso con la foto sul passaporto, sorrido. Nella grande sale grigia, in cui l’unico colore è l’affresco della Grande Muraglia, non mi sento spintonato. Son contento d’essere tornano nella Repubblica Popolare, la prossima volta, anche se serviranno due settimane, il visto me lo faccio qui. Ah, che pace Pechino.