2007-11-17

Ipermercato

A Pechino non ci sono solo supermercati scrausi come il Jingkelong, ma anche ipermercati, alcuni appartenenti a catene straniere, che servono clienti più ad alto livello. Lavorando nel campo alimentare, ormai mi sono fatto una discreta cultura in termini di grande distribuzione, tuttavia non mi sono ancora abituato all’ipermercato cinese.

Di diverso da un normale iper italiano ci sono tante cose: anzitutto gli odori. Il cibo fresco sfuso la fa da padrone: grandi cassoni pieni di riso, di ravioli cinesi, di frutta e verdura. Banco carne titanico con macellaio intutato, guanti e mascherina che dà di mannaia su una carcassa d’animale, poi pesa il pezzo ancora sanguinolento e lo infila nel sacchetto per la sciura di turno. Banco rosticceria altrettanto titanico che serve qualunque xiaochi possibile, anche qui ragazzi e ragazze sui vent’anni o meno che servono una marea di clienti, e alle spalle gli impiegati un po’ più maturi che fanno le preparazioni. Pure qui guanti, cappello, mascherina. Il dubbio che la mascherina non sia solo per evitare che gli inservienti starnutiscono e scaracchino sulla merce, o ravanino nel proprio naso, è legittimo: probabilmente il maggior beneficio della maschera bianca è trattenere una parte degli odori del supermercato, che attaccano alle radici del naso e nella gola appena si entra.

Un secondo elemento di differenza sono le mosche. Sì, non si sa perché la sezione cibi freschi della maggior parte dei supermercati è il regno delle mosche, che volano liberamente per il punto vendita posandosi su tutto quello che riescono a trovare, mentre la gente fa finta di non vederle, per abitudine o semplice negazione tipicamente asiatica dell’imbarazzante evidenza.

Terza differenza sono gli scaffali pieni: non come in Italia, dove ogni prodotto ha il suo spazio, e ogni tanto se è esaurito lascia un buchetto triste nella parete fatta di scatole e pacchetti. Qui lo spazio è poco e va sfruttato al cento per cento, il che significa accatastare tutti i prodotti possibili uno sopra l’altro, con gran confusione rispetto alle etichette dei prezzi. La confusione è tra l’altro aumentata sia dai clienti che prendono il prodotto, lo esaminano curiosi per dieci minuti, poi lo rimettono a posto ma in un posto diverso da quello in cui era prima; sia dai cosiddetti merchandiser, quelli che vanno a controllare il prodotto della loro azienda sullo scaffale, risistemano i pacchetti se sono in disordine, e già che ci sono fanno in modo di riempire lo scaffale della loro merce coprendo quella dei concorrenti, acutamente spostata nei recessi meno raggiungibili al cliente; almeno fino a quando il merchandiser concorrente arriva e inverte le posizioni dei prodotti.

La differenza che però risulta più fastidiosa è la presenza dei promoter. Merchandiser e promoter ci sono anche in Italia, sono un’invenzione del marketing americano esportata poi in tutto il mondo. Ma mentre nei Paesi occidentali costoro sono relativamente rari, magari uno o due per punto vendita, in Cina ce ne sono a squadre, uno di fianco all’altro a farsi la concorrenza. Solitamente davanti ai bancali, dove il corridoio è più largo, ce n’è una fila interminabile. Quelli fortunati stanno in piedi davanti allo scaffale dove sono i loro prodotti; quelli meno fortunati hanno mascherina e guanti di plastica trasparente scomodissimi, un banchetto largo quaranta centimetri col logo dell’azienda e un’uniforme fuori misura con i colori e i loghi aziendali, spesso fatta in plastica così costa e si usura meno. Sul banchetto c’è alternativamente un piatto di plastica con un vasetto di stuzzicadenti, e il prodotto solido da far assaggiare tagliato a dadini talmente minuscoli che è impossibile capire il gusto; oppure il prodotto liquido servito in bicchieri di plastica da caffè, i più piccoli sul mercato, riempiti a un quarto della loro capacità.

Il comportamento tipico del consumatore cinese è quella di lanciarsi sul cibo o sulla bevanda appena entra nel suo raggio di visuale, strafogarsi il più possibile, non fare neanche finta di ascoltare il promoter, sgomitare per un po’ con i concorrenti nell’abbuffata e poi smettere di lottare, in modo da essere naturalmente trascinato dalla folla lontano dal banchetto.

La vita del promoter non è facile in Cina, e probabilmente per questo motivo gran parte dei promoter decide di rendere la vita impossibile a tutti gli altri esseri umani presenti nel punto vendita. E qui viene la grande differenza tra Occidente e Asia: perché il promoter, o più spesso la promoter, comincia a gridare a pieni polmoni una cantilena atta ad attrarre il cliente, con un tono il più possibilmente acuto, spesso puntando direttamente alle orecchie della vittima più vicina che si pente di aver girato la testa presentando scioccamente il padiglione auricolare al nemico. La reazione istintiva dello straniero, non abituato a questo genere di marketing, è quella si sferrare un pugno il più forte possibile verso la sorgente del fastidiosissimo rumore, ovvero la bocca della promoter; se ha la mascherina a coprire la bocca, colpire la mascherina, che comunque anche il mento o il naso come bersagli vanno benissimo.

Se uno non c’è mai stato, non può immaginare cosa significhi stare nel corridoio di fronte ai banchi, circondato da ragazze intutate in plastica che gridano acutissime una tiritera incomprensibile, magari in cinque che presentano cinque diversi prodotti, e due di esse dotate di microfono, mentre davanti le sciure cinesi col carrello si fermano ad assaggiare o ravanare nella cesta dei jiaozi freschi, dietro altre sciure cinesi spingono e si lamentano, e nel frattempo al di là del banco un tizio che pare in tenuta anti-guerra batteriologica maneggia la mannaia a mo’ di taglialegna per staccare un bel pezzo di carne rossa da una mezzena bovina che, a giudicare dall’odore, non è stata mai conservata a temperature più alte di dieci gradi, oppure discute ad alta voce, per sovrastare le promoter, con una sciura infuriatissima sul peso del pesce da lei ordinato che, per la cronaca, nel frattempo viene assalito da un nugolo di mosche.

Chi sopravvive a questo tipo di supermercato, senza cedere alle pulsioni violente, pur giustificatissime, può sopravvivere a tutto. C’è chi dice che la pace interiore si raggiunga isolandosi dal mondo sulla vetta di una montagna inaccessibile, recitando mantra su mantra. Ma sappiate che per raggiungere la pace interiore, la vera scuola è questa. Se potete uscire dal punto vendita con il sorriso, allora siete veramente vicini alla buddhità.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

l'ho provato anch'io e hai assolutamente ragione. Manca una cosa: le uova. perchè le vendono sfuse? non arrivano mai tutte intere alla cassa ammasate nei sacchettini che in occidente si usano per la verdura... una sciura mi ha colato tutta la sua frittata prematura sui sandali.

Anonimo ha detto...

Io sono sopravissuto al discount Pracchi, va bene uguale?

Anonimo ha detto...

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Anonimo ha detto...

Penso che in questi casi la realtà superi la fantasia, mi è venuta l'ansia solo a leggere la tua (peraltro efficacissima) descrizione. Penso tu abbia ragione: la vera sfida è non lasciarsi dominare dalle cose, dal consumismo, dall'avere e dal possedere, vivendoci in mezzo. Come mantenere un rapporto sano con il cibo avendo un ristorante: ecco il mio obiettivo per il prossimo futuro.
Un abbraccio, Kià

Anonimo ha detto...

sono stata in Cina e sono pienamente d'accordo con te sia sui supermercati che sui taxi!
ti fanno impazzire