2007-09-20

Ti-la-mi-su

Il Maestro Kuang, grazie alla sua lunga esperienza nell’ambito agro-alimentare, ha per passione approcciato il mondo della cucina, e sebbene non si possa certo dire che sia un buon cuoco, ci sono delle ricette che conosce benino. La più famosa di esse, che ha sciolto numerosi flirt e reso estatici molti amici, è il Tiramisù. I cinesi vanno matti per il Tiramisù, lo conoscono tutti, il Ti-la-mi-su, qualunque ristorante un po’ trendy, anche quelli cinesi ma di classe, lo tengono in lista tra i dessert. E’ IL dessert per eccellenza, in Cina, insieme alla cheesecake americana.

Fare il Tiramisù in Cina non è cosa semplice: la cucina italiana si basa sugli ingredienti, e se questi non sono disponibili, oppure non sono quelli originali, il gusto necessariamente cambierà. Ecco la lista di tali ingredienti per 4 persone:

Crema:

Mascarpone 250g – lo so che lavoravo per loro e suona falso, ma ora non ci lavoro più e lo posso dire: il Mascarpone Galbani spacca. E’ più giallo e più cremoso, e non fa mai sorprese. In alternativa potete usare altri Mascarponi disponibili qui, come il Ciresa o quello della Metro. Attenzione a usare il Kapiti e altri mascarponi australiani e neozelandesi, non garantisco che abbiano stesso gusto e consistenza, quindi le dosi dovrete aggiustarle da voi. In ogni caso il 90% dei ristoranti/bar qui pensa che il Mascarpone sia troppo costoso, e quindi lo sostituisce con panna da montare.

2 Uova – Auguri. Chiunque è stato in un Paese normale ha capito che la catena del freddo è una grande invenzione che appartiene alla modernità recente. Chi lavora nel settore sa anche che tale catena è spesso un mito, perché pure in Italia col cazzo che le temperature giuste vengono rispettate dalla produzione alla vendita del prodotto. In ogni caso, attenzione alle uova in Cina: le trovate ovunque tranne che nel frigo, e non c’è verso di sapere da dove vengono e quanti giorni hanno. Una volta ci si doveva votare ai santi, ed è significativo che comunque in Cina anche le verdure crude siano guardate con sospetto, figuriamoci le uova; i cinesi cuociono tutto quello che mangiano. Ma oggi i tempi sono cambiati: siate intelligenti e affidatevi al popolo più anale del pianeta, i giapponesi, che nei supermercati di loro proprietà, 7/11 e Ito Yokado, hanno le uova marchiate con data e stoccate in frigo. Esistono, credeteci! Poi se provate il Tiramisù in un ristorante qualunque vi accorgerete che è sempre bianco, e non è solo per la panna invece del Mascarpone. Le uova a crudo sono illegali in Cina. Qualche chef italiano illuminato se ne frega e usa uova pastorizzate, qualcuno le pastorizza da sé (no, in cucina voi non potete farlo!), ma tutti gli altri si dimenticano allegramente l’ingrediente ingiallente.

Una bella cucchiaiata di Zucchero – andate a piacere, ricordatevi che il Tiramisù non deve essere mai, MAI troppo dolce. Nel dubbio addolcite di meno, assaggiate, e aggiungete se occorre. Manco a dirlo il Tiramisù alla cinese è maledettamente stucchevole.

Un goccio di Marsala Dolce – originariamente il Marsala si aggiungeva alla crema per disinfettarla da eventuali germi presenti nelle uova. Ora, lo so che il Marsala Dolce non si trova facilmente in Cina (lo vende solo la mia attuale azienda, haha!), per cui o chiamate il Maestro Kuang che vi fa avere una bottiglia, oppure vi arrangiate. Potete usare il Marsala Secco (ma il gusto è un po’ più forte), lo Zibibbo o la Malvasia Dolce (vanno benissimo), con molta fantasia anche qualunque vino liquoroso bianco, tipo Tokaij o Vin Santo (non ho mai provato, ma potrebbe essere interessante). In un momento di disperazione un giorno senza Marsala ho usato il brandy della Changyu, RMB 18 a bottiglia, e ragazzi non era male! Siate creativi, l’importante è che sia alcolico e dolce, non modificher il gusto generale più di tanto. Siccome in Cina non si usano le uova, non si usa nemmeno un alcolico per disinfettare.

Struttura

Savoiardi – finché ne riuscite ad usare. Il vantaggio dei savoiardi è che sono spugnosi, e quindi assorbono il caffé da Dio, sono croccanti, e quindi non diventano troppo molli, e che sono zuccherati, e quindi bilanciano bene la dolcezza del Tiramisù. Si trovano quasi ovunque, al Jenny Lou, al Carrefour, al Freshmart se siete a Shanghai. Molti usano la “sponge cake”, ma le mancano croccantezza e zucchero, e andrebbe usata per il pan di spagna e altre preparazioni. Ho conosciuto gente che, in mancanza d’altro, ha usato plum cake alla banana. Quel Tiramisù, quasi subito gettato nella spazzatura, credo che ancora ululi sul fondo di un pozzo in quel di Shanghai, gridando vendetta al cospetto di Dio.

Caffé – che sia espresso, per Dio. Il caffé espresso è il sangue del Tiramisù, senza quello nulla ha più senso. Eppure qui nessuno apparentemente collega espresso e Tiramisù. Chi usa il caffé usa quello americano. Se no semplicemente non lo usano, come la mia ex collega franco-vietnamita, che spacciava sé stessa come Marketing Director nel settore alimentare, e sosteneva che il Tiramisù si può fare con Mascarpone e Savoiardi e basta, il resto – caffé, cacao, ecc - è accessorio. Tralasciando che ho anche conosciuto italiani che usavano il caffelatte, fate un favore a voi stessi e difendete la vostra cultura. Se poi uno che ha sangue francese apre bocca tirategli un pugno.

Copertura

Cacao in polvere – confesso, non l’ho mai trovato. Uso il Nesquik, che è già zuccherato e contiene conservanti e porcherie a go-go. Se sapete dove trovare il cacao in polvere a Pechino lasciatemi un commento. Comunque il Nesquik va bene, se ben dosato non pesa troppo sull’armonia del dolce.

Una volta procurati gli ingredienti la ricetta è semplice: per la crema, montate a parte l’albume dell’uovo, e in una bacinella mescolate tuorlo, mascarpone, zucchero e marsala. Unitevi l’albume montato fino ad ottenere una crema giallo paglierino, omogenea e leggermente dolce. Intingete i saviardi in un piatto fondo pieno di caffé, in modo che si inzuppino ma non si sfaldino, e disponeteli in fila. Coprite con la crema, e via così, uno strato di biscotti e uno di crema. Coprite spolverando il cacao il polvere, mettete in frigo e consumate il giorno seguente.

Oppure andate in un bar, ordinate un Tiramisù, e mangiatevi il pan di spagna ripieno di panna montata, guarnito con del cacao e spesso con della crema al cioccolato e frutta, che vi hanno portato. E guardate i cinesi attorno a voi annuire gravi: “Ahh, Tilamisu, wery Italian dessert!”.


2007-09-16

Nuove Prospettive

Cerco un lavoro decente da mesi, un po’ come la maggior parte delle persone a Pechino. E’ strano che le posizioni disponibili siano package da espatriato strapagato con rimborso totale di ogni spesa, oppure contratto cinese da schiavo, senza vie di mezzo. Solitamente il package da espatriato si ottiene solo con la fiducia dell’azienda, che non si costruisce in Cina da zero.

Ma c’è un altro problema, più importante della paga: il modo di lavorare. Le aziende italiane sono piccole e caute, non rischiano mai. Per invadere il “mercato da un miliardo e mezzo di consumatori” loro investono in una persona neolaureata che lanciano dall’altra parte del mondo, solitamente con l’ordine “guardati attorno”. La persona non capisce nulla, vuoi perché la Cina è una Paese difficile, vuoi perché non ha esperienza, vuoi perché nessuno gli ha spiegato bene cosa deve guardare, forse perché nemmeno l’azienda lo ha be chiaro in mente. Il ragazzo scrive report su report, che nessuno legge. Alle aziende italiane interessano numeri, poi se la Cina ha una cultura diversa chissene, se si vende in Francia e Svizzera perché non in Cina? Il ragazzo scrive e-mail, a cui nessuno risponde. Fa telefonate, in cui di solito non trova la persona che sta cercando e che non lo richiamerà mai. Quando la trova, la persona in Italia non lo ascolta, non lo vuole capire, e per paura di quello che sta scoprendo sulle difficoltà del mercato cinese rimuove il tutto dalla memoria e si dà tempo. Magari tra sei mesi se ne capisce di più, tutto diventa più semplice. Ah, la proattività delle aziende italiane!

Di tanto in tanto il management italiano, ovvero il proprietario provinciale e ignorante e il suo manager “venuto su dal niente”, che ha cominciato da magazziniere e ora, dopo trent’anni, ha guadagnato la fiducia del capo ed è stato promosso ad “export manager” senza sapere nulla né di export, né di management, né di inglese, vengono a vedere di persona. Cosa? Nell’ordine: il mercato dei falsi, i ristoranti italiani, le troie. Può capitare che poi in tre giorni di visita sati fuori mezz’ora per un meeting, in cui gli italiani non fanno parlare il ragazzo ma si limitano a dare disposizioni unilaterali tipo “trova dei clienti” oppure “vediamo se qualcuno vuole fare una joint venture”. Poi ripartono, e si ridimenticano del mercato cinese.

Poi succede che la TV italiana lodi le aziende locali che invadono il mercato cinese, anche se, si ricorda un minuto dopo, la Cina illegalmente importa oni tipo di merce costruita da bambini e operai sfruttati e distrugge l’economia italiana. Eh, il presidente Hu incontra Bush e gli dice che non abbasserà lo “juan” o il “remmìmbi”, e comunque sono degli stronzi con il Falungong e i tibetani, arrestano i giornalisti (ma magari lo facessero in Italia!) e non c’è libertà. Questo in sitesi il rapporto dell’Italia con la Cina.

Mi capita però di ricevere una telefonata di Santo, un amico che lavorava al Bookworm ed ora si è riciclato come manager del Courtyard, il ristorante più elegante della città. Pare che possa saltare fuori un lavoro, un amico gli ha presentato uno che forse vuole aprire un’azienda, e Santo a sua volta me lo vuole far conoscere. Tentar non nuoce.

Eccomi davanti al Courtyard, in versione presentabile, giacca cravatta e camicia stirata. Salgo le scale fino alla porta di vetro, entro nella sala bianchissima, coperta di dipinti d’arte moderna più che gradevole, raffiguranti donne cinesi in tensione tra modernità e tradizione, guardo oltre la parete a vetri da cui si ammirano il fossato e il muro della Città Proibita, e poi chiedo di Santo. Lo vedo affacciarsi da una scala a chiocciola di legno, e lo seguo al piano superiore dove, oltre una porta in legno, c’è la Cigar Room, un salotto in stile coloniale con poltrone in pelle di almeno trent’anni, vecchi quadri di pittori cinesi e una bella testa di buddha in pietra. Tutta la parete a sinistra è una vetrata che dà sulla Donghuamen.

Davanti a me, seduto su uno dei divani, un uomo sulla cinquantina. Pacato, elegante, gentile, si presenta e presenta il suo progetto. Lo ascolto a lungo, e tutto quello che sento sembra stranamente avere un senso. Che si tratti veramente di un imprenditore illuminato? Uno che non viene in Cina con tre lire per arricchirsi in sei mesi, per conquistare il Paese, per invadere il mercato, e poi tornarsene a casa con un fallimento alle spalle? Uno che ha capito che gli italiani in Cina possono solo lavorare sulla qualità, e non sul prezzo? Uno che ha capito che per lavorare bene bisogna stare bene, rispettare le persone e trattarle con dignità? Pare proprio di sì. Il mio uomo denota pazienza, acume, cognizione di causa. Quando ha finito la sua presentazione e io la mia, il mio commento è molto franco. “Offrimi le stesse condizioni che mi danno al momento, e sono con te”. Accetta senza troppa esitazione. La simpatia e la stima sono reciproche.

Io, Santo e il mio futuro capo brindiamo all’incontro con un bicchiere di vino. Se nelle prossime settimane non succedono disastri, dirò addio al business della carne suina, che francamente cominciava a disgustarmi, e comincierò quello del succo di Bacco.

Allora, alla Salute!

2007-09-08

Day day up

Uno dei rischi di vivere in un Paese alieno è quello di adattarsi troppo e perdere la propria identità, quello che la CIA, in riferimento ai propri agenti, chiama “going native”. Qualcuno ci casca anche qui, e non è bello.

Mi capita di rivedere Dom, l’australiano conosciuto alla festa dello Yoga Yard, una sera di novembre. Sta sempre studiando cinese in scuole coreane, e per mantenersi insegna inglese ai cinesi. Vive sempre nel suo appartamento di Wudaokou con la coppia afro-singaporeana. Ma le cose non vanno bene.

Dom è una macchina: studia, insegna, studia, insegna, mangia, dorme, ricomincia. Esce, quando capita, una volta ogni tre mesi, se no sta a casa con un dabao e un libro di grammatica cinese. Con la sparizione dei neri in Sanlitun non riesce nemmeno a reperire hashish, così affoga la sua stanchezza in una lattina di Yanjing.

Sarà per questo che non sta bene. Mi racconta di come sia cotto per una ragazza coreana, e di come tutta la sua scuola lo veda come un nemico pubblico, di come chiunque gli parli alle spalle, di come anche il professore lo umili pubblicamente per un qualche scopo misterioso. Anche a casa la situazione diventa pesante, e la coppia con cui vive parla sempre meno con lui e sempre più di lui. E’ come se qualcosa stia succendendo, qualcosa riguardante lui di cui tutti sanno tranne il diretto interessato. Non si sente a suo agio.

Gli consiglio di uscire di più – studia troppo, esce troppo poco, non ha amici stretti e non vede la sua famiglia da mesi, è normale che il suo cervello reagisca con complessi di persecuzione. No, non è possibile, mi dice, deve assolutamente passare l’esame di cinese – vuole una votazione alta per trovare un buon lavoro, per poter essere ricco e godere finalmente di un buon stato sociale, non essere più lo straniero strano e squattrinato ma il rispettabile avvocato australiano, e allora anche la ragazza coreana, che lo ama ma non può sbilanciarsi con lui, non avrà più remore sociali a mettersi con lui e insieme coroneranno la loro storia d’amore. L’unica è studiare, studiare, studiare, e interrompere solo per insegnare, e in tal modo pagare l’affitto e il dabao. Se uscisse di più sprecherebbe tempo per studiare e soldi, che dovrebbe recuperare insegnando. 好好学习,天天向上, cita uno slogan di Mao Zedong, “Studiare bene, migliorare ogni giorno”. La frase ha una ritmica tipica da Rivoluzione Culturale, nella mia mente evoca immagini di oceani di ragazzini con il fazzoletto rosso, tutti uguali, che ballando scattosi e marziali, inneggiano alla perdita dell’individualità nel Grande Conformismo Totalitario.

L’ho detto, è una macchina. Lo guardo, non riesco a commentare il delirio di monologo che ha appena effettuato. Forse se avessi davanti un asiatico potrei compatirlo, ma qui parliamo di Dom, Cristo.

“Forse a furia di stare con i coreani sto diventando coreano anche io” ammette, per rompere il mio silenzio.

Mi viene in mente una canzone dei No Use For A Name, appropriatamente intitolata “I’m Turning Japanese”

No sex, no drugs, no wine, no women

No fun, no sin, no you

No wonder it's dark

Everyone around me's a total stranger

Everyone avoids me like a cyclone ranger

Everyone


“Sì, caro mio” gli dico infine “non sei coreano; non sei cinese e nemmeno giapponese. Non è che devi per forza vivere nel lusso degli espatriati, sorseggiando champagne in un completo da ufficio. Ma nemmeno degradarti così – è inumano”

Dom intuisce che ho ragione, annuisce. “Va bene” decide infine “finito l’esame, basta con questa vita”

“Quando hai l’esame?” chiedo.

“Tra otto mesi” risponde candido.

Oooocchei.

That's why i'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so

I'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so

I'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so

I'm turning Japanese, I think I'm turning Japanese

I really think so

2007-09-02

Welcome to Beijing Taxi

Ah, i tassisti di una volta! Mi ricordo di quando anni fa uno saliva su un taxi, grugniva una strada e il tassista partiva. Lineare. Ma i bei tempi sono andati, perché a partire dal 2005, con l’adozione dei nuovi taxi e bicolore e l’aumento in numero delle macchine a servizio, le aziende di trasporto hanno cominciato ad assumere gente dalle campagne.

Per capire il fenomeno è necessario sapere che un tassista a Pechino guadagna circa 1000 RMB al mese, facendo di solito 12-14 ore di guida al giorno. In molte famiglie il taxi si divide in turni di 12 ore, così si può usare al massimo e, ammortizzando l’affitto del veicolo, si porta a casa da mangiare. Non è raro vedere tassisti con la testa che ciondola dal sonno, a qualunque ora del giorno.

Non sorprende quindi che, con il benessere che aumenta, a Pechino nessuno voglia più fare un lavoro di merda come il tassista. E con la carenza di schiavi, l’unica possibilità è trovare gente dale campagne che si accontenta di questa vitaccia, solo perché nel loro villaggio vivono peggio.

Il guaio è che questi contadini trasformati in tassisti da un giorno all’altro, oltre a guidare male, ma a questo c’eravamo abituati, non ha idea della geografia della città. Mi capita diverse volte di trovarmi davanti persone che, alla mia richiesta di andare all’aeroporto, rimangono sconcertati e, dopo qualche minuto, confessano di non sapere come arrivarci.

“Sono desolato” dicono, affranti “non so come arrivarci”

Li guardo apatico: “Ti sentiresti meglio se io scendessi?”

“Sì” annuiscono gravi “E’ meglio se prendi un altro taxi. Lui sicuramente saprà come fare”

E’ sempre più frequente che io debba spiegare al tassista la strada – destra, sinistra, inverti, bravo vai di lì. E non è che debba andare in vie sperdute di periferia. C’è gente che non conosce i maggiori hotel e monumenti, qualcuno nemmeno le strade principali. I peggiori sono quelli che guidano da sei mesi e sono convinti di sapere le strade, solo che conoscono solo quelle principali. “Tranquillo, so io la strada” dicono, poi invertono e vanno su uno degli Anelli. Prova tu a fargli capire che basta andare dritti sulla via dove sono, quelli hanno una specie di paura atavica nei confronti delle strade minori, manco fossero labirinti.

Come fare a distinguere il vostro uomo? Semplice, guardate il numero di licenza che sta davanti al sedile del pilota, quel numero grosso di sei cifre. Se comincia per 25 scappate, il vostro tassista guida da meno di un anno, e non ha idea di cosa sta facendo. Se il numero è verso il 20 potete stare più tranquilli, il tassista conosce tutte le location principali della città – hotel, aeroporto, Sanlitun, Houhai, Wudaokou; ma non chiedetegli di fare le strade piccole, che se no va in panico.

La maggior parte dei tassisti nuovi vengono dalle contee di Huairou, o anche d Yangqing, Miyun, e altri luoghi ai confini tra la Municipalità di Pechino e la Provincia di Hebei. Questi sono i peggiori. Poi ci sono quelli che vengono dai Distretti di Shunyi, Tongzhou e Fengtai, già meglio perché almeno vivono ai margini della città.

E’ sempre più raro trovare cittadini alla guida – di solito il loro numero è inferiore al 10. Sono quelli che vengono da Chaoyang o Haidian. Se poi avete culo potete trovare gli anziani, quelli di Dongcheng, Xicheng, Xuanwu e Chongwen, quelli la cui matricola comincia per 00, e di solito guidano da almeno una decina d’anni. Questi conoscono la città a memoria, potete provare magari a metterli in crisi con gli hutong, ma difficilmente cascheranno, spesso conoscono anche quelli.

La soluzione migliore è, quando ne incontrate uno, di tenervelo buono, che nel caso vi serva potete fargli una chiamata. Tanto tutti i tassisti hanno il biglietto da visita personale.

Ora che sapete quali taxi prendere e da quali scappare, state sereni. La Cina è così, tutto si può fare, basta sapere come farlo.