2008-04-23

I migranti

In Cina si sente spesso parlare di migranti: sono la classe sociale urbana più bassa. Riconoscere i migranti è facile, basta guardare la pelle, scura e mangiata dalle intemperie, basta guardare il corpo, muscoloso per il lavoro fisico e di dimensioni inferiori ai cittadini per questioni di cattiva alimentazione in età di sviluppo, basta guardare i vestiti, rimediati chissà dove chissà come, riparati alla bell’e meglio e coperti di polvere, la polvere che a Pechino copre tutto.

Ma pochi di fatto capiscono chi sono i migranti. I cittadini semplicemente stortano il naso e li evitano, gli stranieri dicono “poverini” e gli scattano una fotografia, o peggio gli regalano dei soldi offendendo la loro dignità.

I migranti vengono chiamati in cinese nongmingong (农民工). Nong significa agricoltura, min popolo, gong è il lavoro, principalmente manuale. Sono quindi i “braccianti del popolo contadino”. In questa parola c’è tutta la divisione campagna-città che lacera la Cina dai tempi di Deng Xiaoping ad oggi. Per parlare dei migranti bisogna capire che cos’è l’hukou.

Hukou (户口) non è altro che un’anagrafe locale. In tutto il mondo gli abitanti sono censiti, e i cinesi sono stati i primi popoli a censire la popolazione già migliaia d’anni fa. Ora, quando nel 1958 Mao Zedong lanciò il Grande Balzo in Avanti, e fece partire a pieno ritmo l’economia pianificata (tra il 1949 e il 1958, a dispetto delle credenze, l’economia era ancora in buona parte libera, se non privata collettivizzata, ma non certo gestita dallo Stato), si ritenne necessario di regolare, oltre ai flussi di capitale e di beni, anche quelli del lavoro, elemento fondamentale di ogni sistema economico e particolarmente caro alla teoria marxista. Regolare il lavoro significava stabilire in un Piano Quinquennale dove le persone avrebbero lavorato e vissuto, ed ecco quindi che le persone ottennero documenti che stabilivano la loro residenza e la loro azienda. Se avessero voluto emigrare e cambiare lavoro, avrebbero dovuto compilare dei moduli e attendere un’autorizzazione statale, in modo da trovare pronto, al loro arrivo, un nuovo lavoro, una nuova casa e tutti i documenti necessari a ricevere i servizi pubblici come sanità, scuola, ecc. La distinzione fondamentale del sistema di pianificazione dei flussi di lavoro era la distinzione tra campagna e città. Chi stava in città lavorava nelle danwei, nelle fabbriche, nelle aziende; chi stava in campagna lavorava nelle comuni. Allocare la forza lavoro tra agricoltura e industria era la principale funzione del sistema.

Il sistema degli hukou di fatto funzionò solo per 8 anni, perché con la Rivoluzione Culturale la popolazione fu incoraggiata a spostarsi per il Paese senza chiedere nulla a nessuno, i contadini come Guardie Rosse nelle città, e gli studenti a imparare dai contadini. Solo lentamente, e in certe aree del Paese, la legalità fu ristabilita; il Piano Quinquennale veniva sempre stilato, ma quasi mai rispettato, e ogni località pensava per sé, chi accogliendo i migranti, chi bastonandoli e rispendendoli indietro. Poi venne Deng Xiaoping, che si inventò l’economia di mercato socialista, affittò appezzamenti di terra alle famiglie contadine, liberalizzò il piccolo commercio, creò le Zone Economiche Speciali e rilanciò il settore privato riscattando il Paese dagli anni di privazioni derivati dal modello maoista. Progressivamente, il flusso di beni e capitali privati fu liberalizzato, ma quello del lavoro no. Perché no? Il modello di Deng Xiaoping era quello di una crescita ineguale, ovvero certe aree, perlopiù aree urbane della Cina orientale, si dovevano sviluppare in fretta, vedere la costruzione di strade, scuole, ponti, fogne, linee del telefono ecc., mentre altre, perlopiù aree rurali della Cina occidentale, dovevano finanziarle per il bene del Paese. Risultato, se in media tutti stavano meglio, gli abitanti di certe aree stavano molto meglio di altri, e questi altri non ci stavano ad essere svantaggiati. Inseguendo sogni di gloria, tantissimi contadini volevano trovare un lavoro in città e arricchirsi facilmente invece di spezzarsi la schiena e pagare con le proprie tasse le scuole ai figli dei ricchi.

Se ciò fosse stato permesso, nel giro di pochi anni le città cinesi sarebbero esplose sotto la pressone di un’immigrazione totalmente incontrollata, diventando esattamente come tante altre città dell’Asia e dell’Africa, ovvero centri economici avanzatissimi circondati da periferie poverissime dove la razza umana raggiunge i peggiori livelli di degrado. Pechino sembrerebbe Bangkok, Shanghai sembrerebbe Lagos, Canton sembrerebbe Calcutta. Deng Xiaoping, lungimirante com’era, decise quindi di mantenere il controllo sul flusso di persone, permettendo una crescita limitata delle città attorno al 5-10% l’anno, cifre che a noi sembrano enormi ma per un Paese in via di sviluppo sono piuttosto basse.

Ai tempi di Mao se uno non obbediva alle disposizioni del’hukou non aveva lavoro e veniva rispedito indietro, ma con l’economia rombante della Cina riformata chiunque può, di fatto, prendere un treno o un bus con la scusa di visitare i parenti lontani e poi trovar lavoro dov’è arrivato. Solo che, senza l’hukou regolare, questa persona non può accedere ad alcun servizio pubblico, dalle scuole alla sanità alle case popolari, e si riduce a un cittadino di serie B. Ecco, questi sono i migranti. E se per caso hanno a che fare con la giustizia, vengono rispediti indietro, ragion per cui non posso nemmeno rivolgersi alla polizia se subiscono soprusi dai propri datori di lavoro o da altri migranti.

Se poi non trovano lavoro, o lo perdono, vien da sé che a volte si diano ad attività illegali, spinti dalla necessità, e i cittadini guardano a loro come noi in Italia guardiamo agli immigrati irregolari, talvolta con benevolenza come si fa col filippino a cui dai una manciata d’euro per pulirti la casa quasi meravigliandoti che non rubi nulla quando viene, spesso con paura, come si fa col nero che incontri solo mentre torni a casa alle tre del mattino, o con ostilità, come si fa col maghrebino seduto a bordo strada e guarda tutti i passanti col fare torvo tipico dei musulmani e che dagli europei viene identificato con lo sguardo del malintenzionato.

Se una volta i controlli erano abbastanza stringenti, per questioni di ordine pubblico, ora i governi locali e la polizia chiudono un occhio in nome dello sviluppo economico. I migranti costano meno dei cittadini e aiutano lo sviluppo economico. Nel 2004, il Ministero dell’Agricoltura (e la competenza la dice tutta) stimava la popolazione di migranti attorno ai 100 milioni, e siamo su cifre conservative.

Oggi basta guardare fuori dalla finestra e li vedi: sono le ayi che vi lavano la biancheria e i pavimenti, sono i fuwuyuan che vi servono nelle bettole dove vi rintanate quando volete spendere poco per magiare, sono gli operai che costruiscono i grattacieli e le nuove linee della metropolitana, sono gli omini col banchetto ambulante degli spiedini fritti o delle patate arrosto o delle sigarette che incontrate alle tre del mattino quando rientrate a casa da Sanlitun, sono quelli con i tricicli o i miandi carichi all’inverosimile di roba, e sono quelli che vi vengono a chiedere la bottiglia di plastica dell’acqua quando state bevendo, e non vogliono l’acqua, ma la bottiglia che per loro vale qualche fen alla centrale del riciclo. Sono la manodopera priva di diritti su cui questo Paese sta fondando il proprio modello di sviluppo, un modello apparentemente vincente perché funziona ed è stabile, e permette anche ai migranti di arricchirsi, e fare una vita migliore di quella che farebbero a casa loro in campagna.

Ma c’è qualcosa di oscuro che mi spaventa, mi mette a disagio. I contadini sono troppi, e se 100 milioni sono già da noi in città, felici di lavorare come animali per avere una vita migliore, che razza di esistenza conducono gli altri 700 milioni là fuori? La Cina che conosco e che amo è un’isola felice abitata da una minoranza della popolazione... e il resto? Cosa c’è oltre il Sesto Anello, oltre le fabbriche della città?

2008-04-22

Né italiani né cinesi

Stare a Pechino da studente e single è una gran ficata, perché c’è sempre una buona occasione di far festa con gente nuova di ogni razza e colore, ma quando si cresce, me ne rendo conto, le cose cambiano. Chi lavora è pù stressato e non ce la fa ad andare a ballare in posti luridi, bevendo porcherie da 5 kuai e tirando le sette del mattino, ma preferisce rilassarsi in posti meno caotici e, necessariamente, meno adatti alla socializzazione; e del resto chi è in coppia ma ha un partner lontano è escluso sia dalle uscite con altre coppie sia dai gruppi in tempesta ormonale che in media escono con l’unico scopo di trovare compagni/compagne per la notte. Non è facile incontrare gente con cui passare il tempo libero, e ad aggravare la mia situazione c’è il fatto che non sono sportivo, e quindi non prendo nemmeno in considerazione la possibiltà di giocare a calcetto o andare in palestra, e che non sono un uomo in carriera, e quindi non ci sto dentro ad uscire con gente del mio ramo che parla solo di business in bar pettinatissimi e ristoranti fighetti. Non c’è quindi da stupirsi se, in questo periodo, non trovo granché da fare e, se le sere infrasettimanali le passo a chiattare online con Dandan, nel weekend la mia solitudine mi crolla addosso durissima e trascorro intere giornate attaccato al computer o a leggere libri.

Incontro quella che chiameremo Viola a una di quelle tristissime cene di italiani in cui in media accorrono 30 o più persone di tutte le fasce sociali e d’età, in un ristorante cinese dove si ordina sempre troppo o troppo poco, e in generale si beve, si fa rumore e ci si annoia. Lo scopo di tali cene è, per gli sfigati che non conoscono nessuno, conoscere altri italiani per sentirsi meno soli e, per le persone normali, vedere gli amici sfigati tutti assieme e, per altri sei mesi, non dover sentirsi in colpa se gli si dà buca agli inviti per uscire. In quel caso, io appartengo alla prima categoria, ma Viola è una di quelli che veramente apprezzano queste occasioni di socializzazione.

Arrivata insieme al fidanzato cinese che non parla alcuna lingua straniera, Viola è chiaramente sinologa e lavora per Radio Cina Internazionale. Tutta vestita in nero da vera intellettualoide, manca dell’aria distaccata del personaggio-tipo e al contrario denota un entusiasmo propromente e genuino per moltissime cose, e in primis per la vita in questo Paese. Chiacchierando, scopriamo di avere molte opinioni in comune, e a fine cena ci si scambiano il numero e il contatto di Messenger.

Nelle settimane che seguono ci sentiamo poco, incontrandoci forse solo per altre uscite di gruppo tra italiani, fino a che un giorno, io scazzato perché sono solo a Pechino con la fidanzata lontana e i pochi amici che giocano a calcetto o sono impegnati per lavoro, lei scazzata perché si è mollata col tipo e questo evento ha innescato una serie di ripensamenti anche sulla sua vita professionale, decidiamo di vederci e passare il sabato pomeriggio insieme. Dove? Due italiani innamorati della Cina non possono andare a Sanlitun, troppo commerciale e viziosa, troppo corrotta dai laowai, anzi tanto vale mettere una grossa croce su tutto Chaoyang. Si va ai laghi, ma non a Qianhai o Houhai, anche quelli troppo commerciali, troppo pieni di bar cinesi che vorrebbero essere stranieri ma non possono. Noi si va a Xihai, quella parte di Shichahai dove i bar pieni di neon e con la musica a palla non sono ancora arrivati. Passeggiamo lungo le sponde tranquille del lago, con gente che pesca e altra che va in bici, e ci piazziamo in uno dei pochi posti disponibili. Il menù è effettivamente scoraggiante, è ovvio che vorrebbero offrire cose occidentali ma non hanno idea di come fare... i menù di questi posti sono tutti uguali: il caffé espresso o “coffee espreso” o “epresso cafe (single or double)”, di solito sui 20 RMB, è un beverone orribile e amarissimo da evitare, che apre una lista che include cappuccino, blue mountain coffee, milk shake, e una serie di porcherie impossibili copiate male da Starbucks, e comunque tutte con quel gusto dolce chimico tipico delle bevande cinesi. I tè non sono meglio, di solito ci sono diversi té cinesi di scarsa qualità, il milk tea taiwanese con le palline gommose dentro (freddo e caldo), magari al gusto di mandorla chimico, e poi l’intramontabile té Lipton giallo in bustina. Io e Viola ci guardiamo, guardiamo l’orologio e constatiamo che sono le 3 e mezza, ci riguardiamo e ordiniamo due Bacardi Breezer. E così ci alcolizziamo già dal primo pomeriggio, non avendo altre alternative accettabili; ma almeno ci sentiamo in Cina, e cominciamo a chiacchierare della vita, dei nostri dubbi, del che cazzo ci facciamo in questo Paese, di che palle a volte i cinesi che non capiscono gli occidentali, e che palle gli occidentali che non capiscono i cinesi e vengono qui solo per la carriera, e via così.

Usciamo dal baretto dopo una lunga chiacchierata e, consci delle nostre origini, ci avviamo verso la Baie des Anges, un’enoteca (ahimé) francese ma decisamente meritevole, nascosta in un hutong di Houhai, e qui avanti a tazzare con del rosso di Provenza, e via ai discorsi filosofici che solo la gente che è nata in Europa e ha vissuto in Cina e parla cinese può capire. Saranno le sette quando emergiamo dall’enoteca e, affamati, ci infiliamo nella porta di fianco, da Hutong Pizza, dove saziamo la nostra fame alcolica con una margherita. E avanti con i nostri discorsi, come ti integri, come non ti integri, come mantieni il cinese, come lo migliori, ma vero che certa gente del Sud della Cina non la capiscono neanche i loro connazionali quando parla; ma quanto mi fa schifo la vita da espatriato, giacca e cravatta e ristorante europeo ogni giorno, per lamentarsi di quanto è dura la vita in Cina. Siamo sulla stessa linea d’onda io e lei, ci capiamo, abbiamo in fondo esperienze simili, tutti e due italiani scappati dal nostro paese e ora cittadini pechinesi in cerca di una strada tra Occidente e Oriente, per non essere né italiani né cinesi, ma semplicemente qualcosa di diverso, forse nuovo, certamente più libero e fantasioso.

Dopo cena finiamo al Vineyard Café, in un hutong alle spalle del Tempio di Confucio, dove un nostro amico italiano canta e due francesi suonano blues con la chitarra. Ci uniamo a un gruppone di cinesi e italiani e ordiniamo un’altra boccia di vino bianco, perché fa caldo. Rimaniamo fino a tardi ad ascoltare la musica, e poi ciascuno a casa sua. Ci salutiamo in modo diverso dalle altre volte, io e Viola, perché la nostra amicizia in fondo è cominciata oggi, con la reciproca scoperta e condivisione delle proprie esperienze. Un pomeriggio diverso dal solito, in cui almeno io mi sono sentito meno solo in questo posto dove, quotidianamente, lotto per essere me stesso e non un membro di un gruppo o di una civiltà che vuole imporre regole proprie. Per fortuna, oggi ne ho la conferma, non sono l’unico.

2008-04-13

Coreani

Che fine avrà fatto Dom? Me lo chiedo qualche mese dopo che non lo vedo più. Ammetto che non l’ho chiamato per un bel po’, era diventato troppo strano, troppo paranoico, ma poi col tempo mi convinco che, se non è morto, probabilmente si è ripreso. E lo chiamo.

Dom è un bel po’ contento di sentirmi e si decide di vedersi. Mi fa piacere sapere che ha ritrovato l’allegria, e finalmente lo incontro un sabato sera nella sua nuova casa, un duplex fantastico in zona Wangjing che gli affittano dei non meglio precisati “amici”. L’appartamento è molto spoglio, ma si intuisce facilmente il potenziale perché diventi confortevole. Oltre a noi c’è Paul, un venticinquenne coreano cresciuto in Germania, che è a Pechino per uno stage in una clinica di chirurgia plastica coreana.

Ma non mettiamo troppa carne al fuoco: cominciamo dalla storia di Dom, che mi racconta mentre mangiamo del pollo al curry cucinato in un forno elettrico, e beviamo birra Yanjing. Dom qualche settimana dopo l’ultima volta che l’ho visto ha continuato a studare per l’HSK, che non ha ancora dato, ma la sua paranoia ha raggiunto un livello tale da essere preoccupante anche per lui stesso. Tutti parlavano alle sue spalle, tutti lo guardavano in modo strano... finché non è venuto a scoprire che un suo compagno di corso, dopo una discussione politica, aveva messo in giro la voce che Dom fosse un attivista di estrema sinistra, un’accusa piuttosto infamante che ha reso tutti i membri del corso, e specalmente gli asiatici, molto cauti nel parlare con lui. Tutte le sue frequentazioni erano di fatto convinte che Dom fosse in Cina per tutt’altri motivi che studiare cinese, e certamente non volevano avere per nulla a che fare con questi motivi. Quando l’ha scoperto, Dom ha semplicemente lasciato la scuola e l’appartamento e si è trasferito da Wudaokou al quartiere di Wangjing, in questo nuovo appartamento dove vive da solo.

Ma perché Wangjing, quartiere di periferia ancora in costruzione, fatto solo di grandi strade e palazzoni? Visto che la sua paranoia nasceva principalmente da frequentazioni coreane, trasferirsi nel quartiere coreano di Pechino, dove praticamente tutte le pubblicità e le insegne dei negozi sono in doppia lingua, non mi sembra la più felice delle scelte. Con innocenza Dom mi spiega che le scuole coreane sono le uniche, a Pechino, che permettono di studiare cinese a prezzi estremamente economici e in un’ambiente comunque asiatico e molto orientato al risultato. Sarà, io ne sono poco convinto e facendo domande vengo a scoprire che il ragazzo è ancora perdutamente innamorato della sua bella coreana di Wudaokou, con cui ancora però non riesce a parlare, schermata com’è lei dal suo ambiente conservatore e bigotto.

Vivendo a Wangjing e uscendo solo per fare la spesa, Dom in qualche modo conosce Paul. Ora, i coreani sono un popolo famoso per la chirurgia plastica: in Corea del Sud se non ti sei rifatto non sei nessuno. Tutte le star della televisione sono completamente scolpite dal bisturi, dei manichini dai tratti perfetti e dal sorriso di gomma, tutti uguali, tutti fintissimi. Paul frequenta coreani, parla coreano, torna in Corea ogni anno a visitare i nonni, ma è tedesco dentro, e vive la sua coreanità con un’insofferenza che è divertentissima. Dopo il pollo decidiamo di muoverci verso Wudaokou, e finiamo in un bar per coreani. Com’è un bar per coreani? Anzitutto è rozzo e lercio, non quanto un bar per cinesi, ma quasi. I coreani, praticamente tutti studenti vestiti alla moda pop giapponese, bevono shoju, il loro liquore nazionale distillato dalla patata, e sono tutti fottutamente ubriachi. Quando entriamo ci guardano male perché io e Dom siamo gli unici stranieri, non ci sono nemmeno cinesi. Dom sembra esserci abituato, mantiene il suo sorriso, si siede e ordina shoju. Paul è schifato: “Man… shoju sucks! What’s the matter with you, what about a beer?!?”. Ma Dom è adamantino, siamo in un bar coreano e dobbiamo bere coreano, e comunque ci tiene a farmi provare lo shoju, e io obbedisco... be’, ragazzi, voi non provatelo mai, se c’è un liquore che riesce a essere peggiore della baijiu andata a male, sappiate che quello è proprio lo shoju. Non so chi abbia avuto l’idea malsana di distillare alcol dalle patate, ma certo una cultura che ne ha fatto il liquore nazionale non merita d’essere classificata civile. Io e Paul ci guardiamo e ordiniamo birra Qingdao. Paul descrive la vita di un teenager coreano vista dagli occhi di un europeo, ovvero un esercizio di conformismo totalitario forzato da una peer pressure folle, tutte le sere a far gare a chi beve più shoju e poi collassare nella propria gloria. “Guarda quel tizio” dice indicando con la testa “stasera lo porteranno a casa a braccia”. Un ragazzotto coi capelli gialli paglia ciondola, beve ancora e poi collassa sul tavolo e i suoi amici, tutti vestiti e pettnato allo stesso stile, battono le mani ridendo dei loro sorrisi ubriachi. Se la libera e democratica Corea del Sud è così, non mi stupisce immaginare perché quella del Nord sia considerata uno dei peggiori totalitarismi della Storia; a quanto pare, questo atteggiamento di uniformazione delle masse e asservimento alle aspettative degli altri è insito nella cultura coreana. I giapponesi, che pure sono simili, sono comunque troppo aggressivi per accettare un simile sistema; e i cinesi troppo anarchici e imprecisi per mantenerlo in vita. Grazie al cielo la Corea è un paese piccolo, penso.

Ci spostiamo al Zub, una discoteca luridissima in un basement strapieno di studenti d’ogni razza e colore, uno di quei posti bui da incubo kubrikiano dove, se scoppiasse un’incendio, nessuno si salverebbe. Qui, caso vuole, incontriamo Valeria, la ragazza vegetariana conosciuta al party yoga in cui ci incontrammo io e Dom, e delle sue amiche. Dom si lancia in pista con uno spirito ben più giovanile di me e Paul, che invece ci limitiamo a chiacchierare e mantenere un aspetto fondamentalmente cool in un luogo pieno di gente scalmanata e totalmente succube dei propri ormoni. La musica succhia, DJ Wordy è troppo “wordy”, se stesse zitto e lasciasse suonare i suoi CD sarebbe molto più simpatico. E invece alza la mano, salta e grida “DJ Wordy in da house!!!” e vari “Yo!” fini a sé stessi. Ben, direi che è quasi ora di salutare.

Torno a casa in taxi, oltre 40 kuai che mi fanno ricordare quanto remoto è Wudaokou e perché non ci vado più spesso. Strana, strana gente si continua ad incontrare, ma non posso fare a meno di sorridere se penso a Dom, recuperatosi dalla paranoia, ma che tenta disperatamente di diventare coreano, e al giovane Paul che, tedesco con gli occhi a mandorla, coreano non vuole proprio essere e mugugna contro la peer pressure di un popolo a cui non sente di appartenere mentalmente. Viva la diversità signori, abbasso quelli che nascono con dei valori imposti dai loro simili, e viva quelli che i valori se li scelgono, a scorno totale delle apparenze. Chi l'ha detto che chi ha la faccia da coreano è coreano, e chi ha i capeli biondi e gli occhi azzurri non lo è?!? Viva le persone che pensano in modo diverso e che nel mondo faranno la differenza tra un’idea conformista e noiosa e una che vale la pena almeno di ascoltare. Son contento di incontrare gente così, anche se per farlo ogni tanto tocca andare fino a Wangjing o a Wudaokou.

2008-04-05

Zhongguoren

Il che ci porta a una domanda da un miliardo e trecento milioni di dollari e più, ovvero: “Che cosa definisce l’identità cinese?”. O anche, “Chi si può chiamare cinese, e chi no?”. Sul punto esiste una grossa confusione, non solo tra gli stranieri, ma anche tra i cinesi stessi. E’ un domandone non facile nemmeno per cinesi di cultura. Dopo aver parlato con alcuni di loro ed essermi letto un po’ di letteratura specifica, io mi sono fatto un’idea.

Nella definizione di una nazione esistono fondamentalmente tre scuole di pensiero. La scuola razziale è seguita dalle nazioni omogenee, come la Germania, il Giappone o la Tailandia: si è tailandesi se si è nati da genitori tailandesi, giapponesi se nati da giapponesi, e la cosa è facilmente constatabile dai tratti somatici; poi c’è la scuola legale, utilizzata dagli imperi, come gli Stati Uniti: americano è chi, indipendentemente da razza e colore, ha passaporto americano e giura fedeltà alla bandiera; e poi c’è la scuola culturale, tipica delle civiltà più antiche, come Italia o Francia. Italiani e francesi sono tali in quanto parlano una lingua propria, condividono tradizioni, per lo più legate alla vita quotidiana, e riconoscono valori fondamentali.

A quale di queste categorie appartiene la Cina? Esistono sostenitori di tutte e tre le scuole, a volte in conflitto tra loro e a volte in concordia secondo le necessità. Tra i cinesi della Repubblica Popolare, quando si parla dei cinesi di China Town all’estero si seguono la scuola razziale o culturale (“i cinesi di Milano sono cinesi e la Repubblica Popolare tutela i loro diritti in quanto comunità cinese”), invece quando si parla di minoranze etniche in Cina si segue la scuola legale (“i tibetani e gli uighuri, anche se non parlano cinese e appartengono a culture diverse, sono cittadini cinesi e quindi soggetti alla Repubblica Popolare”). Questo splendido esercizio di double-think, come direbbe Orwell, è stato ben inculcato dalla propaganda di Partito nella mente di tutti quelli cresciuti in Cina, tanto che le risposte, se chiedete, sono sempre le stesse, e rafforzate dalla sciocca superstizione per cui qualunque popolo che sia stato in passato soggetto al Celeste Impero sia cinese e quindi suddito legittimo della “madrepatria”.

Ma cerchiamo di essere obiettivi e raggiungere un punto fermo. La scuola legale è la meno solida: la Cina è la Cina, ed esiste un concetto di unità inculcato nella civiltà cinese dai tempi di Qin Shihuang primo imperatore. Nel corso della storia, innumerevoli volte, la Cina è stata divisa politicamente ma il legame della civiltà ha sempre permesso una riunificazione. Guardate Hongkong e Macao, e sappiate che anche Taiwan è “Cina” e tornerà alla madrepatria. A a seguirla sarà Singapore. Passaporto o non passaporto, qualunque cinese vi dirà che la sua identità nazionale non dipende da un documento.

La scuola razziale è popolare tra gli ignoranti, e soprattutto tra molti occidentali, secondo i quali qualunque gruppo etnico non riconducibile agli han non è cinese e dovrebbe secedere dalla Repubblica Popolare e fondare una sua democrazia indipendente; ma questa scuola è comuna anche tra i cinesi d’oltremare. Pur essendo ben contenti di arricchirsi in Paesi ad alto reddito e magari pure democratici, costoro fanno comunque riferimento a “Mamma Cina” che tutela i loro interessi quando vengono minacciati da gruppi razzisti. Ma se chiedete a un cinese nato e cresciuto in Cina cosa ne pensa dei cinesi d’oltremare, ecco che spuntano i nomignoli: huaqiao (华侨) è quello più cortese, significa appunto “emigrato dalla Cina”, e si pronuncia con quel sorriso strano con cui si pronuncia laowai, oppure stortando la bocca, come altre volte si parla di un laowai. Se no c’è appunto l’appellativo xiangjiao (香蕉), banana, giallo fuori e bianco dentro o tanti altri. E’ evidente che i cinesi considerano gli emigranti come “adulterati” dalle culture barbare, gente che ragiona da straniero, e che come gli stranieri non riesce a comprendere gli altri cinesi ed entrare in una relazione armoniosa con loro.

A parte ciò, che da solo basterebbe a sfatare la superstizone della scuola razziale, va notato che importantissimi personaggi storici cinesi non erano han: a cominciare dalla dinastia Tang (misti turchi shatuo), le cinque dinastie (turchi shatuo), i Liao e i Jin (mancesi), gli Yuan (mongoli) e di nuovo i Qing (mancesi). Chiedete a un cinese e mai vi dirà che si trattava di dominazioni straniere. Qianlong, l’imperatore che rimodellò Pechino secondo la sua concezione del potere nel 18° secolo, e che ha lasciato la sua impronta sulla Città Proibita, sul Tempo del Cielo, sul Tempio dei Lama, sulle Torri della Campana e del Tamburo, e su qualunque monumento che esiste oggi nella cerchia delle vecchie mura, era di etnia manciù, eppure è considerato uno dei più grandi imperatori cinesi. Hong Xiuquan, leader politico e religioso dei ribelli taiping, che conquistò mezzo impero, era hakka. Sun Zhongshan (Sun Yat-sen), primo presidente della Repubblica di Cina, era anche lui hakka. Lao She, scrittore e commediografo, uno dei massimi intellettuali del XX° secolo in Cina, era manciù. Secondo le fonti del governo, al’inizio del XXI° secolo i cinesi sono per il 94% di etnia han. Il 6%, ovvero circa 78 milioni di persone, appartegono ad altre 55 minoranze etniche, ma sono comunque cinesi.

Ed ecco quindi che rimane una sola scuola davanti a noi, quella culturale. Gli han sono cinesi, sono la base della civiltà cinese, ma cinesi sono anche tutti quei popoli che hanno accettato la cultura cinese, a cominciare dai manciù, ancora numerosissimi a Pechino; gli hui, i musulmani del nordovest che discenderebbero dai mercanti persiani della Via della Seta; gli hakka, i montanari del Sud della Cina in gran parte convertiti al Cristianesimo. E via così. Essere cinese significa essere un membro di una civiltà, e infuso di una cultura millenaria e unica. Cinesi non si nasce, si diventa.

E quindi, nell’aspetto pratico, da cosa si distingue un cinese da un non cinese? La lingua è il primo e il più ovvio degli elementi: non che serva saper scrivere, perché cinesi analfabeti ce ne sono tanti, ma certamente occorre parlare mandarino o un altro dialetto cinese. Occorre comprendere le basi di un comportamento sociale accettabile e la gestione delle guanxi (le relazioni), secondo i principi confuciani: mostrare rispetto ai superiori, benevolenza agli inferiori, avere mianzi (la faccia), dare mianzi: poi non è che poi ogni cinese segua queste regole, ma certamente ogni cinese è in grado di distinguere chi le segue e chi no, categorizzando un comportamento sulla base dei fondamenti confuciani, e distinguendo con disinvoltura la natura delle guanxi che dovrebbero intercorrere tra le persone. Capire in che situazione è cortese ringraziare, in quale è bene fare regali e offrire una cena, e così via. Non è tutto, per essere cinese bisogna padroneggiare la cultura del cibo, che non significa saper cucinare (pochi cittadini, purtroppo, sanno cucinare cose più complicate di un brodo), ma distinguere i cinque gusti fondamentali (xian, tian, suan, la, ma), saper distinguere tra un jiaozi e uno xiaomai, tra un baozi e un mantou. Insomma, capire cosa c’è in un piatto senza una guida turistica davanti, cosa ovvia per chi nasce in Cina ma non facile certamente per uno straniero. C’è poi la concezione cinese del corpo e della medicina: in Cina la gente non prende le aspirine, prende le yinqiaopian; non prende anestetici (se non in casi particolari), si fa l’agopuntura e toglie la sensibilità a una parte del corpo; non si prende una serie infinita di leggeri disturbi come malditesta, cervicale, brufoli, irritazioni: i cinesi prendono lo shanghuo, di cui parleremo più diffusamente in un post futuro; e per ogni possibile alimento edibile da esseri umani sa citare delle supposte proprietà terapeutiche, dal curare lo shanghuo al mantenere la pelle liscia e morbida al rafforzare le capacità amatorie. Insomma, se sei cinese la tua concezione del corpo, delle sue dinamiche e dei modi per manterelo sano è diversa dal resto del mondo.

C’è un ultima parte della cultura che poi è meno ovvia, ma altrettanto importante che le altre: la ritualità e il calendario. Ci sono ancora tanti cinesi, ma tantissimi, che ogni mattina consultano il calendario astrologico per vedere se quello è un giorno buono o cattivo per fare qualcosa, e su questa base pianificano decisioni finanziarie, traslochi, incontri, celebrazioni e persino parti clinici, ma grazie al Comunismo questa pratica non è più vissuta con forza vincolante come una volta, almeno dai giovani e dai vecchi che hanno fatto la Rivoluzione. Sui giorni qualunque la gente non impazzisce più come una volta: ma sulle feste non transige nessuno. I cinesi santificano le feste: che sia il Chunjie, piuttosto che la Festa delle Lanterne o quella delle Barche-drago o della Luna o anche solo del Lavoro, esiste una ritualità ben precisa che va rispettata, e guai a chi se ne ride, viene additato come incivile. Non visitare la famiglia nel Chunjie, o mangiare gli zongzi per la festa delle Barche-drago, o visitare i morti nel loro giorno è vissuto come un crimine morale, con una forza che stupisce gli stranieri. Chiaro che uno può avere scuse più o meno serie, ma la decisione di semplicemente non seguire la tradizione per partito preso è inconcepibile per un cinese. Ricordatevene bene la prossima volta che vi fate beffe delle mooncake e dei tangyuan, e sappiate che i cinesi annuiscono, sorridono, ma nel loro cuore vi stano etichettando come barbari e incivili senza speranza.

Questo, in breve, significa essere cinese. Sarò diventato cinese anch’io? In parte certamente sì, sono in grado di comunicare in questa difficilissima e stranissima lingua, mangio ormai qualunque piatto ben cosciente di quello che contiene, mi curo le irritazioni mangiando cetrioli e i brufoli bevendo brodo di zampe di maiale, e accetto con pazienza la ritualità di Dandan nel celebrare le decine di feste cinesi e rispettarne l’etichetta. Ma lo farei se non vivessi con lei, se non abitassi in questo Paese? “When in Rome, do like the Romans” dicono gli anglosassoni, e la loro ragione ce l’hanno.

Io vivo in Cina, e ormai non ho problemi a “fare” il cinese. Ammetto che per arrivarci mi ci è voluto un bel po’, e ancora tante volte vengo colto in fallo con un dialogo complesso, con una festa mai sentita prima o una proprietà medica di un comunissimo cibo, ma i cinesi son pazienti, o almeno “fanno” i pazienti per gentilezza. Mi trattan da cinese quando è cortese farlo, e chi lo sa chi davvero mi considera un barbaro sinizzato e chi mi sorride e, in cuor suo, mi dà della scimmia depilata? E chi lo sa se, tutta questa fatica per essere più cinese, la faccio per far contenti loro o per imparar qualcosa io? Sia come sia, mi sforzo di capire e di fare secondo ciò che imparo, non troppo interessato al perché, ma al come. C’è chi dice che il viaggio sia più importante della meta, e forse è proprio in questa scelta – quella di fare per capire e non pretendere di capire prima ancora di cominciare a fare – che, se non di pensare alla cinese, dimostro a me stesso d’essere ormai più vicino a Laozi che ad Aristotele, d’esser più asiatico che europeo, talvolta. Quello che è certo, e quello che in fondo conta per me, è di non esser più la persona che ero prima di venire qui, d’esser cresciuto, d’aver imparato, e d’essere diventato un po’ migliore di quello che sarei stato se non fossi mai venuto ad abitare in questa città, Pechino.

2008-04-04

Cognomi

In Cina le persone si chiamano tra loro in maniera completamente diversa dagli europei: anzitutto il cognome viene prima del nome, a sottolineare l’importanza del primo sul secondo; nella società cinese tradizionale, infatti, la famiglia è sempre stata l’unità base per la vita pubblica, e la maggior parte delle leggi in vigore non prendevano nemmeno in considerazione l’individuo. Le famiglie facevano contratti, le famiglie commettevano crimini e venivano punite, le famiglie costituivano un villaggio. L’individuo esisteva solo nella sfera privata, e infatti usava due nomi propri diversi, uno pubblico e uno privato, usanza questa che si è persa con la fine dell’Impero.

Il nome proprio è dato a piacere, formato da uno o due caratteri scelti in modo da creare un significato piacevole, con una varietà incredibile. Il nome del resto è unico, e non si dà mai lo stesso nome a due persone imparentate, come invece si usa da noi all’interno delle stesse famiglie.

Il cognome varia meno, si eredita dal padre e si mantiene fino alla morte, e le donne lo mantengono anche dopo il matrimonio. Esiste un gran numero di cognomi che hanno origini antichissime, e vari studiosi hanno provato a darne una catalogazione, quasi sempre senza riuscire ad esaurire l’argomento sterminato. I cognomi hanno solitamente un carattere, anche se alcuni ne hanno due e talvolta i membri di minoranze etniche ne hanno fino a quattro.

Il cognome ha sempre avuto un significato importante in Cina e ha unito le persone con legami fortissimi per tutta la storia, dai suoi albori sino alla Rivoluzione Culturale, quando si fece di tutto per cancellare il familismo della società. In passato i cinesi distinguevano tra xing (姓), famiglia, e shi (氏), clan, ovvero l’insieme delle famiglie con lo stesso cognome. Col tempo la differenza si è persa. In taluni periodi storici famiglie e clan hanno raggiunto poteri estremamente elevati, al punto da amministrare aree del Paese, controllare città in modo legale o illegale, e persino controllare o usurpare il trono degli imperatori inserendo i propri membri nell’amministrazione imperiale.

Le origini dei nomi sono le più disparate, e quasi ogni cognome ha una leggenda che ne spiega le origini. Molti di essi hanno anche una poesia legata alla casata, che funge da motto per esprimere valori e le ambizioni della famiglia. Fino agli anni ’70 era diffusissima la tradizione d imporre un carattere di questa poesia nel nome dei membri di una generazione. Quelli della generazione successiva avrebbero ricevuto il carattere successivo nella poesia, e così via, i modo da rendere seplice riconosce il grado di parentela all’interno di gruppi familiari molto estesi, e stabilire le gerarchie sulla base della vicinanza agli antenati.

Ora però viene la parte divertente: nel corso della storia alcune famiglie si sono espanse notevolmente grazie all’assorbimento di famiglie minori, mentre altre sono scomparse a causa di guerre, epidemie o persecuzioni, quando appunto gli editti imperiali colpivano tutti quelli che portavano lo stesso cognome, e per sopravvivere era necessario adottare nomi nuovi. E così nel ventesimo secolo il 50% dei cinesi nel Mondo condivide dieci cognomi. Zhang (张) Wang (王), Li (李), Zhou (周) e Liu (刘) sono quelli più comuni, con circa 100 milioni di membri ciascuno. Il 75% dei cinesi condivide 100 cognomi. Il restante 25% invece spartisce le restanti centinaia.

Il padre di Dandan, che è persona di grande cultura, esaurisce tutte le mie domande e mi illustra la storia della sua famiglia, i Cheng (程), che secondo il censo più recente sono la 27esima famiglia più numerosa, con alcuni milioni di membri. E, con grande stupore mio e di Dandan, mi rivela che il mio cognome, Kuang (旷), è effettivamente un cognome storico appartenente a una famiglia minore. A memoria cita il nome di un generale dell’Armata di Liberazione Popolare che combatté i giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Si mobilita così la famiglia in cerca di ulteriori informazioni. Il padre di Dandan torna a casa dall’uffico, il giorno successivo, con diverse pubblicazioni sull’argomento ma, ahimé, la famiglia Kuang è talmente poco numerosa da non destare l’attenzione della stampa. Il signor Cheng mi fa dono di una figura a colori, inserto della versione di Focus cinese, che tramite la raffigurazione di un albero elenca le casate cinesi secondo l’origine. Nessuna traccia della mia. La sera stessa però, navigando su internet, scovo una pagina interessante che pare tratti l’argomento. La mostro a Dandan che imbarazzata mi spiega che il cinese è talmente aulico e letterario che lei non è in grado di leggerla. Chiamiamo quindi il signor Cheng, che si siede al computer, inforca gli occhiali, e chiede alla figlia di tradurre le sue parole in inglese.

A quanto pare il cognome Kuang nasce ai tempi della dinastia Tang, quando un certo Huang Xian, discendente di feudatari già dalla dinastia Han, riceve dall’imperatore il titolo di Duca di Yun. Il Duca di Yun doveva essere una persona audace ma non troppo fortunata: nonostante per i suoi meriti avesse acquisito il titolo, qualche anno dopo, a causa di una dura sconfitta subita dai nemici sul campo di battaglia, lo perse e al suo posto guadagnò un Editto di Sterminio da parte del trono, indirizzato a lui e a tutta la sua famiglia estesa. Il risultato fu la morte di innumerevoli parenti e la fuga di altri, che dovettero cambiare nome e rinnegare gli antenati per poter sopravvivere. Della genia degli Huang di Yun se ne salvò solamente uno, il secondogenito di Huang Xian, Huang Zicheng. Nel primo anno di regno dell’imperatore Zhongzong, Huang Zicheng si era classificato secondo all’esame imperiale, era stato fatto ministro e alto membro della corte, si era guadagnato il titolo di “Marchese della Pace” e aveva sposato una delle figlie dell’imperatore stesso, grazie alla quale era stato risparmiato dall’Editto di Sterminio. Zicheng ritenne comunque opportuno cambiare il suo cognome da Huang (黄) a Kuang, e visse felice per molti anni servendo ben quattro imperatori, di cui l’ultimo dei quali, Xuanzong, per più di 35 anni. Poi un bel giorno contraddisse in pubblico il sovrano e, alla veneranda età di sessanta e passa anni, venne esiliato dalla corte e spedito a governare la cittadina di Jizhou sperduta tra le montagne del Sud della Cina, e lì la casata rimase per otto generazioni; fino a quando, a causa delle calamità del periodo delle Cinque Dinastie e Dieci Regni, i Kuang si sparpagliarono per il Paese. Il più famoso di loro, Kuang Yourong, si trasferì con i suoi discendenti a Gaozhou, e divenne il primo di una dinastia locale di poeti e letterati.

Be’, non male come storia, direi: da nobili, guerrieri e ministri falliti a pacati letterati. Siamo tutti soddisfatti, alla fine l’origine s’è trovata. Il cognome Kuang esiste ed ha anche una storia degna di tutto rispetto.

Il mattino seguente mi sveglio tardi, mentre tutto il resto della famiglia è in ufficio. Ancora mezzo addormentato vado in cucina per prepapare il caffé, e sul tavolo trovo il foglio regalatomi dal signor Cheng. Su uno dei rami, aggiunta a penna, c’è una foglia in più con il carattere Kuang.

Come a dire: “Anche se non è scritto sulla rivista, lo sappiamo che la famiglia Kuang esiste e vive”.

Come a rassicurare: “Riconosciamo il tuo cognome come appartenente alla tradizione cinese”

Come ad annunciare: “Anche se qualcuno può chiamarti laowai, ti consideriamo uno di noi”

Ed è così che mi rendo conto che, pur rimanendo bianco e con gli occhi chiari, appartenente una qualsiasi minoranza etnica di yidaliren, mi è stato riconosciuto il diritto di portar un nome cinese. Il che mi rende, se non legalmente, almeno moralmente, un membro di questa civiltà. Da oggi non sono più un barbaro, sono stato accettato come cinese.