Una delle tante sere in cui si finisce in un ristorante a caso ci vengo invitato da un’amica. Il ristorante in questione è il Rio, brasiliano gestito da cinesi sulla Guijie (簋街). Per a cronaca, la Guijie, la “strada delle portate”, si estende dalla vecchia porta di Dongzhimen fino all’incrocio con la strada che da nord arriva dalla porta di Andingmen, entro i confini dell vecchia Pechino. E’ chiamata erroneamente “Ghost Street” da molti stranieri a causa dell’assonanza de carattere 簋 (gui, portata) con 鬼 (gui, fantasma o demone, appunto), e la cosa viene giustificata dal fatto che la Guijie non chiude mai, è una via lunghissima costeggiata da ristoranti di ogni genere, tutti illuminati da insegne al neon per lo più rosse e lanterne a profusione, e a ogni ora del giorno o della notte chi ci passa viene assalito da “buttadentro” che cercano di indirizzare il flusso di persone verso il ristorante per cui lavorano. La Guijie è tradizionalmente un luogo per ristoranti cinesi, ma ai suoi estremi stanno aprendo anche altre cucine.
Nello specifico, davanti al Rio, due cinesi alti e dal capello lungo vestiti in quello che sembra un costume da Mr. Crocodile Dundee, ci invitano ad provare la cucina brasiliana: 59 kuai per un buffet di verdure, pezzi di carne arrosto distribuiti fino a chiusura e free flow di birra fino alle 11. Sembra proprio un affare.
Dei presenti conosco solo Luisa e un’altra ragazza italiana, che avevo incrociato alla cena di gala, peraltro senza che fosse nata da parte mia una gran simpatia. Ma al nostro tavolo siedono due nuovi personaggi di particolare rilievo che da lì in poi diventeranno miei grandi amici.
Il primo è Federico. Una parola, vulcanico. L’immagine della forma mentis “opportunità” contrapposta a quella “ostacolo”. Ogni cosa è per lui un invito a farsi coinvolgere e sviluppare come gruppo, si butta in tutto quello che stimola la sua curiosità, cioé quasi tutto quello che vede, sente o immagina. Insieme a un paio di amici ha creato un sto web, Stracina, con cui spera di creare un portale per gli italiani in Cina. Pensa in grande, e mi parla di tutti i suoi progetti, tavolta brillanti, talvolta donchisciotteschi, per creare una grandissima associazione che promuova tutto ciò che è buono e bello nell’universo conosciuto e sconosciuto. Mi confessa che il suo sogno è aprire una scuola in Africa. Pensa in grande, probabilmente troppo in grande, ma probabilmente il mondo avrebbe bisogno di più persone così.
L’altro personaggio è Joe; o meglio, Zhou, che si pronuncia uguale. Joe viene da Shanghai, e inspiegabilmente condivide tutte le mie opinioni sulla sua città natale. Vive a Pechino da 8 anni ormai, e ci si trova davvero bene. Lavora alla redazione cinese dell’Economist, a cui contribuisce spesso e volentieri, e nel tempo libero scrive poesie, organizza spettacoli, traduce libri. Sì, perché Joe, oltre a parlare mandarino, shanghainese e un inglese perfetto, mastica non troppo male una varietà di altre lingue tra cui l’ebraico, impossibilmente studiato proprio a Shanghai. E’ uno degli organizzatori di una serata di poesia che si tiene il mercoledì al Bookworm, e le sue poesie sono in effetti scritte in inglese. A vederlo Joe sembra davvero un super-Nerd, con il taglio di capelli da ingegnere, pelle pallida, polo rossa, jeans senza forma, timberland vecchie e consunte e occhialoni quadrati. E invece guarda un po’: parla di politica nazionale e internazionale, poesia, storia, linguistica senza mai trovarsi in imbarazzo. L’immagine del cinese uscito vivo dalle migliori scuole del Paese e del mondo: segnato fisicamente dagli anni di studio, memoria di ferro, acume da paura, e una capacità di pensiero indipendente da far invidia a un rivoluzionario.
I nostri discorsi inevitabilmente virano verso l’intellettuale, e grazie alla birra, mentre noi ci spingiamo verso vette d’astrazione eccelsa e collegameti improbabili tra argomenti, le ragazze cominciano a parlare di argomenti più leggeri i disparte. Non so come, da Umberto Eco si finisce a parlar di donne. E’ sempre così, maledetti intellettuali frustrati. Racconto del mio incontro con Dandan, e del fatto che nonostante nulla sia successo, da quando ho lasciato Chengdu io e lei ci sentiamo tutti i giorni. Joe mi fa i migliori auguri per la mia storia, e racconta della sua uscita con un cantante lirica che vorrebe studiare in Italia. Si tira tardi. Poi quando l’ennesimo boccale di birra è finito e Mr. Crocodile Dundee non ce lo riempie più, paghiamo i nostri 59 kuai e si saluta. Baci, abbracci, promesse di eterna amicizia.
E’ anche per questo che amo Pechino. Intellettuali idealisti di questo spessore non li si trova tanto facimente altrove.