Come accennato nel post precedente, è un periodo che la Cina mi da’ ai nervi. E’ il classico periodo di caduta dopo il picco nella curva dell’espatriato: appena arrivati in un nuovo Paese, se si passa lo shock culturale, c’è la cosiddetta “Luna di Miele”, un periodo in cui tutto è nuovo, tutto è una sfida da vivere giorno per giorno, con gioia ed eccitazione. Poi arriva il momento in cui le cose smettono di essere nuove ed eccitanti, e diventano i “soliti problemi” che uno non riesce ad accettare, non riesce a spiegare perché nel posto in cui vive debba costantemente confrontarsi con certe situazioni insopportabili. Per me questo momento è arrivato, con un ritardo notevole rispetto alla norma, ma è arrivato, e il mio morale è sceso. Nell’iperbole della soddisfazione dell’espatriato, ho raggiunto il picco e ho cominciato a scendere, lentamente ma costantemente.
Tutto mi pesa – il cibo, il lavoro, la gente, il clima, non c’è nulla che non mi irriti, nulla che, in fondo, non mi faccia pensare che avrei voglia di andarmene, che mi fa salire l’inquietudine e la voglia di partire e rompere questa monotonia, questa costante sensazione che l’universo esista in funzione di crearmi spiacevoli sorprese ad ogni angolo. Quando una società cinese di spedizioni mi perde un camion, è la goccia che fa traboccare il vaso. Voi vi chiederete: come si fa a perdere un camion? Non è un mazzo di chiavi, è una merda di camion! Eppure, parte di sabato da Shanghai e giovedì non sanno ancora dov’è, ma pare che chi stava al volante abbia deciso che, in occasione della Festa della Luna il cinese dentro di lui aveva esigenza di tornare a casa a mangiare le mooncake con la famiglia, quindi si è fermato a bordo strada, è sceso dal camion, ha attraversato a piedi l’autostrada e da lì è tornato al suo paese in autostop, con la promessa di riprendere la marcia dopo la Festa della Luna. Ha spento il cellulare e ciao. Pare una storia da cinema, l’epifania che fa impazzire l’individuo e, savio tra i savi, gli fa fare la scelta giusta anche se apparentemente è quella più folle e sconveniente. Solo che nella mia situazione, in attesa del contenuto del camion da circa due mesi, la cosa non è poetica né encomiabile.
Ho bisogno di staccare da questo posto, di prendermi qualche giorno di riflessione per affrontare meglio questi problemi. La risposta possibile è una sola, India. Se ci pensate, “andare in India” è una risposta che va bene per qualunque problema. Suona hippie come commento, ma è terribilmente vero – nessuno entra in India, si mescola alla sua stranissima umanità, e non ne esce cambiato, con un’epifania tutta sua, una risposta a un perché, una piccola o grande trascendenza.
Questo non è il luogo per discutere il mio viaggio in India. Vi basti sapere che quando torno ho smesso di fumare e ho deciso che Dandan è la donna della mia vita. Quel che ci interessa in questo blog è ciò che accade al mio ritorno.
Martedì a mezzogiorno io e Dandan stiamo mangiando un granchio più largo di una spanna, dei calamari fritti e tre bistecche di squalo alla griglia, il tutto – corredato di patatine fritte – per 400 Rupie, che sarebbero circa 8 euri in due. Nel ristorante ci siamo solo noi, un cameriere lontano che ci tiene d’occhio ma non disturba, e l’Oceano Indiano che si ammira dal terrazzo coperto. La temperatura è di 28 gradi all’ombra, leggermente ventilato, asciutto e con un sole splendente. All’una prendiamo un taxi verso l’aeroporto: ne seguono un volo Cochin-Bangalore, poi Bangalore-Delhi, poi Delhi-Shanghai, quindi Shanghai-Pechino. Alle 4 del pomeriggio di mercoledì, dopo circa 24 ore di viaggio, atterriamo all’aeroporto di Pechino, totalmente distrutti. Le ultime ore di volo sono state le peggiori perché invece di volare Kingfisher, di gran lunga la compagnia aerea più fica che abbia mai preso, voliamo China Eastern, compagnia seconda per il peggior servizio solo a Shanghai Airlines, con cui condivide la base. Del resto si sa, non ho simpatie per Shanghai, ma d’altra parte il servizio scortese, il cibo immangiabile, i ritardi imperdonabili e la totale mancanza di informazioni non fanno che rafforzare le mie tesi già radicali su tutto ciò che è shangainese. Ma torniamo a noi, alle 4 del pomeriggio di mercoledì. Le porte dell’aereo si aprono e scendiamo la scala verso il pulmino che ci porterà al ritiro bagagli.
Il cielo è di un blu zaffiro, e un vento freddo spira da Nord. Vestiti ancora da India, ci copriamo le spalle con le pashmina (originali, non quelle false di Yashow), che indossate a mo’ di scialle e combinate alle facce stanche, ai capelli spettinati e alla mia barba incolta da 12 giorni, ci danno un look peculiare rispetto al resto dei passeggeri. Ma sorridiamo. Il tassista ci accoglie lamentandosi che ha aspettato all’aeroporto per 4 ore e casa nostra la si raggiunge in 20 minuti, ma non ci accigliamo, anzi guardiamo ai pioppi della Jichang Gaosu che sfilano piegati dal vento. Il panorama è conosciuto, la skyline nota. Il palazzo dove abitiamo appare in lontananza. Nel cortile la gente ha facce note, rudi e oneste, la gente di Pechino. Il ringhio dell’erhua non è mai stato così dolce. Saliamo le scale carichi di valige e apriamo la porta trovando una casa sistemata dall’ayi che non ha mai profumato così di pulito. Ci buttiamo in doccia, poi Dandan è sul letto, io metto la moca sul gas, entrambi con calze di lana e pigiami pesanti – l’autunno è arrivato, con il suo profumo di foglie morte e di carbone bruciato nelle stufe. Senza nemmeno consultarci, ordiniamo yangrouchuan’r, naan e Xinjiang chaocai, che arrivano in una mezz’ora portati dal nostro amico dell’hutong vicino. Scartiamo i nostri acquisti, scarichiamo le foto sul computer, più tardi accendiamo il riscaldamento ad aria condizionata, che doma il gelo della notte che si avvicina. Ci addormentiamo nel grande letto matrimoniale, abbracciati sotto il piumone, con la sensazione di essere finalmente a casa. La nostra casa, qui a Pechino.
L’ho capito sulla strada che da questa città non me ne andrà mai per sempre. Forse per un periodo, per qualche mese o anno, ma tornerò sempre qui, perché questa è la Casa del mio Spirito.
Tutto mi pesa – il cibo, il lavoro, la gente, il clima, non c’è nulla che non mi irriti, nulla che, in fondo, non mi faccia pensare che avrei voglia di andarmene, che mi fa salire l’inquietudine e la voglia di partire e rompere questa monotonia, questa costante sensazione che l’universo esista in funzione di crearmi spiacevoli sorprese ad ogni angolo. Quando una società cinese di spedizioni mi perde un camion, è la goccia che fa traboccare il vaso. Voi vi chiederete: come si fa a perdere un camion? Non è un mazzo di chiavi, è una merda di camion! Eppure, parte di sabato da Shanghai e giovedì non sanno ancora dov’è, ma pare che chi stava al volante abbia deciso che, in occasione della Festa della Luna il cinese dentro di lui aveva esigenza di tornare a casa a mangiare le mooncake con la famiglia, quindi si è fermato a bordo strada, è sceso dal camion, ha attraversato a piedi l’autostrada e da lì è tornato al suo paese in autostop, con la promessa di riprendere la marcia dopo la Festa della Luna. Ha spento il cellulare e ciao. Pare una storia da cinema, l’epifania che fa impazzire l’individuo e, savio tra i savi, gli fa fare la scelta giusta anche se apparentemente è quella più folle e sconveniente. Solo che nella mia situazione, in attesa del contenuto del camion da circa due mesi, la cosa non è poetica né encomiabile.
Ho bisogno di staccare da questo posto, di prendermi qualche giorno di riflessione per affrontare meglio questi problemi. La risposta possibile è una sola, India. Se ci pensate, “andare in India” è una risposta che va bene per qualunque problema. Suona hippie come commento, ma è terribilmente vero – nessuno entra in India, si mescola alla sua stranissima umanità, e non ne esce cambiato, con un’epifania tutta sua, una risposta a un perché, una piccola o grande trascendenza.
Questo non è il luogo per discutere il mio viaggio in India. Vi basti sapere che quando torno ho smesso di fumare e ho deciso che Dandan è la donna della mia vita. Quel che ci interessa in questo blog è ciò che accade al mio ritorno.
Martedì a mezzogiorno io e Dandan stiamo mangiando un granchio più largo di una spanna, dei calamari fritti e tre bistecche di squalo alla griglia, il tutto – corredato di patatine fritte – per 400 Rupie, che sarebbero circa 8 euri in due. Nel ristorante ci siamo solo noi, un cameriere lontano che ci tiene d’occhio ma non disturba, e l’Oceano Indiano che si ammira dal terrazzo coperto. La temperatura è di 28 gradi all’ombra, leggermente ventilato, asciutto e con un sole splendente. All’una prendiamo un taxi verso l’aeroporto: ne seguono un volo Cochin-Bangalore, poi Bangalore-Delhi, poi Delhi-Shanghai, quindi Shanghai-Pechino. Alle 4 del pomeriggio di mercoledì, dopo circa 24 ore di viaggio, atterriamo all’aeroporto di Pechino, totalmente distrutti. Le ultime ore di volo sono state le peggiori perché invece di volare Kingfisher, di gran lunga la compagnia aerea più fica che abbia mai preso, voliamo China Eastern, compagnia seconda per il peggior servizio solo a Shanghai Airlines, con cui condivide la base. Del resto si sa, non ho simpatie per Shanghai, ma d’altra parte il servizio scortese, il cibo immangiabile, i ritardi imperdonabili e la totale mancanza di informazioni non fanno che rafforzare le mie tesi già radicali su tutto ciò che è shangainese. Ma torniamo a noi, alle 4 del pomeriggio di mercoledì. Le porte dell’aereo si aprono e scendiamo la scala verso il pulmino che ci porterà al ritiro bagagli.
Il cielo è di un blu zaffiro, e un vento freddo spira da Nord. Vestiti ancora da India, ci copriamo le spalle con le pashmina (originali, non quelle false di Yashow), che indossate a mo’ di scialle e combinate alle facce stanche, ai capelli spettinati e alla mia barba incolta da 12 giorni, ci danno un look peculiare rispetto al resto dei passeggeri. Ma sorridiamo. Il tassista ci accoglie lamentandosi che ha aspettato all’aeroporto per 4 ore e casa nostra la si raggiunge in 20 minuti, ma non ci accigliamo, anzi guardiamo ai pioppi della Jichang Gaosu che sfilano piegati dal vento. Il panorama è conosciuto, la skyline nota. Il palazzo dove abitiamo appare in lontananza. Nel cortile la gente ha facce note, rudi e oneste, la gente di Pechino. Il ringhio dell’erhua non è mai stato così dolce. Saliamo le scale carichi di valige e apriamo la porta trovando una casa sistemata dall’ayi che non ha mai profumato così di pulito. Ci buttiamo in doccia, poi Dandan è sul letto, io metto la moca sul gas, entrambi con calze di lana e pigiami pesanti – l’autunno è arrivato, con il suo profumo di foglie morte e di carbone bruciato nelle stufe. Senza nemmeno consultarci, ordiniamo yangrouchuan’r, naan e Xinjiang chaocai, che arrivano in una mezz’ora portati dal nostro amico dell’hutong vicino. Scartiamo i nostri acquisti, scarichiamo le foto sul computer, più tardi accendiamo il riscaldamento ad aria condizionata, che doma il gelo della notte che si avvicina. Ci addormentiamo nel grande letto matrimoniale, abbracciati sotto il piumone, con la sensazione di essere finalmente a casa. La nostra casa, qui a Pechino.
L’ho capito sulla strada che da questa città non me ne andrà mai per sempre. Forse per un periodo, per qualche mese o anno, ma tornerò sempre qui, perché questa è la Casa del mio Spirito.
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