2009-03-30

Di preti e monaci non ti fidare


In un post precedente ci eravamo chiesti: “Com'è che Dandan deve pagare un deposito di 10.000 RMB per andare in vacanza in India? Quale cinese potrebbe pensare di scappare dalla Repubblica Popolare per finire in un Paese meno sviluppato?”. La risposta è semplicissima, se avete imparata la definizione di cinesi – non ci sono solo Han qui.

Un giorno che siamo in India, ci stiamo godendo la marmorea maestosità del Taj Mahal, sulle rive dello Yamuna, quando la nostra attenzione viene catturata da una comitiva di cinesi, tutte donne, tutte sui 50 anni, tutte visibilmente borghesi e danarose con i loro occhiali Dior e gli anellazzi d'oro, però abbinati ad abiti consoni alla moda indiana: testa coperta, spalle coperte, atteggiamento deferente manco si trovassero in un tempio (ma lo sapranno che il Taj Mahal è un mausoleo?). A capo della comitiva c'è un lama tibetano, scuro di pelle e con la tunica gialla e bordò.
Incuriositi dal personaggio, attacchiamo bottone scoprendo che parla sia inglese che un buon cinese mandarino. Il lama è gentile, con quel sorriso ingenuo e beato tipico dei preti di campagna, e sta portando in pellegrinaggio queste fedeli buddhiste arrivate dalla Malesia – cinesi malesi, che i malesi malesi son poveri e musulmani. Sarà che me ne vado a spasso con una borsa verde militare con la testa del Presidente Mao e lo slogan “Servire il Popolo”, il lama non mi prende in simpatia, nonostante la mia sincera curiosità: è invece particolarmente felice di chiacchierarsela con Dandan, che nonostante sia quella che di solito è critica con il Dalai Lama e la sua cricca, ora è tutta ossequiosa e felice di parlare con il sant'uomo, che a me sembra meno e meno santo ogni minuto che lo osservo parlare abilmente e gettare incantesimi sulle sacrestane. Vengo dall'Italia, caro mio, e i trucchi dei sacerdoti caso mai te li insegno.

Ci congediamo dal lama, impegnato a condurre la comitiva di cinesi malesi, ma non prima di essere stati inviati a Dharamsala o, caso mai se fosse scomodo, al Centro Tibetano di Delhi, ed essersi scambiati i contatti. Il lama insiste particolarmente per avere un nostro contatto a Pechino, così la prossima volta che passa ci possiamo incontrare: Dandan, che viene da un Paese laico e ufficialmente ateo, casca nel trucco e scrive sul suo taccuino un numero di cellulare. Si rende conto del l'errore solo dopo che il lama si è allontanato, ma d'altra parte non voleva fargli perdere la faccia rifiutando, spiega. A questo punto potremmo anche andare a dare un'occhiata al Centro Tibetano di Delhi, tanto per vedere come si sono riorganizzati i lama dopo il '59, ma Dandan si rende conto che il luogo non è consono, e stavolta è lei a fermare me. Chiudiamo quindi il capitolo lama tibetani e continuiamo il nostro viaggio verso Sud, e ben presto ci dimentichiamo del singolare incontro.

Passano le settimane, ed una sera, verso le 10, ecco sul cellulare di Dandan una chiamata dall'estero. Chi sarà? I suoi ex compagni d'università dall'Inghilterra? Gli zii dall'Australia? Niente affatto, il nostro caro lama dall'India, che vuole fare quattro chiacchiere, così senza una vera ragione. Dandan risponde a monosillabi e dopo una decina di minuti si sgancia con una scusa. Io me la rido, e la incoraggio a chiedere al lama cosa vuole veramente, ma lei non ne vuole sentire. Ma il lama chiama ancora, e ancora e ancora, sempre a orari impossibili della notte e “per fare quattro chiacchiere”, ma sembra più che voglia sondare la disponibilità di Dandan e vedere se può affrontare certi argomenti che nella Repubblica Popolare sarebbero considerati “strani”. Intanto le settimane passano, le Olimpiadi si avvicinano e la politica di sicurezza cinese si fa sempre più restrittiva. Dandan o non risponde oppure inventa scusa per parlare poco e poi mettere giù. Le chiedo di passarmelo ma non si fida di me – preferisce minimizzare i contatti. Poi un giorno il lama dice che vorrebbe spedirle una cartolina, ma non sa il suo indirizzo. Non c'è bisogno, caro lama, dice Dandan, ma in qualche modo non riesce, come dovrebbe, a mandare a fare in culo il sant'uomo come meriterebbe, e sospetto che di mezzo ci sia una superstizione atavica cinese per cui i lama tibetani possono scagliare maledizioni su chi li offende. Il lama insiste, e scopre ancora un po' di più le carte: c'è una cosa che le vorrebbe spedire, ma Dandan non vuole regali. Il lama si scopre ancora di più: c'è una cosa che vuole spedire a un'amica di Pechino, ma preferisce che sia Dandan a riceverla e poi l'amica la viene a ritirare. Aaaaaaaaaah, ecco cosa voleva – dico io – sarà che vuole triangolare la posta perché i suoi amici sono tutti sotto controllo dei servizi segreti?

Dandan suda freddo: non ce la fa a dire al lama di piantarla e di dimenticarsi il numero, ma al tempo stesso capisce che qui si rischia il collaborazionismo con i separatisti. Decide quindi di dare il numero di lavoro, ovvero una bella banca statale con sicurezza degna di un ministero: che non è una cosa tanto intelligente, perché se mai ricevesse posta a nome suo dai tibetani scappati in India e finisse in mano ai controlli intra-aziendali, non solo rischierebbe di farsi un pomeriggio d'interrogatorio al Ministero degli Interni, ma rischierebbe anche l'impiego. Per fortuna il lama è esperto di comunicazione han e capisce la vaga antifona cinese di Dandan – un ossequioso e rispettabilissimo sì che significa no, guarda proprio no, non è il caso – e il pacco non arriva mai. Il lama chiama ancora un paio di volte, una volta chiama persino l'amica del lama dalla Cina, ma Dandan trova scuse e riaggancia subito, e finalmente la piantano.

“Perché l'hai trattato così male?” le chiedo, da stronzo “magari insisteva perché sospetta che tu sia la reincarnazione di un vecchio lama”
“Non sono la reincarnazione di nessuno io!!!” mi risponde giustamente. Ma almeno spero abbia imparato la lezione.

So che qualcuno dirà: “Poverino, quel lama! Ma che ti ha fatto di male per essere trattato così? In fondo combatte pacificamente per la libertà del suo popolo”. Quanto alla “lotta pacifica dei lama per la libertà”, ne parleremo in un post futuro, e per la precisione quello relativo ai disordini di Lhasa che accadranno alcuni mesi dopo il nostro incontro con il lama. Limitiamoci ad osservarli per quel che sono: monaci, preti, religiosi, curiali, clero, promotori di religione organizzata, gente che vive d'elemosina (mendicanti?), gente che campa sulla superstizione degli ignoranti. Potrei andare avanti a lungo.

I cinesi li posso anche capire che caschino in certi trucchetti, ma mi chiedo io: come fa a esserci in Italia gente che riesce ad essere anticlericale e poi quando vede questi monaci rasati pare s'intenerisce? Come fa a cascare nei loro discorsi di amore, pace e non violenza? La Chiesa romana non predica forse la stessa cosa? Credete veramente che i monaci vivano all'altezza del loro credo, o forse come quasi tutti i religiosi in ogni epoca, gran parte di loro non fa che campare alle spalle della società combattendo il cambiamento nella teste delle persone? Perché i cardinali son boia e i guru rimpoche son santi? Basta il colore di un vestito a confonderli?

Io, lo dico con orgoglio, vivo in un Paese dove il capo di una religione che si oppone al progresso civile è stato esiliato. Facessero lo stesso gli italiani col papa, invece di far i pignoli con i cinesi!


2009-03-29

Ritorno a casa


Come accennato nel post precedente, è un periodo che la Cina mi da’ ai nervi. E’ il classico periodo di caduta dopo il picco nella curva dell’espatriato: appena arrivati in un nuovo Paese, se si passa lo shock culturale, c’è la cosiddetta “Luna di Miele”, un periodo in cui tutto è nuovo, tutto è una sfida da vivere giorno per giorno, con gioia ed eccitazione. Poi arriva il momento in cui le cose smettono di essere nuove ed eccitanti, e diventano i “soliti problemi” che uno non riesce ad accettare, non riesce a spiegare perché nel posto in cui vive debba costantemente confrontarsi con certe situazioni insopportabili. Per me questo momento è arrivato, con un ritardo notevole rispetto alla norma, ma è arrivato, e il mio morale è sceso. Nell’iperbole della soddisfazione dell’espatriato, ho raggiunto il picco e ho cominciato a scendere, lentamente ma costantemente.
Tutto mi pesa – il cibo, il lavoro, la gente, il clima, non c’è nulla che non mi irriti, nulla che, in fondo, non mi faccia pensare che avrei voglia di andarmene, che mi fa salire l’inquietudine e la voglia di partire e rompere questa monotonia, questa costante sensazione che l’universo esista in funzione di crearmi spiacevoli sorprese ad ogni angolo. Quando una società cinese di spedizioni mi perde un camion, è la goccia che fa traboccare il vaso. Voi vi chiederete: come si fa a perdere un camion? Non è un mazzo di chiavi, è una merda di camion! Eppure, parte di sabato da Shanghai e giovedì non sanno ancora dov’è, ma pare che chi stava al volante abbia deciso che, in occasione della Festa della Luna il cinese dentro di lui aveva esigenza di tornare a casa a mangiare le mooncake con la famiglia, quindi si è fermato a bordo strada, è sceso dal camion, ha attraversato a piedi l’autostrada e da lì è tornato al suo paese in autostop, con la promessa di riprendere la marcia dopo la Festa della Luna. Ha spento il cellulare e ciao. Pare una storia da cinema, l’epifania che fa impazzire l’individuo e, savio tra i savi, gli fa fare la scelta giusta anche se apparentemente è quella più folle e sconveniente. Solo che nella mia situazione, in attesa del contenuto del camion da circa due mesi, la cosa non è poetica né encomiabile.

Ho bisogno di staccare da questo posto, di prendermi qualche giorno di riflessione per affrontare meglio questi problemi. La risposta possibile è una sola, India. Se ci pensate, “andare in India” è una risposta che va bene per qualunque problema. Suona hippie come commento, ma è terribilmente vero – nessuno entra in India, si mescola alla sua stranissima umanità, e non ne esce cambiato, con un’epifania tutta sua, una risposta a un perché, una piccola o grande trascendenza.


Questo non è il luogo per discutere il mio viaggio in India. Vi basti sapere che quando torno ho smesso di fumare e ho deciso che Dandan è la donna della mia vita. Quel che ci interessa in questo blog è ciò che accade al mio ritorno.


Martedì a mezzogiorno io e Dandan stiamo mangiando un granchio più largo di una spanna, dei calamari fritti e tre bistecche di squalo alla griglia, il tutto – corredato di patatine fritte – per 400 Rupie, che sarebbero circa 8 euri in due. Nel ristorante ci siamo solo noi, un cameriere lontano che ci tiene d’occhio ma non disturba, e l’Oceano Indiano che si ammira dal terrazzo coperto. La temperatura è di 28 gradi all’ombra, leggermente ventilato, asciutto e con un sole splendente. All’una prendiamo un taxi verso l’aeroporto: ne seguono un volo Cochin-Bangalore, poi Bangalore-Delhi, poi Delhi-Shanghai, quindi Shanghai-Pechino. Alle 4 del pomeriggio di mercoledì, dopo circa 24 ore di viaggio, atterriamo all’aeroporto di Pechino, totalmente distrutti. Le ultime ore di volo sono state le peggiori perché invece di volare Kingfisher, di gran lunga la compagnia aerea più fica che abbia mai preso, voliamo China Eastern, compagnia seconda per il peggior servizio solo a Shanghai Airlines, con cui condivide la base. Del resto si sa, non ho simpatie per Shanghai, ma d’altra parte il servizio scortese, il cibo immangiabile, i ritardi imperdonabili e la totale mancanza di informazioni non fanno che rafforzare le mie tesi già radicali su tutto ciò che è shangainese. Ma torniamo a noi, alle 4 del pomeriggio di mercoledì. Le porte dell’aereo si aprono e scendiamo la scala verso il pulmino che ci porterà al ritiro bagagli.


Il cielo è di un blu zaffiro, e un vento freddo spira da Nord. Vestiti ancora da India, ci copriamo le spalle con le pashmina (originali, non quelle false di Yashow), che indossate a mo’ di scialle e combinate alle facce stanche, ai capelli spettinati e alla mia barba incolta da 12 giorni, ci danno un look peculiare rispetto al resto dei passeggeri. Ma sorridiamo. Il tassista ci accoglie lamentandosi che ha aspettato all’aeroporto per 4 ore e casa nostra la si raggiunge in 20 minuti, ma non ci accigliamo, anzi guardiamo ai pioppi della Jichang Gaosu che sfilano piegati dal vento. Il panorama è conosciuto, la skyline nota. Il palazzo dove abitiamo appare in lontananza. Nel cortile la gente ha facce note, rudi e oneste, la gente di Pechino. Il ringhio dell’erhua non è mai stato così dolce. Saliamo le scale carichi di valige e apriamo la porta trovando una casa sistemata dall’ayi che non ha mai profumato così di pulito. Ci buttiamo in doccia, poi Dandan è sul letto, io metto la moca sul gas, entrambi con calze di lana e pigiami pesanti – l’autunno è arrivato, con il suo profumo di foglie morte e di carbone bruciato nelle stufe. Senza nemmeno consultarci, ordiniamo yangrouchuan’r, naan e Xinjiang chaocai, che arrivano in una mezz’ora portati dal nostro amico dell’hutong vicino. Scartiamo i nostri acquisti, scarichiamo le foto sul computer, più tardi accendiamo il riscaldamento ad aria condizionata, che doma il gelo della notte che si avvicina. Ci addormentiamo nel grande letto matrimoniale, abbracciati sotto il piumone, con la sensazione di essere finalmente a casa. La nostra casa, qui a Pechino.


L’ho capito sulla strada che da questa città non me ne andrà mai per sempre. Forse per un periodo, per qualche mese o anno, ma tornerò sempre qui, perché questa è la Casa del mio Spirito.