2009-02-23

Vacanza via dalla Cina

Le vacanze di ottobre si avvicinano e io sono ben deciso ad evitare l'errore dell'ultimo Chunjie, quando sulla cima del monte Emei in Sichuan, a 3000m, avevo trovato la stessa gente che al mercato di Panjiayuan la domenica mattina: mai più viaggi in Cina in periodo di ferie nazionale. E' un periodo che in generale la Cina mi da' ai nervi – sarà il fatto che mi sono fatto tutta l'estate in ufficio a lavorare come uno schiavo, sarà il lavoro disorganizzato, saranno le crescenti restrizioni e paranoie per le Olimpiadi imminenti e in particolare i problemi di visto – e non vedo l'ora di andare in un posto dove mi possa dimenticare, per qualche giorno, della Cina. Decido quindi di andare da qualche parte in Asia meridionale: perché quindi non mostrare a Dandan l'India, una terra e una cultura che tanto mi affascinano? L'idea non la eccita per nulla: tutti i cinesi apparentemente hanno un'opinione pessima dell'India, fondata su una serie di luoghi comuni estremamente diffusi, quali:

a) l'India è sporca

b) l'India è pericolosa

c) l'India è povera

d) in India conviene portarsi una serie infinita di medicine perché è facilissimo prendersi una qualunque rogna dall'acqua, dal cibo o semplicemente da quello che si tocca. E' anche opportuno lavarsi le mani continuamente, non bere mai acqua se non da bottiglie chiuse e per carità quando ci si lavano i denti mai ingoiare per sbaglio mezzo sorso d'acqua.

e) in India è meglio andare con viaggi organizzati perché non è attrezzata per il turismo moderno e internazionale, e sai mai dove vai a finire.

Quando faccio notare a Dandan che questi sono esattamente le stesse cose che gli europei dicono sulla Cina (e non sempre a torto), si offende. Comunque, dopo lunghe discussioni la mia lei accetta il mio punto di vista e acconsente. India sia, dunque.


Per andare a fare un viaggio all'estero servono principalmente due cose: un biglietto aereo ed un visto. Il biglietto aereo si presenta subito – sorpresa delle sorprese – come un problema: infatti tra Cina ed India non corrono buoni rapporti praticamente da sempre, e quindi mentre ci sono voli a go go per ogni altra destinazione asiatica, voli diretti da Pechino per l'India sono rarissimi, estremamente costosi, e raggiungono solo le principali città (Delhi, Bombay e Calcutta). A questo va aggiunto che le agenzie cinesi non sono in grado di acquistare biglietti per voli interni all'India, per cui quelli andranno presi localmente. L'offerta migliore che troviamo è un Pechino-Madras via Bangkok con Thai Airlines, ma costa un occhio della testa.

Nel frattempo proviamo a fare il visto (tanto per cambiare): ora, le Ambasciate indiane nel mondo, come ogni branca dell'amministrazione pubblica indiana, sono un delirio di disorganizzazione e indisponenza, roba che a confronto una qualsiasi ufficio statale di Napoli fa bella figura. L'ufficio visti apre nei giorni lavorativi dalle 9 alle 11.30, obbligando le persone ad accodarsi fuori ed entrando finché c'è posto – quando finisce, tutti quelli rimasti fuori tornano a casa, e che si presentino prima la prossima volta. L'impiegato (ce n'è solamente uno che non parla cinese) sta nello sgabbiozzo della guardia, che in quel momento viene adibito a ufficio visti, mentre la guardia (che non parla inglese) viene messa al cancello a bloccare l'entrata e far fronte alla folla. Nel mentre nel giardino una quantità di altri impiegati passeggiano facendo nulla.

L'attesa per me, che sono arrivato poco prima delle nove, dura circa un'ora e mezzo. Entrano due persone alla volta. L'impiegato riceve urlando incazzatissimo: conviene avere i documenti richiesti in ordine e una penna per correggerli se serve (loro non forniscono penne). Se i documenti sono OK ci vogliono 10-15 minuti (il che significa che l'ufficio esaurisce 10-15 richieste al giorno, a fronte delle 20-30 persone in coda). Se manca qualcosa si viene mandati via senza spiegazioni: la lista dei documenti è sul sito web, e se qualcosa non è chiaro pazienza, non vengono offerte spiegazioni perché nessuno risponde al telefono.

Il visto per me è relativamente semplice, ma quello per Dandan richiede deposito bancario di 10.000 RMB, a garanzia che il viaggiatore cinese ritorni in patria (Quale cinese scapperebbe in India, dove si vive ancora più poveramente che in Cina? Chiederete voi. Non preoccupatevi, di questo avremo modo di parlare in futuro). Mi tocca tornare due volte, e alla fine, dopo aver litigato un po' con l'impiegato e la guardia, riesco ad ottenere i benedetti visti.


Nel frattempo, mentre ero in coda, era passato un cinese che distribuiva volantini di un'agenzia viaggi, con prezzi strepitosi. Faccio chiamare Dandan, che ottiene voli a prezzi stracciatissimi: Pechino – Bangalore con scalo a Hongkong, poco più di 6.000 RMB andata e ritorno. Li prendiamo subito: l'agenzia conferma la prenotazione. E' fatta.


Tutti felici, ci organizziamo preparando guide turistiche, creme solari e pacchi di medicine inviate dalla madre di Dandan. Mancano due settimane, le ferie sono state concesse dalle nostre aziende, e quindi chiamiamo l'agenzia: domani paghiamo i biglietti. “Hao de, hao de, mei wenti”. Il giorno seguente preleviamo i soldi e chiamiamo l'agenzia: venite a consegnarci i biglietti e paghiamo in contanti. “Ahhhh... shao deng yixia.... aspetti un momento... no, i biglietti sono stati venduti”.

“Ma noi li avevamo prenotati” protestiamo.

“Ma non li avete pagati” fa l'agenzia.

“Sì, ma dovevamo pagarli oggi, e ieri sera avevate confermato”

“Ah, veramente? Be', mi spiace, qui sul terminale la prenotazione è scaduta, i biglietti sono stati già venduti e non ce ne sono altri disponibili”.


La mia insofferenza per la Cina raggiunge quindi il limite. Dandan sarebbe anche disposta a rinunciare, ma la rabbia mia è troppa. In meno di 24 ore, chiamando una decina di agenzie, troviamo altri due biglietti, 8.000 RMB e passa, rotta Pechino-Shanghai-Delhi-Bangalore. Un furto e un viaggio della speranza. Ma non m'importa: l'unico obiettivo, al momento, è quello di levarmi di torno la Cina. La sera del giorno dopo andiamo in questo ufficio sperduto in un caseggiato nei pressi di Sanyuan Qiao, paghiamo cash e ci portiamo via il “carnet” di biglietti aerei. India, stiamo arrivando.


2009-02-12

Il Visto d'Affari


Le Olimpiadi si avvicinano, la Cina ha addosso gli occhi di tutto il mondo, e ben sapendo che gran parte dei piantagrane in Cina sono stranieri, il governo decide che il maggior numero possibile se ne deve andare e stare a casa propria, almeno fino a quando le Olimpiadi saranno finite. Inizia quindi una serie di riforme sulla disciplina dei visti, la prima delle quali autorizza un solo rinnovo del visto turistico o d'affari.

Ora, il 90% degli stranieri che lavorano in Cina è qui con un visto d'affari, che si ottiene semplicemente presentando una “lettera d'invito” a un'ambasciata o consolato straniero. La “lettera d'invito” può essere emessa da qualunque azienda o istituzione di diritto cinese per un costo di bollo di RMB 100. Il visto costa poche centinaia di RMB, si ottiene in una settimana e dura almeno sei mesi con possibilità di entrate multiple, e si rinnova facilmente senza bisogno della lettera d'invito. In più, per chi non ha la lettera d'invito fin dall'inizio o non ha tempo, all'aeroporto di Hongkong ci sono agenzie che sbrigano ogni pratica in mezza giornata e senza bisogno di altri documenti che il passaporto e due fototessere.

Pochi hanno il visto di lavoro, che invece richiede visite mediche, certificati di laurea, documenti dell'azienda in cui si lavora, molte centinaia di RMB, alcune settimane, e soprattutto un contratto di assunzione di almeno un anno. Cosa quest'ultima che, in un mercato dinamico come la Cina, è praticamente impossibile da ottenere. Tutti qui lavorano con contratti a tre o sei mesi, o addirittura come free lance.


Il fatto che il visto d'affari non si possa rinnovare più di una volta significa che moltissime persone dovranno espatriare forzatamente. Qualche settimana più tardi, si viene a sapere che Hongkong non rilascia più visti della durata di un anno, le tariffe sono salite alle stelle, pochi riescono a fare visti in giornata, e tutto il processo diventa sempre più difficile. Tanta gente che vive e lavora a Pechino da anni è disperata: essere buttati fuori così, a meno di un anno dalle Olimpiadi che vengono presentate come una grande festa internazionale brucia, soprattutto quando uno qui ha casa, ha lavoro fisso, ha un partner.


Poi esistono comunque i casi limite: come Benjamin, biondissimo venticinquenne americano del Minnesota che sta qui da almeno un paio d'anni. Vive con la fidanzata Sheila, modella pechinese mezza manciù di 19 anni, non studia e non ha mai avuto un vero lavoro. Ogni tanto disegna a computer, crea siti web, scatta fotografie, scrive poesie, contempla la bellezza dell'universo e cose così. Un giorno lo ferma la polizia e gli chiede il passaporto.

“Signor Benjamin” gli dice uno degli agenti, mentre incredulo osserva il documento “ha notato per caso che il suo visto è scaduto da 550 giorni?”
“Ah, è vero!” dice Ben “è un sacco di tempo che mi ero riproposto di rinnovarlo, ma le regole sono diventate così restrittive che alla fine non l'ho mai fatto”.
Caricato in camionetta, portato a un centro per clandestini dove viene lasciato per 20 giorni, e quindi rispedito in America senza possibilità di ritornare in Cina per i prossimi cinque anni. O almeno, questa è la storia: Benjamin riapparirà mesi più tardi sposato con Sheila, e racconterà di quando era in cella e dormiva su un materasso lurido appoggiato per terra, e la polizia non lo picchiava solo perché era intervenuta l'ambasciata. Persona strana, Ben.

Comunque anche gente normale ha problemi: per esempio la mia collega Alexia, che è qui da molto più tempo di me, e sempre con visto d'affari. Dovrebbe andare in Francia o a Hongkong, ma in entrambi i casi dovrebbe spendere cifre notevoli e assentarsi diversi giorni dal lavoro: si rivolge quindi a Michelle, famosissima “mediatrice” nella comunità straniera pechinese. Ora, se guardate i tanti biglietti da visita di Michelle, leggerete la varietà dei servizi che offre: visti, documenti e quant'altro. Il mio preferito è quello dove lei si presenta come “Visa Consultant”, e immediatamente sotto nome e titolo c'è scritto: “Driving License (without physical examination & test)”. Michelle è la classica imprenditrice trentenne dall'aspetto assolutamente comune, quelle persone che vedi e un attimo dopo dimentichi. Gira sempre con una macchina nera coi finestrini oscurati, guidata da un autista che nessuno ha mai visto. Non si ferma mai più di 15 minuti nello stesso luogo: arriva, consegna o riceve documenti e soldi, sparisce. Anche al telefono non si attarda mai. E' considerata la mafiosa più mafiosa tra quelli che gestiscono il mercato dei visti per stranieri, ma è anche una garanzia. Se Michelle non ci riesce, stai sicuro che non ci riesce nessuno. Infatti Michelle, seppur con alcuni giorni di ritardo, consegna il visto di lavoro rinnovato per la quarta-quinta volta ad Alexia.

“Come noterai” dice Michelle, mentre allunga il passaporto alla mia collega “questo visto non è stato emesso a Pechino. Se qualcuno ti chiede qualcosa, tu di' che la settimana scorsa eri a Qingdao, per affari”.

Niente tempo per domande, Michelle è di fretta.

Così, quando anche il mio visto rinnovato più volte scade, anche io chiamo Michelle. Al telefono è nervosa: “Sai, non è facile di questi tempi fare visti” mi dice. Solo dopo che insisto per qualche minuto, finalmente accetta: vorrei consegnarle il mio passaporto subito, ma il visto scadrà di lì a tre settimane, quindi lei mi suggerisce di ritardare – se il visto ha ancora una durata di qualche giorno, può darsi che lo rifiutino.
Michelle vene a prendere il mio passaporto il 7 settembre. Mi assicura che per il 15, data di scadenza del visto, lo avrò. Passano i giorni, arriva il 14, e non c'è traccia del visto.

“Pronto Michelle, il mio visto?”

“C'è qualche problema, ma è solo questione di tempo. Domani forse arriva”

Invece no. Il 15 settembre sono in Cina e l'unico documento che ho è la fotocopia di un visto scaduto.

“Pronto Michelle, mi è scaduto il visto e non c'è traccia del passaporto!”

“Non preoccuparti, arriva”

“Sì ma nel frattempo cosa faccio?!?”

“Se qualcuno bussa alla tua porta di casa, fai finta di non esserci”

E riattacca. Hen hao.
..

I giorni passano ancora, e del mio passaporto nessuna traccia. Sedici, diciassette, diciotto settembre... ogni macchina della polizia mi mette in agitazione (e sotto casa mia parcheggia metà della polizia di Dongcheng), ogni persona in divisa mi spinge a cambiare strada. E se mi fermano, cosa faccio? La fine di Ben? Michelle mi consiglia di stare in casa “nascosto”, ma in realtà tutta la città non fa che parlare delle irruzioni della polizia, di solito a tarda sera o all'alba, in cerca di stranieri senza visto. E' capitato ad almeno quattro o cinque persone che conosco, bussano alla porta, buttano le persone giù dal letto e controllano tutti i documenti, commissionando multe salatissime per mancanze di registrazioni e simili. Sono nella paranoia: stare a casa o uscire?


E poi finalmente il 19 Michelle mi contatta: ha il mio passaporto. Viene in ufficio a portarmelo, regolarmente timbrato dall'ufficio immigrazione di Qingdao, durata sei mesi, una sola entrata. Segue solita raccomandazione: la settimana precedente ero a Qingdao per affari. E si raccomanda che io mi registri alla polizia entro 24 ore, ma senza dare dettagli specifici: non devo dire che lavoro, ma che “faccio affari”; del resto, ho un visto d'affari. Mi racconta di un tizio africano che vive nel mio palazzo, che per due giorni di ritardo nella registrazione si è preso 2000 RMB di multa. Non c'è bisogno di spaventarmi ulteriormente: la mattina seguente sono alla polizia insieme alla mia collega cinese, che cerca di spiegare come mai ci sono 4 giorni di “buio” sul mio visto. Io faccio finta di non capire il cinese, e la pigrizia dei poliziotti di quartiere vince. Me ne vado, con la mia bella registrazione regolare: sono a posto, almeno per i prossimi sei mesi. E poi? Non avete idea. Ma questo ve lo racconterò in un post successivo.


2009-02-01

Assunzione di un assistente


Visto che il volume di lavoro in azienda non fa che aumentare, comincio ad aver bisogno di un assistente, soprattutto per star dietro ai clienti cinesi. E’ così che metto un annuncio su internet.

La risposta è incredibile. A parte il fatto che nessuno dei candidati è in linea con le richieste – nemmeno uno ha uno straccio di esperienza nel settore, per non parlare della preparazione scolastica, che per lo più è classica, dall’inglese all’arte alla musica – le e-mail che ricevo sono inquietantemente strane.


I più fuori luogo di solito sono gli uomini. La candidatura di uno è di due righe: “Salve, ho visto il vostro annuncio e vorrei fare un colloquio”. Risposta mia: “Magari mandaci il cv”. Altra e-mail sua “Ah, sì è vero, scusa: sono laureato in inglese e ho lavorato un po’ di tempo per un’azienda cinese”. Seleziona. Elimina. Svuota Cestino.

Il migliore di tutti è un certo Andy Xu. Il suo cv, inoltrato in testo nell’e-mail con molte rigahe che cominciano per “>”, è intitolato “Andy Xu’s Legendary Story”, e scritto tutto in terza persona tipo biografia. L’inglese è pessimo, ma il contenuto è peggiore. Andy Xu non ha una grande laurea, per sua stessa ammissione, tuttavia con pochi RMB ha creato una sua azienda di IT e trading che muoveva milioni di yuan per tutta l’Asia, instaurando relazioni d’affari con grandi aziende, media, ambasciate e governi (?) tra cui quello delle Filippine. Lui è personalmente amico di molti businessmen stranieri, nonostante – sottolinea – non abbia alcuna esperienza all’estero. Per concludere cita la sua massima personale “No poor life no giant, no failure no wisdom, hero comes from hardship, moneybags from ordinary person, lead a befuddle (?) life will go to die, brave man will govern the world”. Amen, fratello. Conclude con una riga: “The Reason of Seeking Job:break of funds”. Fan-tas-ti-co.

Faccio chiamare dalla segretaria le persone selezionate. C’è una ragazza con un buon curriculum, ha già lavorato in una grande azienda italiana. Origlio la telefonata: “Pronto? Salve, siamo l’azienda XXX, abbiamo ricevuto il suo CV e vorremmo fissarle un colloquio”

“Ah, sì” risponde quella, gelida “Volevo chiedere: quant’è il salario previsto?”
“Beh, dipende dall’esperienza della persona selezionata. Siamo molto aperti, vediamo come ci si può accordare”
“No, perché se è troppo basso non vengo neanche, mi fate perdere tempo”
La segretaria si gira intimidita verso di me, con una faccia persa.
“Dille che se vuole venire viene, se no sta a casa sua”.
La segretaria riporta, e la tipa dice “Va be’, ci penso su e vi faccio sapere”.
Il giorno dopo fisserà il colloquio, ma non si presenterà.

In effetti la diserzione dei colloqui è il problema maggiore: su cinque persone convocate e confermate se ne presentano due. Forse una avverte prima di non venire, con una scusa tipo “Ho l’influenza”. Gli altri semplicemente spariscono, e si negano al cellulare.


Incontro un altro tizio, maschio. Quando la segretaria l’ha chiamato, aveva insistito per venire subito. “Non c’è bisogno di aspettare lunedì, se volete vengo oggi pomeriggio! No, domani mattina?!?” Si presenta lunedì, come richiestogli, ma con un quarto d’ora di ritardo. Si siede, gli presento l’azienda. Occhi vacui. “Hai domande?”

“Yesi, aah, hao machi yisi de ssalary?”
Ma non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami! Domande sull’azienda, non sul lavoro! Il resto del colloquio è un calvario. Non capisce quello che dico ma fa finta di capire. Io non capisco quello che dice, chiedo di ripetere, non capisco ancora, e allora anche io fingo di non capire per sottrarmi alla brutta situazione.
“So… do you have any previous experience in this business?”
“Aah, yesi, I woerking fo a forign campany, sella forign fo”
“Sorry?”
“Ah, ita wasi notta forign fo, ita wasi afari fo, soth afari fo, also sella in supamaket”
Sul CV è citata una certa “Cape Company”.
“African food?”
“Yesi, afari fo! ”

C’è una scena nel Monty Python Flying Circus, in cui diversi scienziati presentano alla Gestapo una barzelletta che faccia morire dal ridere i nemici. Gli ufficiali della Gestapo si guardano straniti, poi uno risponde, in un marcato accento tedesco: “Senk you very much for coming, wi will let you know”. Poi estrae una pistola e fa fuoco (qui, a 8.15 min dall'inizio). Lo scienziato cade all’indietro su una pila di corpi in camice bianco.



Ecco, io mi immaginavo in quella scena, o anche tirando una corda per far cadere un peso da 16 tonnellate sulla sua testa.

Alla fine riesco a isolare due ragazze, rispettivamente 19 e 20 anni, non laureate ma con un buon inglese, bella presenza, entusiasmo. Siccome entrambe sono al primo lavoro, chiedono abbastanza poco perché si possa assumerle entrambe. Nathalie è di Canton, e insiste a vestirsi come se fosse ai tropici - minigonna minimale, canottierina scollata e sandali con tacco: per fortuna pesa quaranta chili e con pelle e ossa non corre il rischio di imbarazzare gli astanti più di tanto; in compenso è una ruffiana incredibile e, per quanto risulti indigesta a qualunque persona di genere femminile fin dal primo momento, di solito risulta simpatica agli uomini, che costituiscono la quasi totalità dei clienti. Penny è di Pechino, meno dotata socialmente ma più modesta, organizzata e fondamentalmente affidabile.


Il primo giorno le metto a studiare cosa significa vendere e che cos'è il mondo del vino, una giornata quasi piena di training, concluso con una degustazione di vino. Il secondo giorno Penny chiama da casa e dice che deve assolutamente andare ad Hongkong per un impegno già preso in precedenza, ma tornerà la settimana seguente; chiede che si possa iniziare il contratto con una settimana di ritardo. Il lunedì seguente chiama Nathalie e le chiede di dirmi che è all'ospedale per una malattia improvvisa: le concedo quindi un'ulteriore settimana di dilazione, ma qualcosa non mi torna, e anche Nathalie non sembra convintissima. Alla terza settimana, Penny non si presenta del tutto e non risponde al cellulare. Sarà morta o in coma? Quale delle due, non avrò mai più sue notizie.


E così rimango con Nathalie: dopo un lungo calvario, finalmente ho una persona a cui poter delegare una parte delle mie mansioni. Poteva andare meglio, ma poteva andare molto, molto peggio.