2008-10-26

Veggenti

E' una sera di giugno, e sto lavorando come un matto da tre settimane per una serie di eventi che si stanno concretizzando proprio in questi giorni. Sono davanti all'Oriental Plaza, uno dei mall più moderni e pettinati della città, su una scalinata imponente che, da una piazza con una fontana scende verso la Chang'an Jie, la strada a dodici corsie che taglia Pechino a metà tra nord e sud. Insieme alla mia collega Cherry, originaria dello Henan, stiamo aspettando il gotha aziendale, per portarli in un ristorante scicchissimo nel mall stesso.

Ed è proprio mentre i miei occhi scandagliano la strada cercando di trovare il taxi degli ospiti che aspettiamo, che mi si para davanti un vecchio. Vedere un vecchio in questa zona è già abbastanza strano – la Pechino moderna appartiene alla nuova generazione di giovani intraprendenti, non a quella vecchia e ancora legata alla logica dell'azienda statale. Ma chi ho davanti non è un vecchio qualunque come ce ne sono qui – occhialini, abiti dimessi o al più vecchia uniforme maoista, scarpe cinesi di tela nera, aria riservata e molto pacata. Il vecchio tanto per cominciare non è poi tanto vecchio, ma solo estremamente sfatto: avrà forse cinquant'anni ma ne dimostra settanta. E' coperto di stracci, ma stracci genuini (non gli stracci dei mendicanti che sono più una mascherata tragica che altro); indossa dei sandali, una sacca-zaino da vagabondo e ha una barba lunga e appuntita da taoista. Mi guarda negli occhi spiritato, e mi prende la mano, esaminandola con aria interessata e professionale. “Mmmh... “ annuisce. Poi mi guarda ancora, stavolta meno inquietante, e mi chiede se può leggermi la mano: fanno solo venti kuai. Lui, beninteso, è un veggente itinerante originario dell'Anhui; Cherry, che viene dallo Henan ed è più che scafata, si dimostra scettica, ma non interviene trattando con tolleranza il mio bisogno occidentale di pittoresco. Normalmente direi anche di sì, ma siccome sto lavorando, gli pongo la condizione di muoversi – e siccome ormai ho assimilato anche un po' di cinesità, negozio: previsione espressa, metà tempo, metà prezzo. Il vecchio accetta e, facendo tradurre a una divertita Cherry, mi spiega cosa vede.


Questo mese, il giugno-luglio (lui si esprime in mesi lunari cinesi, ovviamente) del 2007 è un ottimo periodo, il migliore dell'anno. Anche l'anno è un anno buono, ma quello che verrà sarà molto più impegnativo. Sono una persona con una mente sveglia e forte, di ottima cultura, facile all'apprendimento; sono anche fortunato in amore, così fortunato che posso anche avere due donne, l'importante è che stia lontano da quelle del segno del Topo, che mi porterebbero sfortuna (penso alla mia ex del Topo e annuisco).


Poi arrivano i nostri ospiti. Cherry li vede arrivare in macchina. “Per favore, chiudi che dobbiamo andare” dico al veggente, ma quello non sembra di fretta.


Il miglior periodo della mia vita sarà tra i 33 e i 43 anni, poi avrò qualche problema, forse di salute ma non necessariamente.


“Ora devo proprio andare!” dico, ma il vecchio non mi molla la mano. Cherry va incontro agli ospiti, io cerco di divincolarmi ma senza troppa convinzione. Chissà perché, è difficile trattare i veggenti in modo brusco: forse ha a che fare con una paura superstiziosa dei loro poteri, oppure con il transfert che subiamo nel momento in cui questi cominciano a descriverci la nostra vita come se la conoscessero meglio di noi.


L'ultima parte della mia vita, dice – e stavolta me la devo cavare senza traduzione - filerà comunque molto liscia, almeno fino agli 89 anni, perché la mia linea della vita è eccezionalmente lunga (penso che se si basa sull'aspettativa media dei cinesi, forse potrei anche vivere fino a 120 anni).


Poi finalmente mi molla. Prendo il portafoglio e mi accorgo che non ho 10 kuai spicci, ma solo 20. Glieli allungo chiedendo il resto, e guardandomi alle spalle mentre il mio capo e gli ospiti intanto mi passano di fianco e mi guardano come dire “Che poca professionalità, noi siamo arrivati e quello si sta facendo leggere la mano da un barbone”. Il veggente ravana a lungo nella sacca, giocando sulla mia premura, ma oramai il peggio è passato, e non può peggiorare. Finalmente trova una banconota stropicciata da 10 kuai che prendo e infilo nel portafoglio. Lo saluto, ringraziandolo, e scappo per raggiungere la mia comitiva.


Sembra la scena di un film, ma Pechino è anche questo – il sorprendere, il rompere la monotonia della vita prevedibile. E il veggente ci ha preso, chiederete voi? Mah... certamente che il 2008 sarebbe stato un anno difficile è stato verissimo, e questo lo scoprirete leggendo i futuri post. Che io abbia una buona mente non sta a me dirlo, ma posso dire di essere stato abbastanza fortunato in amore, anche se effettivamente le donne Topo sono state tra quelle più problematiche nella mia vita sentimentale. Due donne allo stesso tempo non le ho ancora avute né prevedo di averne. Il resto ha ancora da venire, quindi dovrete portare pazienza come la porto io.


Per quel che mi riguarda, non ho troppa fretta di scoprirlo. Per adesso sono qui, e mi godo questa imprevedibile, cinematografica Pechino.

2008-10-12

Russi

Ho già raccontato in precedenza di avere una vicina russa, Inna. Mi capita una sera di incrociarla sul pianerottolo, e quella mi dice che sta a casa con degli amici, e mi invita a unirmi. Ben venga, per dimostrare la mia buona volontà mi presento con una boccia di Nero d'Avola, ed eccomi nel salotto della mia vicina.

L'appartamento è speculare al mio, solamente che invece del parquet in linoleum ci sono delle gelide piastrelle. Le luci al neon bianche invece sono le stesse. Nella sala c'è un divano, un tavolino basso, delle sedie e una TV su un mobiletto, praticamente come nella mia. Due personaggi sono già seduti con delle bottiglie di birra Baltika in mano. Una si chiama Inna, proprio come la mia ospite: grassoccia, naso a patata, fondi di bottiglia sugli occhi, mi fa un sorriso e mi saluta. L'altro è Vova, da me conosciuto come il tamarro del palazzo, un minorenne alto più di me che ama scarabocchiare in cirillico sui muri delle scale e pimpare il suo motorino con improbabili stereo per aumentare il volume della musica techno russa. Non mi ha mai salutato né sorriso, invece ora allunga la mano affabile, con quell'aria un po' losca tipica degli slavi che più ti sorridono più ti fanno pensare che ti stanno fregando.

Inna la vicina fa la manager in un ristorante di fronte al compound diplomatico di Gongti Bei Lu. Si vede che è brava e si sbatte, anche se il posto è talmente pacchiano che non mi sono mai azzardato ad entrare. L'altra Inna lavora in una non meglio precisata trading, e anche lei è una ragazza seria, con la testa a posto. Vova ha 17 anni, vive con la madre che è la classica signora russa biondissima, algida, leopardata e con due seni di dimensioni impossibili; il padre non è ben chiaro dove sia. Va a scuola a Pechino, ma con scarsi risultati: poco male, perché tanto lui odia la scuola, odia la Cina e vuole fare il DJ; nell'attesa di diplomarsi ed uscire di casa, spaccia hashish.

Le due Inna sono poco impressionate dalla mia boccia di vino – una non ne beve, l'altra lo beve solo bianco. Vova invece individua lo status symbol del ricco pappone e, praticamente da solo, svuota la bottiglia. I tre hanno un computer che, sul Windows Media Player, suona musica techno russa: Vova intanto si diverte a mostrare dei video, forse scaricati da Youtube, con delle gratuitissime scene di violenza tipo: cinque ragazzi russi che si picchiano (e non parlo di pugni allo stomaco, ma di colpi di anfibio in faccia e gomitate alle tempie), soldati russi che, ridendo, stanno fermi in fila con un sergente che, uno a uno, li prende a ginocchiate nello stomaco, tre amici che litigano e a sorpresa uno tira fuori una catena e colpisce un altro; il terzo prova a dividerli e si becca un colpo di catena anche lui, quindi inizia una rissa reale in cui tutti picchiano tutti finché altri passanti intervengono per aumentare il livello di violenza e sangue.

Vova si spancia ma le due Inna, al contrario di me, non sono per nulla impressionate. La mia vicina mi spiega “This is how Russian young people like to have fun. It's normal in Russia. Everybody does it”. Vova è molto fiero di sé stesso e della sua nazione in questo momento, almeno finché Inna non chiude amareggiata con: “I come from Vladivostok. No way in going back to that shit”. Vova dissente: lui la Russia la idealizza: altro che 'sto paese di debosciati, dice, in Russia c'è da divertirsi! La seconda Inna concorda con l'amica. La Russia è un postaccio e a Pechino, se uno ha voglia di lavorare onestamente, si sta molto ma molto meglio. Scopro quindi che la maggior parte dei russi di Pechino, come mi spiegano, è siberiana: gente di Vladivostok, di Irkutsk e del resto della Russia orientale.

I russi sono la comunità europea più antica a Pechino, e la loro ambasciata, circondata da un enorme parco all'interno del Secondo Anello, ne è testimonianza. Esiste addirittura un quartiere russo a Pechino, con una via, Yabao Lu, dove i negozi hanno insegne in cirillico e vendono pellicce e altre cose importate direttamente da oltreconfine. La sera la zona diventa ovviamente losca, con una serie di night club tra i più costosi della città, se non altro perché le bionde comandano prezzi ben più alti delle orientali, e questo in tutta l'Asia. Non ho idea di quanti russi ci siano a Pechino, ma sono tanti, forse la comunità straniera più estesa, e ad essi si aggiungono i russi cinesi, quelli che qui vengono definiti “cinesi appartenenti alla minoranza etnica russa”.

Per tutto il tempo i miei compagni di bevuta hanno continuato a interloquire tra loro in russo, utilizzando l'inglese solo per parlare direttamente a me. All'aumentare dell'alcool e fondamentalmente della noia e della stanchezza, succede che finiscono a parlare tra loro praticamente dimentichi della mia presenza, se non ogni tanto Vova che alza il bicchiere per brindare con me. Dopo un quarto d'ora che nessuno mi rivolge la parola, totalmente escluso dalla conversazione e annoiato a morte dalla techno russa, mi congedo. Vova, mescolando birra e vino, è bello alticcio e quando gli lascio il fondo della bottiglia decide che sono diventato suo amico, e quindi mi invita a chiamarlo nel caso mi servisse dell'hashish. “Anytime, you just call me, I can bring you the next day!”. Grazie, dico, ti farò sapere. Inna mi saluta calorosamente e mi invita a tornare quando voglio, l'altra mi sorride con simpatia, e non capisco sinceramente se si rendono conto che mi sono annoiato da morire. O forse è colpa mia, quando loro mi hanno invitato a bere qualcosa da loro intendevano che bere era lo scopo della serata, e si aspettavano che mi ubriacassi invece di far conversazione tutto il tempo.

Torno a casa sorpreso da questa strana gente. Saranno anche d'origine europea, ma per me i russi son più strani che i cinesi. Senz'altro condivido l'opinione che qui sia molto meglio che nel loro Paese, se non altro per l'ospitalità della gente. Mi fa piacere comunque aver conosciuto questi russi pechinesi e aggiungere un tassello alla mia comprensione di questa città, all'apparenza così semplice e monolitica, e invece così antica e complessa.

L'importanza del come e non del cosa

Una delle sicurezze di ogni lavoro è quella dei problemi, dei guai, dei casini. In gran parte delle aziende, il lavoro quotidiano di impiegati e dirigenti è proprio quello di prevedere, affrontare e risolvere i problemi. Quasi tutti voi sarete familiari con i problemi che normalmente occorrono in Italia: ci sono cose che si possono fare, cose che non si possono fare, e cose che non si dovrebbero fare ma si fanno lo stesso, ed è meglio che nessuno venga a saperle. Tre categorie semplici e chiare. In Cina, come forse immaginerete, non è così.

In Cina tutto si può fare, dipende COME lo si fa. C'è un modo particolare di fare ogni cosa: se non lo si conosce, ci si arena sulle cose più elementari e sciocche. A causare i guai non sono mai i grossi problemi, perché tutto si può risolvere, ma sono quelli piccoli, talmente piccoli che non li si era previsti e spesso li si sottovaluta, fino al giorno in cui ci rendiamo conto di essere sommersi da un mare di impedimenti stupidissimi a cui non saremo mai in grado di far fronte, e intanto l'azienda è paralizzata.

Gran parte di questi stupidi problemi sono causati dalla superficialità dello staff cinese non esperto. Se avete lavorato in Cina, sapete che occorre dare ordini chiari, precisi, semplici, univoci, eliminare qualunque possibilità di sorpresa, e controllare costantemente tutto quello che viene fatto, dall'inizio alla fine. Altrimenti, è l'inferno.

Veniamo all'esempio: un bel giorno chiedo a Sophia, la nostra segretaria-interprete-ricercatrice con grande esperienza in aziende straniere, di chiedere dei preventivi per il trasporto refrigerato via camion tra Shanghai e Pechino. Lei dice “OK”, immediato campanello d'allarme; se non fanno domande, o non hanno capito, o non stavano ascoltando. Infatti il giorno seguente Sophia mi risponde a voce. “Ci sono diverse aziende che lo fanno, una a tot alla cassa, una tot al chilo, un'altra invece dice che devi riempire il camion”. Le chiedo cortesemente di farmi un foglio excel, e dopo tre volte che glielo faccio rifare comincio a capirci qualcosa. Tutti i preventivi sono fantasiosamente alti, tipo che una spedizione aerea Milano – Pechino mi costa meno. Però Sophia, nella sua bravura, ha trovato uno che ci fa un prezzo bassissimo, e si capisce che si aspetta che io dica “OK, lo prendiamo”. Invece, dall'alto della mia esperienza in Cina, rispondo: “Il camion refrigerato ce l'hanno?”.
“Be', no” risponde candida “hanno un normalissimo Jinbei, ma dicono che possono cospargere il vano trasporti di ghiaccio, se occorre”.
“Sophia, lo sai che tra Pechino a Shanghai ci sono almeno 24-36 ore di autostrada?”
“Sì, perché?”

Non credete che questo sia un caso isolato. Quando ho lavorato alla mia vecchia azienda, abbiamo spedito salumi freschi per almeno sei mesi in camion refrigerati (refrigeratissimi, ce li avevano persino fatti esaminare, erano impeccabili) per tutta la Cina, incluse le regioni tropicali dove facevano 45 gradi all'ombra e umidità 90% nei giorni freschi. Poi un giorno siamo andati a vedere il magazzino di Canton: un garage da automobili con due frigo da supermercato, stipati di salami coperti delle muffe più strane. Siccome avevano calcolato male la capacità, un buon 60% della merce era fuori dal frigo, perché non ci entrava, e vi lascio immaginare il colore. L'odore no, perché erano sottovuoto, e per questo probabilmente il magazziniera aveva pensato che era OK proporli così ai clienti stranieri, che quelli sai che porcherie si mangiano – se c'è il formaggio con la muffa, ci sarà anche il salame con la muffa, no? Io l'avevo presa bene, il responsabile produzione, che era in Cina da meno tempo, era diventato viola e ne aveva dette di ogni al capo dell'ufficio di Canton. Il quale sereno, aveva risposto: “Non è mica colpa mia, il salame è già arrivato così”. Fast-forward al responsabile trasporti, altrettanto candido: “Noi utilizziamo una società di trasporto esterna e paghiamo un prezzo fisso al chilometro. Ma il frigo consuma energia e quindi carburante, per cui lo spengono quando viaggiano”. Come dire, scemo tu che me lo chiedi.

Succede poi che un giorno l'ufficio di Milano mi avverte che devo ricevere una spedizione di prodotti alimentari vari, tutti di straordinaria qualità, e che quindi richiedono condizioni impeccabili di magazzino. Utilizziamo un grande vettore italiano il cui responsabile milanese vanta programmi speciali tipo “Zero Damage Delivery” con un controllo perfetto del prodotto dalla porta della fabbrica all'utilizzatore finale. All'aeroporto di Pechino sdogana un'azienda cinese loro partner, che conoscono benissimo e con cui lavorano da anni. Il milanese quasi si offende quando gli chiedo più dettagli, come se mettessi in dubbio la sua professionalità. “E' tutto sotto controllo, lei si preoccupi solo di ricevere la merce il giorno tale”. Il milanese, dall'alto della sua professionalità, divide la merce in due spedizioni: prosciutto e formaggio in frigo, olio, conserve e cioccolato a temperatura ambiente. Non fidandomi, chiamo infatti la ditta cinese: “Tutto è sotto controllo” mi dicono anche quelli, quasi scocciati “una parte andrà in frigo, l'altra a temperatura ambiente!”. Puntiglioso, chiedo maggiori riformazioni sui locali di giacenza: uno è una sala refrigerata con una temperatura oscillante tra i 2 e i 10 gradi (la massima temperatura da frigo è 4 gradi). Quanto all'altra, è un capannone qualunque. Temperatura ambiente: solo che la temperatura ambiente a Pechino a giugno sono 38 gradi, e vaffanculo al cioccolato. “Ma noi lo mettiamo all'ombra” dice il cinese, candido. Segue telefonata all'ufficio di Milano con toni poco pacati e minacce di cause legali e simili.

Il tutto per gestire la catena del freddo, che è una cosa che in Europa conosciamo da almeno 20-30 anni. Ora pensate a cosa succede quando invece trattate operazioni di borsa, sicurezza informatica o medicina.

Il rischio è esattamente quello che rende la vita così frenetica in Cina. Non potete mai rilassarvi, perché in qualunque momento potrebbe sorgere un problema assolutamente idiota che rischia di mettere a repentaglio l'esistenza stessa dell'azienda in cui lavorate. Ma in fondo è anche ciò che la rende così poco noiosa – ogni giorno ci sono nuovi problemi e, se li prendete con pazienza e filosofia, potreste persino mettervi a ridere come avete fatto leggendo questo post, anche quando a risolvere questi guai dovete essere voi.

2008-10-05

2 Giugno

Il 2 giugno è la Festa Nazionale italiana, e nelle nostre sedi diplomatiche di tutto il mondo si celebra con un ricevimento a cui è invitata tutta la comunità dei connazionali e un nutrito gruppo di autoctoni che hanno a che fare con essa. Nello specifico, a Pechino la festa si tiene nel giardino della residenza dell'Ambasciatore.


Ricevo il mio invito e decido ovviamente di andarci, se non altro per coltivare un po' di relazioni con le persone presenti e per far vedere a Dandan com'è questo tipo di evento. La festa, beninteso, non è mai un granché: i prodotti sono quasi sempre offerti gratuitamente da qualche azienda o ristorante italiano, l'organizzazione è abbastanza raffazzonata, ma siccome tutti ci vanno è un'ottima occasione per vedersi, salutarsi e scambiare informazioni.


Siccome arrivo dall'ufficio, fa un caldo boia e l'afa uccide, mi presento molto casual, con un paio di jeans leggeri, sandali e maglietta di lino. Vengo accolto all'entrata da una fila di persone – Ambasciatore, moglie dell'Ambasciatore, Primo Console e signora, Generale Responsabile della Difesa e signora, Direttrice dell'Istituto Culturale e signore, tutti a stringermi la mano con sorrisi di plastica. Guardandomi attorno, mi rendo conto che tutti sono estremamente eleganti, e anche quelli più rilassati hanno almeno la camicia. Gli ultimi due sorrisi sono quelli di persone amiche, e nei loro occhi leggo un totale disappunto e rimprovero, del tipo: “Se la situazione non fosse questa ci sarebbe da ridere. Ma come ti può essere saltato in mente di presentarti così?”. Pertanto finita la fila di strette di mano e saluti eseguo un'inversione a U, esco, risalgo sul taxi e torno a casa, onde procurarmi degli abiti più opportuni. Ci sarebbe da vergognarsi, e mi vergogno, ma la situazione è talmente surreale che vaffanculo, non riesco a non ridere ripensando alle facce di tutti quando mi hanno visto.


Nel frattempo chiamo Dandan: “Ciao Amore... ti ricordi quando ti avevo detto che potevi vestirti come volevi? Dove hai detto che sei? Ecco, dì al tassista di tornare indietro, ci vediamo a casa”.


Ci ritroviamo effettivamente all'appartamento, dove lei si mette un bell'abito marrone e io un completo di lino bianco con camicia color caffè. Risaltiamo sul taxi e, grazie alla posizione favorevole di casa nostra, circa 40 minuti dopo siamo di nuovo in ambasciata. A quel punto la fila di diplomatici si è già dispersa e tutti sono intenti a sorseggiare bicchieri di prosecco nel giardino, chiacchierando e sudando come contadini nei loro begli abiti eleganti. Fa un caldo che non si può descrivere, ed eccoli lì, gessato e cravatta, vittime della loro vanità, che boccheggiano impotenti, schiacciati dal clima estivo della metropoli. Io e Dandan ora siamo stra-stilosi e non abbiamo nulla di cui vergognarci (a parte il sudore, ma partiamo avvantaggiati perché gli altri fanno sauna da 40 minuti prima di noi), e ci uniamo alla folla.


Ora, gli italiani si lamentano tutti di queste incombenze, ma poiché si tratta di bere e mangiare gratis e incontrare gente che occorre vedere ma a cui non si vorrebbe dare appuntamento, si presentano tutti. Incontro Linda, Yao Qiong e suo marito Alberto, Stefano l'avvocato, Viola, Federico, Alessio, e altri: Marco, Luca, Luisa, Irene. Tutto sommato non è male questa festa – non tanto in sé ma per il peso che toglie. Fatte le conversazioni, salutate le conoscenze,ascoltati i pettegolezzi personali e d'affari, ciascuno se ne va.


Qualcuno propone una cena in un ristorante di pesce, ma io ho ancora da fare in ufficio: con la scusa opportuna, prendo Dandan e Viola e in pochi minuti raggiungiamo il luogo. Mentre guardo le ultime e-mail della giornata, metto su un po' di musica italiana – Negrita, Afterhours, i vecchi Litfiba – e stappo una bottiglia di Moscato spumante, di quello buono. Viola e Dandan si riempiono i bicchieri, e ondeggiano a ritmo della musica. Rimaniamo a chiacchierare dopo che ho esaurito i miei impegni al computer, finiamo la bottiglia con calma, senza fretta. Tra amici, in una situazione rilassante, con un bicchiere di vino buono e buona musica... cosa serve di più? E' questo davvero il modo ideale di finire una serata così.