2008-06-30

Ghiacciolo

Quando la primavera arriva, e si vive in uno xiaoqu, e per di più vicino agli hutong, è un piacere cenare presto e, mentre non è ancora completamente buio, scendere in strada e fare una passeggiata. Non ci sono luci al neon intermittenti e invasive, né la puzza e il rumore delle auto, solo altra gente che tranquillamente si gode la brezza della sera, che porta i profumi dei gelsomini e della acacie in fiore.

Di solito quando passeggio mi piace prendere un gelato, ma qui un po’ per la pancia che avanza, un po’ perché i gelati cinesi sono stradolci e pieni di coloranti chimicissimi, preferisco andare sul ghacciolo.

Il ghiacciolo! Ricordi di bambino, quando si giocava nel cortile dietro al tabaccaio che li vendeva, o all’oratorio d’estate, quando non c’era nulla da fare e stare all’ombra gustando qualcosa di freddo era la cosa migliore che potesse capitare. Ricordo che i ghiaccioli non costavano nulla, e ce n’era di ogni gusto: arancio, limone, menta, cola, fragola, persino l’anice, tutti meravigliosi. Ma in Cina no.

La differenza fondamentale tra un ghiacciolo e un gelato è che il primo è costituito essenzialmente da acqua ghiacciata mista a uno sciroppo dolce; il secondo ha una sostanziosa aggiunta di latte, che lo rende appunto cremoso. Noi italiani lo sappiamo bene, data la nostra famosa tradizione in merito. Anche i cinesi distinguono le due cose con due parole diverse: il ghiacciolo è il bingbang (冰棒) e il gelato bingqilin (冰淇淋). Solo, per qualche curioso equivoco, il ghiacciolo in Cina contiene tipicamente latte.

“Vorrei un ghiacciolo, che gusti avete?”

“Latte”

“... e poi?”

“Mirtillo e latte”

“C’è qualcosa senza latte?”

Sì, il ghiacciolo al limone e arancio. Che sa di latte. Che poi è il latte cinese iperchimico, che te lo spiego. Ma per i cinesi il latte è una novità sana che fa bene alle ossa, e con questa scusa le aziende di ghiaccioli ce lo mettono un po’ dappertutto, anche solo come profumo o sapore.

Con il supporto linguistico di Dandan, mi metto a girare tutti i baracchini della zona in cerca di un giacciolo che non contenga latte. La ricerca è lunga e difficile, ma alla fine paga, con la scoperta del laobingbang (老冰棒), il “ghiacciolo della Vecchia Pechino”, con tanto di carta bianca con scene tratte da intarsi della dinastia Qing di un vecchio con cappello tondo e codino che offre il ghiacciolo a un bambino a piedi scalzi e con il tradizionale ciuffo di capelli in cima alla testa. Del resto si sa, i cinesi hanno inventato tutto: se loro sono le invenzioni della pizza e degli spaghetti, perché non il ghiacciolo? Difatti il suddetto dessert, oltre a un lievissimo gusto di latte (che comunque è minimo, grazie al cielo), sa di banana, il frutto tipico della steppa ai confini della Mongolia.

Tutto sommato il laobingbang non è tanto male, o quantomeno è quanto di più vicino a un ghiacciolo italiano si possa trovare da queste parti. E così la sera, dopo l’ennesimo pasto luculliano frutto della mia cucina italiana o di quella sichuanese di Dandan, si cammina per Dongyangguan Hutong, o nel parco di Nanguan, o in Beixinqiao San Tiao, in una mano quella della dolce metà, nell’altra il laobingbang. E, dall’altra parte del mondo, sembra quasi di tornar bambini a Milano. O a casa propria, sarebbe più onesto dire. La mia casa, oramai, è qui.

2008-06-27

Cani e porci

Quanto tempo è passato da quando ero entusiasta della gente che si trovava a Pechino? La mia prima impressione era di trovare persone speciali, persone che, sfuggite al loro mondo per cui provavano insofferenza, erano finite dall’altra parte del globo in una terra aliena, talvolta accogliente talvolta incredibilmente ostile. Persone speciali per cui non si poteva non provare rispetto o ammirazione, se non altro per il coraggio di essere venuti in Cina. Era l’inizio del 2003, e ora invece è quasi la metà del 2007: quattro anni, e non sembra quasi di essere più nello stesso Paese. Per un po’ ho pensato di essere io quello che era cambiato, a non guardare più dal basso del novizio ma dall’esperienza di chi vive qui da qualche anno. Poi invece ho capito che è proprio la gente a non essere più la stessa... una volta la Cina era quasi terra incognita, adesso è l’America di chi vuole fare il business.

E lo vedi nella gente che viene oggi: tronfi, unilaterali, pieni dei pregiudizi della loro cultura. Vengono per fare gli affari loro, autolegittimati e pieni di pretese nei confronti dell terra che li ospita, considerata alla stregua di un Paese in via di sviluppo, un’ex colonia che vorrebbe diventare come l’Occidente ma ha le idee confuse sul come fare. E’ la gente che si lamenta che i cinesi non parlano inglese (come se in tanti altri Paesi lo parlassero), che il caffé e i cocktail fanno schifo e che non si trovano bar alla moda, convinti di arrivare in una copia di qualunque città europea o americana, dove il modello capitalista occidentale ha vinto, e chi paga ha a disposizione. Loro pagherebbero anche, dall’alto del loro reddito in euro o dollari, è solo che si infuriano se pagare non basta, ma occorre anche capire, comunicare, scegliere. Non capiscono come mai i poveri cinesi non si comportano come altri poveri nel mondo e non si fanno calpestare dai ricchi per qualche spicciolo. Sono persone che sognano grandi carriere in un Paese con crescita a due cifre, si immaginano in giacca e cravatta a dare ordini ad eserciti di impiegati-schiavi locali, ma se lasciati soli non sanno nemmeno prendere un taxi o ordinare una forchetta in un ristorante cinese. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di puntualizzare che queste persone non provano nemmeno ad imparare il cinese, oppure ci provano ma mollano dopo due settimane perché “è troppo difficile”, e quando possono frequentano solo luoghi per stranieri, così si sentono più a casa.

E’ gente spiantata, spiaggiata, lontana anni luce da quella che tanto tempo fa mi aveva stupito. Del resto, cinque anni fa questi nuovi arrivati non sarebbero sopravvissuti un giorno a Pechino – quando ancora nessuno, ma nemmeno lo staff degli alberghi a cinque stelle, parlava inglese; quando nei supermercati trovate la Nutella e il latte era un miracolo; quando i bar e i ristoranti stranieri si contavano ancora facilmente, e quelli italiani erano quattro o cinque. Forse certa gente in Cina ci arrivava già una volta, solo che non ci rimaneva. Oggi invece sì, grazie alla nuova Pechino che accoglie gli amici stranieri.

Immagino tutto ciò sia un cambiamento inevitabile, se la mia venuta qui è un prodotto della globalizzazione questa è una nuova fase. Io sono arrivato cavalcando l’onda dell’interesse occidentale della Cina, prima che lo tsunami dei manager internazionali si abbattesse su questo luogo. Se non avessi avuto quella spinta alle spalle, certo qui non mi sarebbe mai venuto in mente di passare.

Ciò non toglie che pur cosciente di quanto devo all’interesse degli occidentali per l’Impero di Mezzo, non sia disposto per nulla ad accettare certi comportamenti da turisti della domenica – i miei modelli rimangono quelli arrivati prima di me, quelli coscienti di approcciare una cultura millenaria e quindi disposti a trattarla con rispetto, ad accettare la necessità di doversi comportare, almeno per cortesia sociale, alla cinese. Dico “no” a quelli che pretendono che siano i sempre cinesi a parlare inglese, dico “stupidi” a quelli che sostengono la cucina cinese faccia ingrassare e quindi mangiano McDonald’s e KFC, dico “sfigati” a quelli che sorridono ai cinesi solo in ufficio e dopo il lavoro li evitano come possono, e dico “ignoranti” a quelli che credono che la Cina si sia sviluppata solo grazie all’influsso occidentale, e che senza l’Europa e l’America sarebbe al livello di sviluppo dell’India. E chiudo con dicendo “bestie” a chi sostiene che per vedere la “vera Cina” sia necessario uscire da Pechino, perché automobili, grattacieli, sistema fognario, elettricità, strade asfaltate e telefoni cellulari sono, nella loro mente, segni di occidentalizzazione e non di progresso. Perché non capiscono come ci possa essere progresso senza occidentalizzazione, perché poi si chiedono “perché invece delle automobili e dei grattacieli non importano la democrazia?”.

Ecco, per dirla tutta, di questa gente ne ho piene le scatole. Che se ne torni a casa propria, se qui non è di loro gusto. Ma sogno, perché quelli come me stanno scomparendo, e quelli come loro saranno sempre di più. La battaglia è stata in fondo persa ancora prima che io arrivassi nel lontano 2003. La guerra, non lo so: forse, col tempo, i cinesi saranno capaci di difendere la loro tradizione e farsi rispettare da soli, si spera con la civiltà e non con una semplice dimostrazione di forza. O più probabilmente, tra cinquant’anni qui parleranno tutti inglese, ci saranno cinque ristoranti Armani e alcune migliaia di McDonald’s; ci saranno fashion shows, cocktail bar e la gente farà il bagno della colonia, si vestirà solo con abiti occidentali e gli argomenti di conversazione saranno gli stessi di New York, Parigi, Los Angeles e Tokyo. O forse sta già succedendo, mentre io scrivo di cose passate, loro stanno globalizzando, riducendo ai minimi termini comuni la cultura mondiale, la cultura di massa. Se il futuro di Pechino sarà un’omogeneizzazione rispetto al resto del mondo, oppure qualcosa di più interessante e innovativo, questo lo deciderà solo la fantasia delle persone che ora vivono qui. Per cui vi prego, se mi leggete e non state capendo il punto di quello che scrivo, se tutto sommato vi sembra sacrosanto che la Cina si adegui al resto del mondo come hanno fatto tanti altri Paesi, tornatevene a casa... e se già ci siete, rimaneteci. Contribuirete a rendere più colorato il futuro del mondo.

2008-06-02

Quartieri alti e quartieri bassi

Nella vecchia Pechino non era solo la struttura del cancello di una casa a indicare la posizione della famiglia che la occupava, ma anche, e ragionevolmente, la posizione della residenza rispetto al centro. C’era la Città Purpurea, dove risiedeva l’Imperatore, la Città Imperiale, dove abitavano i nobili e i funzionari d’alto rango, quindi la Città Interna e la Città Esterna, con discriminazioni di posizione, di reddito e razziali. Dal 1911, con la Repubblica, le cose cominciarono a cambiare, poiché le uniche distinzioni divennero quelle di reddito. E infine, dal 1949, nemmeno quelle: gli spazi della città vennero occupati in maniera più o meno casuale dalle danwei, le unità di lavoro civili o militari: fu la nascita del xiaoqu, inteso come comunità in cui un gruppo di famiglie lavora, studia, passa il proprio tempo libero e usufruisce dei servizi pubblici. L’unica distinzione era quella tra danwei: c’erano, naturalmente, le danwei ricche, vuoi perché efficienti nel produrre, vuoi perché ricettarie di grosse risorse o debitrici di poche. Tali danwei non erano però distribuite secondo degli schemi, ma sorgevano una accanto all’altra a seconda della necessità. Ma ciò che è più importante, i membri della danwei, dal commissario locale di partito al direttore all’operaio all’invalido, abitavano tutti nella stessa area, spesso nello stesso edificio.

Lo sviluppo conseguito alle politiche di Deng Xiaoping e all’adozione dell’economia di mercato socialista ha, fin dagli anni ’80, portato crescita della città e a una ricostruzione e riorganizzazione degli spazi anche nella parte vecchia del centro urbano, rompendo questo modello di localizzazione delle aziende e degli spazi residenziali. La Pechino d’inizio millennio è ua città in transizione: sopravvivono ancora alcune danwei, per lo più legate all’esercito e alla polizia, nonché alle grandi aziende pubbliche, ma l’economia privata ha scisso il rapporto casa e luogo di lavoro, portando alla nascita di centri d’affari in centro e quartieri residenziali in periferia. Sono inoltre sorti i compounds all’americana, i complessi residenziali di lusso con guardie private: il solo nome è un biglietto da visita per il proprio livello sociale. Una volta, fa notare qualcuno, la gente si vantava della danwei in cui lavorava, oggi si vanta del luogo in cui vive: se abiti al Central Park o al Moma, i compounds più alla moda e pieni di stranieri, sei automaticamente al di sopra di uno che abita nel distretto di Tongzhou o a Xizhimen, dove invece sono sorti quartieri dormitorio attorno a remote fermate della metropolitana. Pechino cambia e si globalizza, e ci si chiede se sarà in grado di trovare soluzioni urbanistiche originali, e non seguire a bacchetta il modello imperante di centro ricco e periferia povera.

Pan Shiyi, il proprietario di SOHO, sta provando a pensare in nuovo l’idea di xiaoqu, progettando centri in cui la gente possa vivere, lavorare, far compere i luoghi commerciali e socializzare in ambienti comunitari come giardini o bar, palestre, ristoranti. Ma anche Pan Shiyi alla fine, per quanto imprenditore iluminato, punta a fare soldi, e se le auto trovando posto in garage sotterranei, la parte bassa della scala sociale, ovvero i migranti, vanno a dormire altrove quando staccano il loro turno. La municipalità di Pechino ha lanciato un piano per lo sviluppo della città fuori dal centro, in parte per proteggere quel poco che rimane della città vecchia, in parte per alleviare il peso dei pendolari sulla rete dei trasporti, con la costruzione di nuovi quartieri modello in periferia: il primo sarà il quartiere olimpico, che dovrebbe essere riconvertito dopo i giochi; poi seguiranno Tongzhou, Shunyi e Shijingshan, dove dovrebbero sorgere nuovi spazi urbani progettati con coscienza: ma questo appare solo un palliativo al momento, e non una soluzione definitiva. La segregazione residenziale tra ricchi e poveri, tra cittadini e migranti, è un pericolo che cresce in manera inquietante, e rischia di estraniare due parti dello stesso Paese, un Paese costruito su teorici principi di uguaglianza, parità e solidarietà sociale.