2008-05-30

Trasferimento

Stiamo assieme da molti mesi, io e Dandan, e le relazioni a distanza, soprattutto quelle a una distanza di duemila e più chilometri, sono estenuanti. Ci si offre però una speranza: la banca statale in cui Dandan lavora offre agli impiegati delle sedi distaccate la possibilità di uno stage in sede centrale, a Pechino, per 6 mesi. Basta fare domanda. E’ un sogno.

Dandan dunque si prepara psicologicamente e cerca di dare di più ogni giorno lavorandosi ben bene il capo e le altre persone coinvolte nel processo decisionale, tramite il padre, la nonna, amici, compagni di scuola, eccetera. Al momento ci sono altre persone in stage a Pechino, ma a fine anno dovrebbero essere rispedite indietro e, con le loro posizioni aperte, si aprirebbe il concorso. Concorso ovviamente durissimo perché in sede centrale c’è possibilità di far carriera e di prendere contatto con chi veramente conta nella struttura, e quindi moltissimi provano ad andarci.

Finisce novembre, e ancora non si sa nulla: il concorso in teoria avrebbe dovuto aprirsi in quel mese, ma nessuno ne ha parlato né si hanno notizie. Quando si accetteranno candidature? Non è dato sapere. Quando torneranno gli stagisti attuali? Nessuno è informato. Ma torneranno o no? Tutti si scuotono nelle spalle, e a me la situazione ricorda i racconti della burocrazia di Kafka o Buzzati. Tutti sanno che c’è, ma nessuno ha informazioni utili, e dei responsabili non si hanno che dei cognomi e delle vaghe posizioni altolocate, così altolocate che non è possibile nemmeno parlare con loro o sapere che faccia hanno.

Le settimane si trascinano penose: ogni giorno faccio domande, ogni giorno Dandan mi ribadisce che nessuno ha risposte. Un giorno di metà dicembre viene convocata nell’ufficio del suo direttore, che a fa sedere e comincia con delle domande vaghe:

“Signorina, lei è una persona che nel nostro ufficio ha sempre dimostrato grandi doti di iniziativa e ambizione”

Dandan sorride, e intando spera di immaginare il perché del colloquio.

“Così, dopo aver letto molte relazioni favorevoli sul suo operato, mi è venuto da pensare che lei è ambiziosa, e forse questa piccola sede di Chengdu è troppo stretta per lei”

Dandan ormai è praticamente sicura che la proposta di stage stia arrivando. Vorrebbe gridare “Sì, mi mandi a Pechino, in sede centrale potrò fare cose meravigliose per la nostra azienda”. Invece sta zitta, sorride e lascia che il direttore vada avanti.

“Ed è per questo” dice “che ho pensato che un’esperienza fuori sede potrebbe esserle utile e gradita. Lei conosce bene l’inglese mi dicono, ha studiato all’estero, e si da’ il caso che la nostra banca stia proprio ora aprendo dei progetti in Africa... ”

Sorriso tirato: “Scusi... ha detto Africa?”

Ebbene sì, le viene proposto questo meraviglioso stage in Africa, location non meglio definita, per sviluppare le infrastrutture dei Paesi alleati della Cina. In alternativa sono disponibili altri interessantissimi progetti in Pakistan o Afghanistan.

“Cosa le pare?” chiede il direttore “Ci pensi bene... e mi faccia avere una risposta entro domani, che c’è da partire subito!”

Dandan mi telefona praticamente in lacrime. La calmo, rassicurandola del fatto che, male che vada, si licenzia e viene a Pechino la settimana seguente a cercar lavoro. Il giorno dopo, rifiutando, scopre che la stessa proposta è stata fatta a tutti i suoi colleghi, perché gli stagisti mandati due anni fa non hanno mai trovato sostituti volontari, e quindi la banca non li ha mai rimpatriati. Prenderebbero chiunque, e probabilmente quei poveri impiegati cinesi abbandonati in un luogo non meglio precisato dell’Africa venderebbero l’anima al diavolo perché qualche pazzo si offra per predere il loro posto. Dicembre passa, e di notizie sullo stage a Pechino non ne vengono.

Poi un bel giorno di gennaio, così all’improvviso, arriva un’e-mail generale a tutti gli impiegati: se volete provare a fare lo stage in sede centrale, avete 48 ore per consegnare una documentazione impossibile presso gli uffici risorse umane della vostra sede. Ma non è tutto: la struttura gerarchica cinese impone che Dandan ottenga il beneplacito del suo superiore, regola questa non scritta ma estremamente vincolante, e il manager in questione sono tre settimane che nicchia e prende tempo: di fatto se lui non fa una telefonata in risorse umane, la candidatura di Dandan non viene nemmeno accettata, ma finisce in modo causale nel cestino.

E’ un momento strano da descrivere, persino da capire, per un italiano, ma quasi normale per un cinese: settimane e mesi spesi nell’attesa, preparandosi ogni giorno a un evento che arriverà ma non si sa quando. E quando arriva è come una guerra, tutti scattano, la velocità è fondamentale, la preparazione fino a qual momento fa la differenza, in poche ore ci si gioca il tutto per tutto in una competizione spietata contro i propri simili. E’ così che funzionano le cose nella burocrazia orientale: Dandan, con reattività sorprendente, muove tutte le sue pedine assieme. Forza a un incontro il suo capoufficio, mettendolo alle corde con un atteggiamento calcolato in cui sbandiera fedeltà all’azienda e velatamente promette favori in caso di cooperazione e minaccia ritorsioni o addirittura licenziamento in caso contrario; allerta via telefono tutti i suoi contatti che si muovo assieme in un attacco concertato alla struttura decisionale: e sono telefonate, e-mail, cene, sfide a majiang che decidono il gioco. I documenti nel fascicolo di candidatura contano, chiaro, ma non bastano. Quelli che non si sanno muovere così non partecipano neanche alla partita.

Le 48 ore passano febbrili fino alla chiusura, poi c’è un’altra settimana di attesa snervante, che si prolunga per un’altra, e ancora nessuna risposta giunge dalla sede centrale. E’ ormai febbraio: un lunedì finalmente le liste dei selezionati appaiono non annunciate su una bacheca, alla vista di tutta l’organizzazione, e Dandan è tra loro. Verrà a Pechino in stage, nella mia città. Lei cammina a tre spanne da terra, ma io non sono così felice, qualcosa non mi torna. Quand’è che si trasferirà? Be’, questo non si sa, l’ufficio risorse umane lo farà sapere in seguito. Non sono tranquillo. Passano ancora due settimane di silenzio, poi l’ufficio risorse umane comunica a Dandan via telefono che lei è attesa in ufficio a Pechino il lunedì della settimana seguente. E se uno, chiedo io, deve preparare delle cose, che so, affittare il suo appartamento, vendere la macchina, fare dei documenti? Non c’è eccezione, mi dice Dandan, a meno che ovviamente il suo capufficio, figura dotata di poteri quasi illimitati sui suoi sottoposti non intervenga. Infatti interviene, con una telefonata tipo “Salve, ufficio risorse umane centrali: so che avete chiesto alla signorina Dandan, che lavora nell’ufficio di cui sono responsabile, di trasferirsi a Pechino settimana prossima. A me servirebbe ancora due settimane, vi scoccia se comincia il training un po’ dopo?”. Risposta “Mei wenti”. Ma, chiedo ancora io, pignolissimo occidentale, se c’è un progetto comune di diciamo quindici risorse spostate in sede centrale, non ha senso che si facciano il training tutti assieme? Se arrivi in ritardo e perdi il training come fai a lavorare? Domande vuote, non riesco a capire se per i cinesi questo non costituisca un problema in sé oppure sì costituisca un problema ma, di fronte al mare di problemi che li circonda, risulta un problema minore perché impatta sull’efficienza aziendale e non direttamente sui loro affari personali. Dandan si limita a dire che in questi casi ci si affida al buonumore del capoufficio assecondandolo, e sperando che il progetto non si trascini più in là, come effetti accade (durerà tre e non due settimane, ma in questi casi un ritardo del 50% in più si dava per scontato).

E’ un bel pomeriggio assolato di aprile quando torno a casa da lavoro e mi trovo Dandan in soggiorno, la valigia sfatta in camera mia, addosso ha una mia camicia e i pantaloni di una mia tuta, manco fosse lei la padrona di casa e io l’ospite. E’ solo allora che comincio a crederci a questa cosa dello stage a Pechino (ed è questo, beninteso, l’atteggiamento giusto per molte cose in Cina – crederci solo quando le vedete di persona e le toccate; altre cose invece non dovete crederci nemmeno in quel caso). La sera stessa festeggiamo la fine della nostra relazione a distanza e l’inizio di quella che era nata come relazione nella stessa città, e invece si rivelerà convivenza. Ma non divaghiamo.

Da novembre ad aprile sono passati cinque mesi, un bel ritardo su sei mesi di stage. La cosa divertente è che Dandan è una delle prime a presentarsi: praticamente nessuno è arrivato in ufficio alla “data inderogabile” proposta dall’ufficio centrale, perché tutti avevano delle scuse, trattenuti ancora tre-quattro settimane dai loro capiufficio che non avevano preventivato di rimanere con una risorsa in meno. La banca assegna a Dandan una stanza in un residence a cinque minuti a piedi dall’ufficio, tutto spesato, inclusi i pasti alla mensa aziendale che funziona a pranzo e cena sette giorni su sette, e il giorno dopo il suo trasferimento inizia a lavorare all’ufficio di Pechino. Così si chiude un calvario di cinque mesi, per uno stage che dovrebbe durarne sei, anche se speriamo che, se la nostra convivenza regge, con una domanda ben fatta e un paio di telefonate alle persone giuste, Dandan potrebbe essere confermata in sede centrale e quindi rimanere a Pechino come impiegata fissa.

Ironicamente, la comunicazione della fine dello stage, a un anno di distanza, non è stata ancora data, chissà perché. Un certo manager un giorno ha ventilato anche la possibilità di concessione della residenza pechinese per gli stagisti, notizia mai confermata da altri. La stanza di residence, in cui Dandan ha dormito forse tre notti in un anno, è ancora lì a disposizione, e lei ancora mangia gratis in mensa quando le pare e piace, come qualunque persona in trasferta. Si vive così, in una strana incertezza, nelle aziende statali cinesi.

Ma quel che conta in fondo per noi in quel momento è che, grazie al Cielo, ad aprile del 2007 siamo finalmente insieme, a Pechino, e la nostra storia sta prendendo una direzione e una velocità non più facilmente manovrabile come prima. E di questo, con gioiosa incoscienza, siamo entrambi felici.

2008-05-29

Crollo in metropolitana

Il 1° aprile 2007 una bella notizia compare sul China Daily, a ricordarci come vivono i migranti e come vengono considerati dai cittadini, e tante volte anche dai loro stessi compaesani. Non è un pesce, purtroppo, e questi eventi sono ordinaria amministrazione, solo che di tanto in tanto la verità viene fuori e, per togliersi d’imbarazzo, la polizia deve punire qualcuno.

La notizia racconta di come, durante gli scavi per una delle nuove linee della metropolitana di cui si sta dotando la città, ci sia stato un improvviso crollo della galleria. Ecco come suona la notizia, presa pari pari dal quotidiano nazionale in lingua inglese:

“The collapse happened at 9:30 a.m. on Wednesday at a construction site for the No.10 Subway Line in Haidian Nanlu Road between the third and fourth northern ring roads in the city's Haidian District.

Six workers were buried underground after the accident, of whom one came from central China's Henan Province and the other five from southwestern Sichuan Province.

Rescuers recovered a worker's body Friday afternoon after more than 50 hours of excavation. The victim was confirmed to be 20-year-old Li Peng from Henan.

Family members of the six workers are in Beijing now to handle the aftermath.

Local police have detained 10 people over the subway cave-in, including the work supervisor and tunnel designers but the labor contractor, Zhou Yongfu, is reported to have fled.

The construction company - China Railway 12th Bureau Group Co.- refused to report the accident to municipal authorities when the collapse occurred, instead mounting its own operation to rescue the trapped workers.

In an attempted cover-up, project managers ordered all the workers to stay at the construction site and told them not to talk to media and police. They confiscated mobile phones from workers.

The Beijing municipal authority finally learned of the accident at 5:00 p.m. on Wednesday, almost eight hours after the collapse occurred, after a worker from Henan called Henan police.

Municipal government officials told Xinhua on Friday that rescue work had been delayed by the company's cover-up attempts and the complicated underground conditions.”

Ecco come si costruisce la Pechino olimpica, e se è per questo anche la Shanghai dell’Esposizione Universale e tutte le altre città della nuova Cina.

Perché, viene da chiedersi, succedono queste cose? Le ragioni sono tante: anzitutto, anche in presenza di regolamenti di sicurezza molto avanzati, nessuno li rispetta: imprenditori e manager vogliono sveltire i lavori e semplificare, il committente se ne lava le mani, gli operai tacciono e intascano la paga, e la polizia e gli ispettori intascano le mazzette. E’ un sistema, e i colpevoli sono tutti quanti. Ma quando poi la disgrazia capita, perché non si può sperare di essere sempre fortunati, la gente si spaventa e pensa per sé. Per l’imprenditore e il manager, far trapelare la notizia del fattaccio non è solamente pericoloso dal punto di vista penale, ma è anche un modo di perdere la faccia, il mianzi. Quando un errore qualsiasi viene palesato, la cosa è considerata disonorevole in Oriente: disonorevole per l’azienda, chi l’ha scelta, anche chi ci lavora, e quindi la prima preoccupazione –istintiva - delle persone è far sì che l’errore non si venga a sapere. L’imprenditore è stato zitto, il manager ha dato disposizioni di tacere a tutti quanti, i quadri hanno requisito i cellulari, gli operai se li sono fatti requisire – e non ditemi poveri operai, perché mille operai non si possono dichiarare vittima di una decina di dirigenti, il cellulare l’hanno consegnato e si son sciacquata la coscienza per i loro colleghi sepolti vivi. Solo un lavoratore dell’Henan, siccome un suo paesano era lì sotto, ha chiamato la polizia, quella del suo paese e non di Pechino, e allira qualcosa si è mosso e il sistema omertoso si è incrinato. E allora chi comanda si è messo in cerca del capro espiatorio.

Questa è la Pechino del 2007, “One world one dream” signore e signori. E a voi occidentali che esprimete giudizi a mitraglia su questo Paese, chiedetevi prima se avete idea di come pensa e di cosa vuole la gente, qui. Perché anch’io, dopo tre anni che ci vivo, faccio abbastanza fatica a capire.