2014-09-14

Il Tempio delle Cinque Pagode e la Gente della Strada


E’ il penultimo giorno del Chunjie, sono solo a Pechino per questa giornata, e decido di uscire a fare un giro, visto il bel tempo. Scelgo, scegliendo sull’Insider’s Guide to Beijing, di visitare il Tempio delle Cinque Pagode (五塔寺), ad Haidian. Le strade sono sgombre, il sole è brillante, e quindi perché non dare un po’ di lavoro ai tassisti questa settimana di festa, e fare il tragitto in macchina? Ne trovo una in meno di venti secondi, e il tassista si ricorda pure di me perché una volta mi ha portato al lavoro. Non conosce il tempio, ma conosce l’indirizzo. Bene, si parte – il secondo anello scorre piacevole e veloce, e in un quarto d’ora siamo in zona. La guida dice di andare 500 metri a Ovest della Biblioteca Nazionale: il tassista fa un chilometro abbondante, poi finalmente appare un tempio. Scendo, e mi rendo conto che non è quello giusto - la targa recita “Tempio della Longevità” (万寿寺). Lo dico al tassista, ma quello non può fare inversione. Pazienza, do un’occhiata rapida da fuori al tempio, recentemente rinnovato e ospitante una mostra di ceramiche, e scopro che proprio accanto sorge un “Tempio della Celebrazione Tardiva” (延庆寺), porta principale chiusa, e all’interno un groviglio di stradine e pingfang, poveri e maleodoranti. Mi chiedo con che senso l’autorità competente scelga come spendere i soldi per i restauri dei beni culturali, in questa città.


Entrerei volentieri a visitare il Tempio della Longevità, non fosse che il sole di questa stagione tramonta presto dietro i grattacieli di Haidian, e quindi vorrei vedere il mio Tempio delle Cinque Pagode prima che faccia buio. La cassiera, con fare decisamente freddo e indisponente, indica verso est e dice “Cammina per venti minuti e ci sei”. Mi avvio, attraverso la strada, salgo su un altro taxi. Il tassista non ha idea di questo tempio, suggerisce che forse si trova all’interno del vicino parco di Chaizhu (柴竹院公园). Proviamo a fare il giro dell’isolato ma nulla, delle Cinque Pagode nesuna traccia, è un tempio fantasma. Rassegnato, chiedo al tassista di portarmi indietro al Tempio della Longevità, che però sta chiudendo. Convinco il guardiamo a farmi dare un’occhiata al primo cortile, un bell’esempio di stile Han, con le torri del tamburo e della campana, e delle inferriate piene di tavolette votive rosse. Esco di nuovo e, nel sole che ora tramonta, mi chiedo che fare della mia giornata. Le ombre si allungano e si alza il vento gelido del Nord.


Cammino di nuovo verso est, fino a una cappella dedicata a qualche divinità taoista, al cui interno una mezza dozzina di signori si sono riuniti per giocare a scacchi. Consulto la guida cinese che mi sono portato e, mappa alla mano, cerco di capirci qualcosa. Pare che il mio tempio sorga nei pressi di uno specchio d’acqua, quindi decido di seguire il canale che passa proprio lì davanti. Dopo cinquecento metri, la strada è chiusa da un’inferriata, che delimita un condominio: più avanti intravedo il parco di Chaizhu. Sconsolato, cerco una soluzione alla mia sfortuna, quand’ecco un segno celeste: a poca distanza, vedo passare un signore che, tranquillamente, se la passeggia sul canale, camminando come se nulla fosse sul ghiaccio. Lo chiamo, quello si avvicina e gli chiedo informazioni. Del tempio non ha mai sentito nulla, ma è convinto di aver capito la mappa. “Andiamo” dico io. Scavalco la balaustra di pietra e con lui mi incammino. Il tizio mi guarda e commenta “E’ proprio comodo camminare sul ghiaccio: le strade normali sono piene di muri e inferriate, qua sopra si può andare dove si vuole”. Non posso che dargli ragione, benedicendo in cuor mio il meraviglioso spirito anarchico e pratico dei cinesi.




E’ così che arriviamo a un laghetto con delle barche ormeggiate. Il mio compagno consulta una mappa a muro e mi porta all’uscita nord. “Da qui attraversi la strada e ci sei” assicura. Lo ringrazio, guardandolo continuare la sua passeggiata verso est. All’uscita nord ci sono tre bigliettaie che discutono animatamente tra loro, una vorrebbe per qualche oscura ragione mandarmi a un altro tempio, le altre due indicano direzioni diverse. Poi finalmente si mettono d’accordo: da qui verso est, si attraversa la strada, e poi dopo 200 metri si è arrivati. Cammino, cammino, ma del tempio nessuna traccia.

Ora, mi sta bene che su dieci persone a cui chiedo, in dieci mi diano una risposta diversa, ma che anche le due guide che ho portato mi diano indirizzi diversi, ed entrambi palesemente sbagliati, mi sta meno bene, e soprattutto comincio ad accorgermi che anche la mappa o è sbagliata o è stata compilata anni fa quando le strade erano diverse. Rileggendo le pagine, scopro peraltro che il mio tempio ha anche un secondo nome, che nessuno sembra riconoscere, ovvero “Tempio del Vero Risveglio” (真觉寺). Finalmente passa un signore, di quelli che trovi solo a Pechino: sessant’anni suonati, leggermente corpulento, che con dieci gradi sotto zero e vento gira in bicicletta; ha una mantella di tela cerata marrone che lo copre dalla testa alle ginocchia e la sigaretta accesa in mano. C’è qualcosa di indicibilmente ridicolo nel vedere un pensionato sovrappeso che pedala, impacciato dalla mantella, bastonato dal vento gelido e al tempo stesso tiene una sola mano sul manubrio perché con l'altra porta la stizza alla bocca tirando energicamente, con un’espressione assolutamente naturale, come se fosse la cosa più normale del mondo. Lo chiamo, quello si mette la sigaretta in bocca, rallenta, traballa pericolosamente prima di fermarsi, poi finalmente arresta il veicolo e mi guarda. Gli spiego il mio problema. Quello ci pensa, guarda la mappa, poi dice “知道了”. Ho capito.
Mi fa una spiegazione particolarmente complessa, e mi spedisce in una direzione totalmente diversa da quella che ho preso finora. Con quel che ho da perdere, mi fido, ringrazio e saluto. E poi, infilandomi in una stradina diroccata, le intravedo tra le cime degli alberi spogli: le Cinque Pagode.
Il Tempio ha ormai chiuso da almeno un’ora, ma il guardiano mi permette di fare qualche foto dall’interno del cancello, nella bella luce del tramonto. Soddisfatto della mia vittoria, mi riprometto di tornare a visitare il Tempo con più calma.


A Pechino è così, ogni giorno è un’avventura. Nulla è facile, ma il premio per chi riesce a farcela è talvolta prezioso. Sono contento di riuscire ancora, dopo un anno e mezzo, ad apprezzare questa città e amarla così tanto. Basta armonizzarsi ai suoi ritmi, alle sue logiche e a quelle della gente che cammina per le sue strade, senza lasciarsi catturare dalla rete del capitalismo e dell’ansia, e la si può vivere davvero bene.

2011-07-29

La Cucina Xinjiangese

Crescent Moon Uighur Muslim Restaurant (弯弯月亮)

C'è un'altra grande tradizione culinaria che vale la pena di citare, già che ci siamo, nel panorama pechinese, ossia la cucina del Xinjiang, enorme regione del Nordovest, confinante con i Paesi dell'Asia centrale. Da millenni crocevia di popoli e di culture, ha visto il sorgere e il decadere di regni indoeuropei, turco-mongoli, cinesi, cristiani, buddhisti, musulmani. Negli ultimi secoli, tra gli altri, ci si sono stanziati gli uiguri, popolo di origine turca e religione musulmana, affine ai cazachi, spesso assoggettati all'Impero Celeste ma sempre testardamente ribelli. Ancora oggi il Xinjiang è regione di guerra, con rivolte frequenti schiacciate spesso nel sangue; tuttavia a Pechino c'è una bella comunità uigura, che data ai tempi degli imperatori Manciù, che campa, oltre che di furti, di danze e ristoranti. La cucina del Xinjiang è uno strano misto di tradizione turca e cinese, che mescola kebab e tagliatelle, spiedi di ferro e bastoncini di bambù, riso e pane. Ricchissima di carne, si concentra specialmente su quella di montone, eccezionalmente buona (citata già da Marco Polo e altri viaggiatori come eccellente).

Ecco cosa ordinare quando vi trovate in un ristorante xinjiangese:

Yangrouchuan'r
(羊肉串儿) – ormai assurti al livello di cibo da strada tipico di Pechino, questi spiedini di montone sono speziati con peperoncino, sale, finocchio e cumino e cotti su un forno con carbonella, sulla strada; quelli più poveri sono piccoli e infilati su stecche di legno, quelli migliori sono infilati su spiedi di metallo lunghi due spanne. Si accompagnano tipicamente con del nang e una birra ghiacciata, magari in piedi o seduti a un tavolo da campeggio imbastito alla bell'e meglio su un marciapiede.
Nang
(馕) – è il pane uiguro, una focaccia di farina bianca, tonda, piatta e con i bordi rialzati, insaporita con semi di sesamo. E' la cosa che più si avvicina al nostra pane in Cina, il che lo rende una ghiottoneria per quasi tutti gli occidentali; si consuma appena sfornato, oppure anche raffermo, scaldato sulla griglia con gli yangrouchuan'r e insaporito ulteriormente con sale, olio e peperoncino.
Xinjiang Chaocai
(新疆炒菜) – peperoni verdi, patate, pomodori e altre verdure di stagione, tagliate alla cinese e saltate in padella e insaporite con pezzetti di carne di montone.
Dapanji
(大盘鸡) - Un pollo intero cotto in casseruola, con gran copia di verdure (peperoni verdi, patate, pomodori) e una bella spolverata di pepe verde del Sichuan.
Zhuafan
(抓饭) - riso bollito con carne di pollo o montone, cipolle e carote; è il piatto più semplice e comune in molte aree del Xinjiang, e si mangia tipicamente con le mani.
Samsa
– derivati probabilmente dai samosa indiani, ma influenzati senz'altro dai baozi, i samsa sono una sorta di pane cotto al forno e ripieno di carne di montone e alle volte qualche spezia. Difficile trovarli buoni fuori dal Xinjiang, vanno mangiati appena sfornati e sono una delizia.
Mantang
– il torrone uiguro: si presenta come un blocco di circa 1 x 0,5 x 0,3 m, portato su un triciclo, coperto con del cellophane, e venduto al trancio agli angoli delle strade. Appare inquietantemente anti-igienico e forse lo è, ma il sapore è buonissimo: si tratta essenzialmente di un dolce di un amalgama di noci, mandorle, arachidi, pistacchi, uvetta, cachi e fichi secchi, tenuto assieme da miele.

我做的抓饭

Oltre a questi ce ne sono molti altri: montone o fegato di montone fritto insieme a pezzi di pane raffermo, spaghetti vari conditi con salse piccanti di verdiure, e il cosiddetto “latte fritto”, una crema a base di latte fritta in crocchette, che vengono poi intinte nello zucchero. E' una cucina particolare, rappresentativa della Cina che non è la solita Cina, quella delle minoranze etniche che, con il loro contributo, hanno influenzato e ancora sviluppano la cultura cinese e la fanno grande.


Spicy Chicken with Handmade Noodles - close-up - Ayiguli 323 Fast Food AUD12

2010-12-15

La Cucina Sichuanese

Chong Qing spicy and aromatic chicken


水煮鱼片 (Boiled fish in chilli sauce)


Essendo la cucina pechinese pesantissima e molto poco salutare, a meno che non siate un manovale molto impegnato, sempre più spesso i pechinesi cercano alternative alla loro dieta, e sinora la cucina alternativa di più successo in città è di gran lunga quella sichuanese. Il motivo sta tutto nella relativa leggerezza dei piatti – niente grasso di montone, ma al massimo olio di semi – e nel sapore intossicante del mala (麻辣), ossia la combinazione di peperoncino e pepe verde del Sichuan, che ai palati abituati può portare, come una droga, ad assuefazione e dipendenza. Sin dagli anni '80, quando la ristorazione privata è stata autorizzata, i ristoranti sichuanesi non hanno fatto che crescere e ad oggi nella Guijie gran parte degli esercizi propone piatti del Sichuan.


Ora, per meglio comprendersi, quali sono questi famosi piatti del Sichuan che spopolano a Pechino? Eccone una sintetica lista:

Mapo Doufu (麻婆豆腐) – il più classico e famoso dei piatti sichuanesi, ormai entrato di diritto tra i piatti cinesi famosi in tutto il mondo. Questo lo troverete ovunque, a New York, a Londra, a Los Angeles, anche a Paolo Sarpi, anche nel ristorante cinese della provincia di Crotone. Ma attenzione, il Mapo Doufu, ossia il “Tofu al Pepe della Nonna” deve essere pepato, cioè ma. Se non vi anestetizza le labbra, se non ha un bel colore rosso vivo, non è originale: in molti usano i semi di peperone, altri i peperoncini. L'effetto è stuprare il piatto, quindi diffidate delle imitazioni.

Gongbao Jiding (宫保鸡丁) – il mitico pollo con le arachidi, quello che gli americani chiamano Kung Pao Chicken, forse anche più famoso del Mapo Doufu. Anche questo si trova ovunque, anche questo raramente è originale. Il vero Gongbao Jiding è mala, ha un bel colore rosso, i dadini di pollo sono morbidi e succosi e le arachidi sono sgranocchievoli e mai amare.

Huiguorou (回锅肉) – ossia il “maiale riportato in padella”, deriva il nome dal fatto che la pancetta prima si fa bollire con zenzero e sale, quindi si fa saltare in padella con verdure (solitamente baicai) e pepe verde. L'effetto è una carne saporita e in parte alleggerita del suo grasso naturale, che va da Dio con il riso o ancora meglio come ripieno per involtini.

Laziji (辣子鸡) – famosissimo in Cina ma non altrettanto all'estero, questo piatto è senz'altro uno dei più attraenti da vedere, perché consiste di pezzettini dorati di pollo nascosti in una montagna di peperoncini rossi, e gran parte del divertimento sta nel cercare gli uni scostando con le bacchette i pericolosissimi altri, che non si mangiano. Il pollo è marinato con olio e zenzero, quindi fritto in olio piccante e servito tra i peperoncini. Ha un forte gusto mala stemperato dallo zenzero e, nonostante sia tutto tranne che leggero, è buonissimo e d'estate è un piatto molto popolare.

Shuizhuyu (水煮) – il “pesce cotto nell'acqua” è un altro esempio di piatto che vien voglia di mangiare alla sola vista. Immaginate tenere fette di pesce bianco, immerse in un recipiente pieno di liquido dorato – olio – e bacche intere di pepe verde. Pericolosissimo, perché nonostante non contenga traccia di peperoncino, la quantità di pepe verde è notevole. Il pesce, di per sé delicato, è letteralmente immerso nell'olio piccante nel quale non è stato cotto, per evitare che friggesse diventando pesante. Solo per intenditori.

Dandanmian (担担面) – la mian, ossia la pasta tirata, tipica di Chengdu. E' servita con una salsa mala di carne trita di maiale, arachidi e xiaobaicai, di solito in piccole ciotole. Nasce primariamente con xiaochi e cibo da strada, ma ormai si serve in gran parte dei ristoranti a fine pasto.

Hot Pot piccante – sebbene lo huoguo (火锅) o hot pot abbia origini mongole, la variante sichuanese prende sempre più piede. Si discosta dall'Hot Pot settentrionale in quanto il brodo è assolutamente mala, e invece di essere basato sulla carne di montone preferisce ingredienti più leggeri come pesce, rane, lumache o doufu, e gran copia di verdure. L'hot pot alla sichuanese è tipico di Chongqing, dove nulla viene ingerito se non è mala. Una variante più economica è la malatang (麻辣烫), il brodo mala, che consiste in un hot pot unico posto solitamente a bordo strada: il cliente sceglie uno spiedino e il “ristoratore” glielo immerge nel brodo, consegnandolo quando è pronto per una manciata di spicci. La malatang è particolarmente in auge tra la popolazione povera, e raramente è abbastanza pulita perché possiate arrischiarvi ad assaggiarla.

Chongqing Kaoyu (重庆烤鱼) – altra specialità di Chongqing, il pesce arrosto viene servito su un letto di verdure e coperto con abbondante olio piccante. E' croccante fuori e tenerissimo dentro, una vera delizia se amate il mala, una tortura se avete lingua o stomaco sensibili alla piccantezza. Uno dei posti migliori dove assaggiare il kaoyu a Pechino è il ristorante Dumenchong (独门冲), che ha due sedi sulla Guijie.

Zhangcha Ya (樟茶鸭) – la cucina sichuanese non è solo mala, e lo dimostra con questo piatto che, secondo il sottoscritto, rappresenta una delle vette della cucina cinese e supera di gran lunga in bontà qualunque anatra alla pechinese. L'Anatra Zhangcha è un piatto che si serve a inizio pasto, freddo o anche caldo: si tratta di un'anatra affumicata a lungo dalla combustione di foglie di té e legno di canfora, che le donano degli aromi unici. Viene quindi cotta al vapore, in modo da sgrassarla ma non troppo, senza lavare via il suo sapore, e servita alla tipica maniera cinese, ovvero tagliata in tranci con le ossa. Rara da trovare fuori dalla Cina, a causa della difficoltà della sua preparazione, ma assolutamente da provare.


樟茶鸭

2010-04-09

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2010-03-22

La Cucina Pechinese


Spendiamo due parole sul cibo cinese, di cui non abbiamo mai parlato abbastanza. La Cina ovviamente non ha una tradizione gastronomica “nazionale”, ma ne ha moltissime regionali. In generale si parla di quattro grandi stili di cucina: quella Settentrionale, praticata a nord del fiume Giallo; quella Sichuanese; quella Orientale, praticata nella pianura alla foce del Fiume Azzurro; e quella Cantonese. Ce ne sono ovviamente molte di più, basti pensare alla cucina Hui dei musulmani del Nordovest, o a quella dello Hunan piena di peperoncino, o alle molte minoranze come gli Uiguri del Xinjiang o i Dai dello Yunnan. Nonostante queste differenze, quasi tutte queste tradizioni gastronomiche hanno in comune l'uso delle bacchette (kuaizi, 筷子) per mangiare, il porzionamento del cibo in bocconi kuaizi-friendly (senza coltello sarebbe poco pratico tagliare una bistecca), l'utilizzo di piatti comuni di servizio, l'accompagnamento dei pasti con bevande spesso calde (acqua, tè, talvolta vino; la birra e i succhi di frutta o i soft drinks refrigerati sono un'abitudine relativamente nuova arrivata dall'estero).

La cucina pechinese è relativamente famosa e nella più ampia tradizione settentrionale ha un ruolo di spicco e nel corso della Storia ha subito molte influenze: mongola, mancese, imperiale musulmana, oltre che di mille altre comunità che si sono stabilite nella capitale. Mantiene tuttavia una grande semplicità e ingredienti poveri, un po' come la cucina romana da noi: vivere in una capitale non significa necessariamente che tutti mangino da signori. I pechinesi vanno fieri della loro cucina, anche se fuori Pechino e soprattutto nel Sud la si considera cucina “barbara” ed eccessivamente grassa, e se ne salvano solo un paio di piatti che vedremo. La base della cucina pechinese è quello che noi milanesi chiameremmo il gras de rost: nella sostanza qualunque piatto viene insaporito con carne, specialmente grasso derivante dagli agnelli mongoli; olio se ne usa poco, il burro è sconosciuto, e quindi la base della cucina diventa il grasso. In una città dove in inverno tira fino a -15° C ha senso, capisco del resto come nel Sud della Cina la gente si scandalizzi.

La carne d'agnello è la punta di diamante della cucina del Nord: gli agnelli mongoli sono una razza a parte le cui carni venivano lodate già da Marco Polo ai suoi tempi. E' una razza grossa, resistente ai freddi più implacabili, con una percentuale corporea di grasso considerevole, e una coda particolarmente lunga e larga formata quasi esclusivamente da grasso e cartilagine, che la rende anatomicamente diversa da altre razze ovine. E' disponibile in abbondanza, costa pochissimo, è sana (al contrario delle altre carni proviene da pascoli e non da allevamenti intensivi al chiuso) e soprattutto ha un sapore estremamente forte, quasi di selvaggina, pur restando morbida e abbastanza grassa.
Un'altra colonna portante della cucina pechinese e settentrionale in generale è l'aglio, che insieme al coriandolo rappresenta il condimento principale. Poiché la medicina cinese sostiene che l'aglio faccia bene (lo sostiene anche la medicina scientifica, a dire il vero) raramente lo si limita, ma questo chiunque ha modo di constatarlo quando sale su un taxi o su un autobus. Si utilizzano molte verdure, ma tra queste nessuna ha più spazio del dabaicai (大白菜), una grossa verza verde chiaro che si vende per pochi spicci in grosse quantità, e ha un piacevole sapore amarognolo. Comuni sono anche gli cong (葱), dei grossi porri, i cetrioli succosi e agri, e altre verdure cinesi di sapore amaro non disponibili da noi. La cucina settentrionale usa relativamente poco riso e molte più preparazioni a base di grano tenero, come mian (面, vari tipi di pasta lunga), bing (饼, pasta sfoglia fritta o cotta al vapore), baozi (包子, panini ripieni al vapore), mantou (馒头, panini vuoti al vapore) e jiaozi (饺子, ravioli). Di ravioli in Cina ce ne sono moltissime varianti: ci sono gli shaomai (烧麦) a sacchetto, aperti in cima; gli hundun (馄炖, più noti in occidente come wonton) con le falde lunghe e serviti in brodo; e i jiaozi, quelli più famosi fatti a mezzaluna. I jiaozi sono tipici del nord e qui sono generalmente grossi e spessi (laddove nel sud tendono ad essere piccoli e a sfoglia sottile); sono serviti per lo più bolliti e al consumo sono conditi con abbondante aceto, talvolta mescolato ad aglio o una goccia di salsa di soia. I jiaozi tipici di Pechino sono pieni di carne di maiale e dabaicai, verdura che come i crauti con l'aceto dà il suo meglio.

Vediamo ora alcuni dei piatti più famosi. Da essa scartiamo in partenza la famosa anatra alla Pechinese, che è un piatto nato nelle cucine imperiali, cucinato solo in pochi ristoranti attrezzati e pur essendo ormai considerata il piatto pechinese per eccellenza, non ha nulla in comune con gli altri piatti popolari pechinesi.

Zhajiangmian
(炸酱面) – il vero piatto della plebe pechinese sono questi mian lunghi e spessi, consumati bollenti d'inverno e freddi d'estate, serviti in grosse ciotole con almeno sei verdure tra cui sempre cetrioli e fagiolini, e una salsa fritta fatta di maiale e fagioli. Il tutto si serve separato, lo si fa mescolare dal cliente, e il sapore finale è un bel salato misto al sapore naturale delle verdure. Da provare.

Jingjiang Rousi
(京酱肉丝) – strisce di maiale fritto servite con striscioline di cipolla e quadratini di doufu cotti al vapore. Per mangiarli si prende il fazzoletto di doufu, lo si riempie di carne e verdura e lo si arrotola come un involtino. Pare che il nome del piatto sia in effetti Jinjiang Rousi (津酱肉丝) e che sia stato inventato a Tianjin, ma oramai in quasi tutta la Cina è noto come pechinese.

Yang Xiezi
(羊蝎子) – una specialità invernale sono le vertebre d'agnello stufate. Le si serve in un calderone di metallo pieno di salsa ribollente a base di verdure e spezie varie, e nella migliore tradizione cinese zozza il cliente riceve un grembiule e guanti di plastica usa e getta. Si tolgono dal pentolone con le bacchette e si spolpano alla maniera barbara. Meravigliose.

Ma Doufu
(麻豆腐) – è una sorta di crossover sichuanese-pechinese. Si tratta di doufu mescolato con una salsa e condito con fagiolini verdi, peperoncini e una punta di pepe verde del Sichuan. A questo punto lo si frigge nel grasso d'agnello e lo si serve con delle bing fritte. Ha il sapore del fritto ma essendo doufu è sorprendentemente leggero e digeribile.

Ganguo Yangrou
(干锅羊肉) – bocconcini di agnello cotti in una pentola di ghisa e conditi con poco olio, abbondante coriandolo e una punta di cumino. Altri piatti simili sono il tiepan yangrou (铁盘羊肉) cotto sulla piastra con cipolle e cong e in generale molto più unto, oppure il più leggero agnello con scalogno saltato in padella.

Di San Xian
(地三鲜) – letteralmente “le tre freschezze della terra”, si tratta di patate, melanzane e peperoni verdi saltati in padella con olio e una bella aggiunta di grasso.

Tanghulu
(糖葫芦) – questo è in realtà un dolce da strada, amato non solo dai bambini ma anche dagli adulti. Si tratta dei frutti tondi e rossi dello shanzha (山楂) o biancospino cinese, infilzati su un bastoncino di bambù e canditi con dello zucchero che addolcisce la loro naturale agrezza.


Adesso se passate da Pechino sapete cosa provare. E non provate a cercare questi piatti in Italia che tanto non li troverete mai! :)


2010-02-01

Riti Privati

Gli italiani si chiedono spesso: dove vanno a finire i cinesi che muoiono? Sull'argomento c'è un'inspiegabile silenzio, tale che sono sorte varie leggende metropolitane in base alle quali i cinesi morti vengono bruciati in forni segreti sotto China Town, sciolti nell'acido oppure riciclati nei jiaozi (il che curiosamente trova parallelo in una storia medievale cinese in cui i pellegrini venivano trasformati dai briganti in farcia da raviolo avvelenata per uccidere altri pellegrini). La verità è che i cinesi vivono la morte in maniera estremamente privata e, un po' per rispetto verso gli antenati e un po' per superstizione, non parlano praticamente mai dell'argomento e anche se interpellati tagliano corto e cambiano discorso.

E' durante il Chunjie che vengo effettivamente a scoprire come le cose funzionano, perché insieme a Dandan e famiglia andiamo a visitare la tomba dei nonni paterni. Per i cinesi questo avviene solitamente nel giorno dei morti, quarto giorno del quarto mese lunare (vi ricordate che quattro e morte si pronunciano uguali?), ma a causa delle migrazioni per il Paese della generazione più giovane, oggigiorno il momento dell'anno in cui le famiglie si riuniscono è il Capodanno, e così si va. La cosa che più mi incuriosisce è il perché si vada al cimitero, e lo chiedo al signor Cheng: capisco gli italiani cattolici, ma voi siete atei e comunisti; se è vero che rifiutate le superstizioni feudali e non credete nell'aldilà, perché andate a riverire i morti al cimitero? E' tradizione, mi spiega, queste cose vanno al di là della superstizione. E' l'unica volta da che lo conosco che non mi fornisce una risposta chiara e soddisfacente, ma credo di capire cosa intende. Da un lato c'è il rispetto cinese per le tradizioni, che esistono di per sé stesse e non per quello che rappresentano; e dall'altro l'affetto che lega genitori e figli, che trovano sollievo nel recarsi nel luogo dove giacciono i corpi dei loro predecessori.

Io, Dandan, padre e madre prendiamo il nostro bravo autobus che dopo una lunga corsa ci porta all'estrema periferia di Chengdu. Si tratta di un tipico sobborgo fatiscente di città cinese, completamente asfaltato e fatto di case brutte, squadrate e cadenti. Mi stupisce mio suocero, quando commenta che cinque anni fa era tutto prati verdi e risaie, e solo l'anno scorso si vedevano ancora passare contadini per la strada. Questa è la Cina d'inizio XXI° secolo, cari miei.
L'economia del quartiere si regge chiaramente sul cimitero, infatti tutti i negozi sulla strada vendono gran quantità di articolri funerari: non solo fiori e ceri, ma anche incensi, petardi e una quantità incredibile di repliche infiammabili di oggetti prestigiosi. E qui vale la pena di elencarli: il più classico è il denaro. Ci sono mazzette da 10, 50 e 100 kuai, ma invece della faccia del Grande Timoniere abbiamo di tre quarti Yanluo Wang, il re dell'Inferno (che fondamentalmente sembra un qualunque mandarino dallo sguardo saggio e spietato). Invece della dicitura “Bank of China” c'è scritto “Bank of Hell”, e tutti gli altri dettagli sono cambiati di conseguenza. Ora, il denaro da bruciare ha una lunga Storia in Cina, e fin dai tempi antichi lo si trova. Il principio è che bruciando, il denaro si trasforma in aria, ossia qi o spirito, e raggiunge il defunto, che potrà avvalersene nell'aldilà per guadagnare prestigio e faccia, instaurare guanxi e corrompere gli ufficiali dell'Inferno, che come quelli terreni sono particolarmente sensibili ai regali. Invenzioni più moderne sono invece i cellulari, status symbol fondamentale per ogni cinese, perfette repliche in carta; e poi orologi (alcuni con la scritta Rolex ben in evidenza), automobili in miniatura, ville in miniatura, e chi più ne ha più ne metta. Anche qui l'inventiva cinese non ha limite. La famiglia Cheng, essendo una famiglia di intellettuali educati e comunisti, ignora queste superstizioni e cammina oltre i banchetti di questi articoli.

Percorriamo la strada recentemente asfaltata e già dissestata che porta alla collina su cui sorge il cimitero. Numerose macchine sia ricche che povere sono parcheggiate a bordo strada. All'entrata del cimitero vero e proprio c'è ad attenderci un esercito di ayi, armate di spugna e secchio d'acqua, che offrono i loro servigi per lavare le tombe. Ne prendiamo una e saliamo la china verso la tomba dei nonni. Le tombe cinesi sono simili alle nostre, ma più piccole: infatti i corpi vengono inumati prima d'essere sepolti. Anche lo spazio per i morti è poco e i cimiteri sono sovrappopolati e probabilmente un bel po' di tombe sono abusive. Le lapidi in sé sono per lo più alte un metro, cilindriche e spesso rastremate verso l'altro a mo' di obelisco; sono di cemento coperte di piastrelle di ceramica, le stesse piastrelle usate ovunque in Cina per coprire i muri delle cucine, de bagni o dei vecchi grattacieli costruiti negli anni '80. Essendo incollate allo stesso modo cinese, la metà sono frantumate a terra dopo il primo anno. Sul lato anteriore le lapidi hanno targhe di marmo incise, che portano spesso la foto del defunto e la dedica di chi sopravve loro.

Guardiamo l'ayi pulire rapidamente le lapidi dallo sporco accumulatosi nei mesi precedenti, e rimaniamo in riflessione sul significato che per noi ha essere in quel luogo ora. Quindi, pagata e congedata la pulitrice, accendiamo un tricchetracche, che fragorosamente scoppietta per un buon mezzo minuto. E' per attirare l'attenzione degli spiriti e avvisarli che ci sono visite, mi spiegano; effettivamente il rumore sveglierebbe anche i morti. Quindi piantiamo una piccola bandiera di carta sulla lapide, tenendola ritta con del fango, per segnalare che c'è stata una visita, non solo ai morti ma anche ai vivi. Ai piedi della lapide deponiamo le offerte, ossia frutta fresca, frutta secca e fiori. La madre di Dandan taglia i fiori lasciando il gambo separato dalla corolla: Dandan mi spiega che se i fiori sono lasciati interi, qualcuno verrebbe a rubarli e li rivenderebbe. La praticità vince sempre su tutto in Cina. Di solito si offrono sigarette agli uomini, ma sempre Dandan mi spiega che siccome il nonno è morto di cancro ai polmoni, è meglio non offrirgli altre sigarette. Sorrido, stupito da questa logica. Di solito è in quest'occasione che soldi e simili vengono bruciati, ma come ho già detto la famiglia Cheng fa volentieri a meno di queste pacchianate.

Accendiamo delle candele, quindi ciascuno di noi prende in mano tre bacchette d'incenso e, a turno, fa koutou - ossia si inginocchia e si prostra con la fronte quasi a terra -, pianta le bacchette d'incenso nel terreno e parla brevemente con i morti, salutandoli, raccontando cos'è successo dall'ultima volta che si è fatta visita, e augurando di stare bene nell'aldilà. Ci si aspetta che lo faccia anch'io, essendo ormai quasi un membro della famiglia: la cosa è abbastanza strana, parlo in italiano perché in cinese non saprei che dire. Mi presento, proclamo la mia onestà e la mia volontà d'essere un buon marito e prendermi cura di Dandan. La famiglia sembra soddisfatta, senz'altro la cosa ha un profondo significato per loro. E' stata creata una relazione anche con le generazioni passate, una presentazione più importante di quella con qualunque altro parente ancora in vita.

Da parte mia, mi sento privilegiato nel poter essere stato testimone di un rito così fondamentale e così segreto, una cosa veramente di famiglia. Sebbene non creda minimamente che i morti mi sentano, so che mi sentono i vivi, ed è per loro che sono qui. Forse sto cominciando anch'io a pensare come un cinese, come un asiatico. Forse non c'è alternativa, quando si vive in Asia. E forse è anche e soprattutto per questo, per cercare altri modi di pensare e di sentire, che sono venuto in questo Paese. Oggi, certamente, ne ho trovati.