2008-08-04

Il Tempio di Dajue

E così, anche questo fine settimana niente Datong. E niente Chengde. Ma è il nostro anniversario, e io tra queste strade asfaltate e respirare carbone e gas di scarico non ci sto.


Così, sabato mattina, io e Dandan carichiamo lo zaino della sera prima in spalla. Cinque fermate di metropolitana, due di monorotaia, trenta chilometri di bus e tre di taxi più tardi ci vedono sulle pendici di una delle montagne a Ovest di Pechino, i famosi Xishan (西山), i monti occidentali che si vedono nei giorni in cui il cielo è più chiaro. Davanti a noi, la porta in restauro del tempio di Dajue (大觉寺). Il Tempio della Grande Consapevolezza, un eremo buddhista costruito in epoca Liao, attorno al 1068, e ovviamente rimaneggiato in epoca Ming e Qing, i cui imperatori, in perfetto stile cinese, lo resero irriconoscibile per celebrare la loro versione del passato. Tradizione peraltro non abbandonata nemmeno oggi: la Cina moderna ricostruisce i templi secondo la versione attuale di luogo sacro, non certo quella originale.


Il luogo è piacevole e silenzioso, l’aria è fresca e pulita e non ci sono orde di contadini, forse grazie al fatto che i monaci, espulsi durante la Rivoluzione Culturale, non sono mai stati rimandati indietro a gestire una trappola per turisti. Invece, l’ufficio locale per il turismo ha trasformato questo tempio millenario in una casa da tè, dove una tazza di Lipton in bustina viene 150 kuai, e i pu’er più rari arrivano a 1980 RMB al bicchiere. Un posto per ricchi, insomma. Paradossalmente questa scelta iper-commerciale ha permesso al tempio di mantenere una calma molto più vicina all’originale di tanti altri: niente folle di bifolchi con vecchi, bambini e cani al seguito, solo gente elegante e civile che sorseggia tranquillamente tè, si guarda attorno, scatta fotografie con discrezione. Nessuno sputa, nessuno butta rifiuti per terra, nessuno sparge la colazione al sacco a base di riso, aceto, salsa di soia e merda sulle antiche pietre.


Eppure, anche qui, il restauro moderno lascia i suoi segni. A parte due leoni in marmo, cui le guardie rosse hanno rotto il muso a martellate, il resto del tempio è stato risistemato. In alcuni casi bene, perché i padiglioni e le statue lignee dei buddha sono ancora lì, tarlate ma integre, e se restauro c’è stato non si nota. Ma poi, inevitabilmente, si notano i particolari sbagliati: le crepe dei gingko millenari vengono stuccate per proteggere la pianta dai parassiti, ma gli operai passano poi a inchiodare una corteccia di plastica al tronco, in modo da nascondere la stuccatura, così gli alberi sembrano in buona salute; le panchine messe a disposizione hanno lo schienale in ferro battuto, con la rappresentazione di un angioletto grassottello che suona l’arpa, simbolo ben poco adatto a un santuario buddhista; una volta c’era un famoso padiglione attorno a cui era cresciuto un albero i cui rami abbracciavano la struttura: siccome l’albero è morto qualche anno fa, adesso uno scultore sta rifacendo l’albero in silicone, in modo da farlo sembrare uguale.


Sulla via del ritorno prendiamo un taxi abusivo, e l’autista è particolarmente loquace. Anche lui, mosca bianca tra i suoi connazionali, si lamenta che il tempio ha ben poco a che vedere con quello che era un tempo. “Oramai ai cinesi interessa solo far soldi” mi dice, con una punta di tristezza “a nessuno interessa proteggere un tempio, a nessuno interessa far felice la gente e farla stare bene. A loro basta avere un bel parco e vendere il loro tè a prezzi impossibili”.

Non posso che assentire. Prima di scaricarci alla stazione della monorotaia, il tassista si volta un’ultima volta, per farmi una domanda che evidentemente gli frullava nella testa da tempo:

“Molti stranieri mi hanno detto che amano la Cina perché la trovano misteriosa. Io proprio non capisco: cosa ci trovi tu di misterioso in questo Paese?”

La mia risposta, tradotta da Dandan, è secca e diretta, e carica di infinita simpatia per le idee dell’uomo.

“La mia opinione è che la Cina ha smesso di essere misteriosa dopo il 1949”

Il tassista scoppia a ridere, annuisce divertito e alza il pollice come a confermare “ben detto”, saluta e riparte: “Arrivederci” ci auguriamo a vicenda.


Nella Cina moderna il mistero non c’è più, l’hanno assassinato. Niente è più sacro, niente è più interdetto ai profani. Tutti vanno dappertutto e nei templi non si procede secondo la fede, ma secondo il portafoglio. Spiriti e buddha non sono che attrazioni per far soldi, pubblicizzate e offerte a tutti in cambio di moneta. A chi importa l’essenza del messaggio buddhista? A chi interessa cosa significa la sacralità? A chi interessa commuovere e far riflettere, conservare un luogo di meditazione e poesia?


Ritornando verso casa, i palazzi grigi e moderni della periferia di Pechino che scorrono oltre il finestrino, sento la mia delusione ancora più forte del solito. Ma c’è una cosa nuova che mi consola un po’, un piccolissimo barlume di speranza: qualcuno in questo Paese, grazie al Cielo, la pensa come me.