2007-10-18

Tassisti d'ogni genere

I tassisti sono una delle figure portanti di Pechino. Ne abbiamo già parlato (qui, qui e in tanti altri post), ma non ne parleremo mai abbastanza. Esiste certamente uno stereotipo di tassista pechinese, ovvero sporco, puzzolente, umorale al punto da cambiare gentile a scorbutico a seconda della luna, lamentoso, pettegolo, ma onesto e dal cuore d’oro. Nella realtà però le versioni del tassista pechinese iperuranico sono quantomai varie, e oggi racconteremo di due di esse, diverse come il giorno e la notte.

Incontro il signor Fan una bella mattina d’inverno, nei pressi del Landao. La prima cosa che noto è il suo numero di serie, che comincia con due zeri seguiti da un due. Mi sorride, poi alza la mano per salutare una persona che vede per strada, che contraccambia il saluto. “Da quanto tempo guidi il taxi?” gli chiedo. “Sedici anni” risponde candidamente. Il signor Fan, laobeijingren (
老北京人), ovvero pechinese DOC, di quelli veri, ha cominciato a guidare il taxi nel 1990. Vive a Chaowai, dove apparentemente conosce tutti, e tutti conoscono lui. Per non annoiarsi, ascolta le notizie del radiogiornale, e ama commentarle con i passeggeri. Infatti propone subito come argomento l’accordo tra Cina e Francia per l’acquisto di Airbus, e mi racconta orgoglioso che proprio quel giorno c’è il volo inaugurale del primo velivolo, il più grande aereo di linea al mondo, tra Pechino e Parigi. Personaggio singolare il signor Fan, pulito ed educato. Vedendomi in difficoltà con il mio mandarino, mi chiede come me la cavo con il Beijinghua, e senza indugi tenta di insegnarmi alcune espressioni tipiche. Manco a dirlo, conosce le strade della città come le sue tasche, comprese le scorciatoie più impensate attraverso i xiaoqu. Il tassista ideale.

Tutto il contrario di Zhang, il tassista che incrocio qualche giorno dopo, sulla via per un hotel nella zona olimpica. Zhang sembra appena uscito di prigione: è nero, grasso, sporco, con occhi pallati da maniaco e apparentemente incapace di parlare, ma solo di grugnire. Per circa cinque minuti mi studia, spostando gli occhi folli dalla strada a me. Poi sorprendentemente articola alcune parole in uno strano dialetto fatto di erre arrotate, impossibile da intendere. Anche se comprendessi del resto, farei finta di non parlare cinese. Senza smettere di guidare su Anwai, zigzagando tra le quattro corsie del nostro senso, Zhang apre un cassetto della macchina e ne estrae un fagottino, che svolge con una mano sporca e con le unghie del mignolo e del pollice lunghe un centimetro. Dentro c’è un anello in oro giallo, con al centro un pezzo di plastica in finta madreperla circondato da brillanti a go go, la cosa più pacchiana del mondo. Me la mostra con atteggiamento losco: so benissimo che è rubato, e se non è rubato è totalmente falso. Probabilmente tutti e due. Scuoto la testa, pretendendo di non capire, ma quello equivoca e pensa che metta in dubbio l’autenticità dei brillanti. Quindi per provarmela, sfrega l’anello sul parabrezza, creandovi una bella riga obliqua di una trentina di centimetri. Poi mi mostra di nuovo l’anello, come dire “Lo vedi che sono diamanti veri?”. Io contino a guardare incredulo il parabrezza sfregiato dall’interno. Adamantino io alla sua offerta d’acquisto, Zhang mette via la patacca e si mette a ravanare in un altro scomparto, cavandone un bel biglietto da visita rosa con la foto di una ragazza mezza nuda. Ammicca. “OK?”. Perfetto, sono le due del pomeriggio e questo vuole portarmi a troie. Continua a guidare, va’, Zhang, che se no ci andiamo a schiantare. Mi molla al mio hotel visibilmente deluso, e guida via, in cerca di un altro pollo. Ma guarda te che gente che prendono al giorno d’oggi per guidare i taxi.

Ogni volta che salite su un taxi a Pechino potrebbe essere l’inizio di un’avventura. Come tale prendetela, inutile fare i seri e i distaccati. Non saprete mai con quale strano personaggio state condividendo il veicolo. Se avete esperienze del genere e vi va, postate pure nei commenti la vostra avventura a bordo di Beijing Taxi. Pu-er-yi-si wei-le-ka-mu tu Bei-jing Ta-ke-xi... a-gei-ne.

2007-10-13

Passeggiando nella Storia

Il progetto Friends of Old Beijing è cominciato, e in qualche modo sono anche riuscito a farmi assegnare alla zona di fianco a casa, che era quella che più mi interessava – il cosiddetto “vicinato” del Tempio dei Lama e dell’Accademia Imperiale. Nel mio gruppo ci sono altre sei persone: Rory è un architetto irlandese, alto grosso e torvo, molto pignolo ma tutto sommato simpatico e bonaccione; sua moglie Varvara è russa e fa l’artista, e con i due figli vivono in un siheyuan non molto lontano; una seconda coppia che vive in un siheyuan sono Yann, ingegnere informatico francese e Helja, finlandese, che lavora per un progetto dell’Unione Europea. Infine ci sono due studenti di finanza cinesi, Aaron dal Liaoning e la piccola Isa da Urumqi. Il gruppo è eterogeneo sia come origini che età, e anche gli interessi sono i più disparati. Non sempre è face riuscire a coordinarsi su cosa fare, e del resto il CHP ci ha detto di guardarci attorno e raccogliere informazioni interessanti, proponendo un piano mensile e revisionandolo totalmente il mese dopo, come è costume tra i cinesi, nel processo buttando via metà del lavoro già fatto.

Tuttavia girare per il vicinato è interessantissimo, specie perché ciascun membro condivide le sue inormazioni con gli altri, io la storia, Rory l’architettura, Isa chiacchierando con la gente che vive negli hutong, e via così. Scopro una dimensione prima ignota negli hutong, non solo mi lascio andare al ritmo pigro e sereno dei vicoli, ma ora comunico con i loro abitanti, e comprendo la natura dei simboli nelle strade, la loro economia, il loro sviluppo nella storia, è un nuovo mondo che si svela ai miei occhi. Due sabati mattina al mese si cammina, scattando fotografie e raccogliendo informazioni di ogni tipo sull’area di nostra competenza. E’ così che scopro l’inaspettato – che il Tempio della Macchia di Cipressi, e in seguito il Tempio dei Lama, in passato costituivano il cuore di un complesso religioso buddhista enorme, fatto di dormitori per monaci e lama, magazzini, stalle, ostelli per i pellegrini, templi minori, negozi di incensi e amuleti, ristoranti vegetariani, senza contare lo sciame di ambulanti che il passaggio dei fedeli attirava, dai veggenti ai cercatori di nomi (quelli che danno i nomi ai bambini secondo l’oroscopo e l’Yijing), dagli acrobati ai venditori ambulanti, dai mendicanti ai tagliaborse. L’immenso movimento che si creava attorno a questa zona di Pechino veniva tenuto a bada da numerose guardie che, la sera, buttavano fuori dalle mura tutti gli indesiderati, e imponevano il coprifuoco alla città dell’Imperatore. Tutto questo, fino a poco più di cent’anni fa, a meno di un chilometro da casa mia.

La fine dell’Impero segna la decadenza del quartiere buddhista, considerato feudale, e la vittoria dei Comunisti pone fine in modo brutale a qualcosa che ormai, per gli abitanti di Pechino, era già quasi dimenticato. Nell’agosto del 1966 le Guardie Rosse rastrellano il vicinato, deportano lama e monaci in campagna, e li sostituiscono con uno sciame di famiglie contadine, infilate una per stanza in tutta la zona.

Troviamo un dormitorio di lama fatiscente, con ormai una sola famiglia anziana che ci vive. I muri rosa scrostati, il cancello murato e i leoni di pietra dimenticati in un angolo. Metà del complesso ha i vetri rotti, le pareti posticce di mattoni, edificate all’arrivo dei nuovi inquilini, ormai cadono a pezzi. Una signora anziana ci racconta che le altre famiglie hanno venduto il loro diritto alla stanza e si sono trasferiti in grandi palazzi in periferia, oltre il Quarto Anello. Lei vorrebbe rimanere, ma la proprietà è stata comprata da un’azienda edilizia i cui piani sono piuttosto oscuri: se non vende, sarà buttata fuori a calci, e allora tanto vale uscire con le buone e intascare qualche soldo di risarcimento. Alle spalle del dormitorio, con i suoi tetti ricurvi e fregiati di piccoli animali di pietra modellati secoli fa, troneggia un moderno palazzo di vetro a 15 piani, che proietta la sua ombra minacciosa sul bene culturale ormai forse spacciato.

Alle spalle del Tempio della Macchia di Cipressi un signore, originario dello Shanxi, ci racconta che sulle pareti di casa sua, costruita su una predella circondata da vecchi scalini, ci sono iscrizioni che identificano l’edificio come un Tempio al Dio dei Cavalli, dove si benedicevano le cavalcature dei viaggiatori prima e dopo un viaggio, un punto di sosta importante per tutti i pellegrini abbienti; ricostruisco a fatica la pianta del tempio, cercando di separare pareti originali e aggiunte posteriori, fino a scoprire una bella struttura simmetrica, con l’asse in linea con il Tempio più a sud; ora però una strada passa dove fino a 50 anni fa sorgeva l’ala orientale; l’entrata posteriore è stata murata, e ciò che rimane è stato occupato da circa sei famiglie, che hanno riempito il cortile di baracche costruite a ridosso di alberi secolari.

Nei pressi di Andingmen ci intrufoliamo senza chiedere in un cortile ingombro di detriti – tricicli, banchi di scuola, scaffali distrutti a copi d’ascia. Sulle pareti interne si vedono ancora slogan sbiaditi della Rivoluzione Culturale, nelle stanze il pavimento di legno scricchiola e alcune assi sono sfondate. L’edificio, dove ora dormono dei lavoratori migranti in condizioni inumane, una volta era la casa di qualche personaggio importante, ma ora il complesso è tagliato a metà da un muro di cemento, oltre il quale sorge un palazzo di 10 piani, orribile parallelepipedo grigio con finestre unte, panni stesi e grate ovunque. Pare già in rovina, pieno di crepe e annerito dallo smog, eppure i passanti ci assicurano che non è stato ultimato più di tre anni fa.

E’ una Pechino nuova quella che scopro, grattando sotto lo strato di storia pesante che ricopre tutto. La gente non parla di quello che avveniva prima di 30 anni fa, nessuno ne scrive, e così la memoria si perde. Ma ancora certe pagine si conservano, e i vecchi amano raccontare agli stranieri che chiedono, seduti all’ombra di un muro sotto il sole di dicembre. E’ così che trovo il filo che unisce la Pechino antica, città degli Imperatori, e quella moderna, in cui vivo io.